Discorso
28 marzo 2007

Perugia - Lectio magistralis di Massimo D’Alema sul tema della “Governance Globale”

Testo dell'intervento


Ringrazio il magnifico Rettore dell’Università per avermi invitato a questa cerimonia e ringrazio i rappresentanti di molti prestigiosi Atenei italiani che hanno voluto essere qui oggi. Ringrazio inoltre le Autorità dell’Umbria della loro presenza e dell’opportunità che oggi mi è data di partecipare ad un evento importante, in un Ateneo che noi consideriamo un’istituzione al servizio della proiezione internazionale del nostro Paese per la diffusione della cultura italiana, della nostra lingua e della nostra civiltà. Si tratta di elementi importanti della politica estera dell’Italia.
L’Italia non è una grande potenza e le ragioni dell’influenza che essa esercita nel mondo sono legate più alla forza della sua cultura che non alla forza del suo sistema economico o alle sue capacita’ militari.
La cultura è il veicolo che consente al nostro Paese di esercitare un’influenza che si orienta nel senso della pace, della cooperazione, della costruzione di nuovi vincoli di solidarietà tra le diverse aree del mondo.

Ecco perché noi siamo grati all’Università per Stranieri di Perugia, sentiamo i vostri programmi come particolarmente correlati agli indirizzi dell’impegno internazionale dell’Italia: il Libano, i Territori Palestinesi, i Paesi della sponda sud del Mediterraneo, l’Afghanistan, luoghi ove si articola l’impegno di pace del nostro Paese. Concorrere alla formazione di giovani che saranno parte delle future classi dirigenti di questi paesi è senz’altro la garanzia e il suggello migliore di un futuro di sviluppo e di pace. Ed e’ per me un privilegio potermi rivolgere oggi agli studenti di questa Universita’: essi sono l’espressione vivente di una nascente società civile internazionale e cosmopolita, e una componente essenziale del nuovo “demos” della governance mondiale.

Noi siamo molto indietro da questo punto di vista, dobbiamo riconoscerlo. Siamo indietro nella capacità di attrarre verso l’Italia giovani da ogni parte del mondo e persino nella capacità di corrispondere a quel desiderio di Italia, che in modo naturale e spontaneo, vi è in tanti Paesi dove pure la presenza dell’Italia è viva e tende a crescere.

Siamo indietro dal punto di vista della programmazione e articolazione di un impegno coerente, continuo, organizzato; siamo indietro dal punto di vista delle risorse impiegate. Questo rende i risultati che riuscite a conseguire ancora più significativi e degni di lode; penso che anche il Governo vi debba, per questo, un ringraziamento. In questa conversazione non potro’ assumere impegni politici. Tuttavia potete essere certi che, ancor piu’ dopo questo incontro, nell’agenda del Ministro degli Esteri e’ annotata l’esigenza di una collaborazione che certamente deve essere rafforzata e arricchita di nuovi appuntamenti e di più stringenti assunzioni di responsabilità.

Abbiamo anzitutto bisogno del vostro apporto. L’Università per Stranieri ha grandi potenzialita’ in termini di collaborazione con l’attività di cooperazione internazionale dell’Italia, in linea con gli indirizzi della nostra politica internazionale.
Ho scelto per questo intervento il tema della governance globale. E lasciate che io inizi con un ricordo di gioventù, con il ricordo di un uomo politico, Enrico Berlinguer, che 25 anni fa accetto’ il rischio di apparire un utopista, parlando della necessità di un governo mondiale. Oggi, dopo un quarto di secolo, noi avvertiamo questa come una sfida di stringente attualità per la comunità internazionale.
Di fronte all’anarchia della globalizzazione, di fronte alle sfide e alle minacce che gravano sull’umanità, noi avvertiamo l’insufficienza degli strumenti internazionali della politica. Avvertiamo il bisogno di quella che Habermas ha definito un’estensione cosmopolitica della condizione giuridica, che è stata garantita dagli stati nazionali, o di quello che Giovanni Paolo II nella Centesimus annus chiamò un “ordine democratico planetario”: il bisogno cioè di dotarsi di istituzioni in grado di dare un ordine al mondo, di prevenire i conflitti, di ridurre le disuguaglianze e di garantire a tutti gli uomini e le donne che vivono nel pianeta il diritto ad una vita civile e serena. Questa esigenza di un nuovo ordine mondiale è divenuta più stringente dopo la fine della guerra fredda. Il bipolarismo, la divisione del mondo in due campi, dominato ciascuno da una grande potenza e l’equilibrio tra questi due campi garantito anche dalla minaccia nucleare, ha rappresentato nel bene e nel male un ordine nel mondo.
Il venir meno di questo ordine ha fatto emergere in modo sempre più drammatico i limiti di una struttura politica internazionale fondata largamente su una concezione ottocentesca della sovranità nazionale, la cui fragilità è progressivamente emersa in modo più acuto, man mano che la crescita di un’economia mondiale, globale, che per definizione non conosce i confini dello stato-nazione, ha reso evidente l’asimmetria tra le possibilita’ della politica e il peso dei grandi interessi economici.

Anche le minacce con le quali ci confrontiamo non hanno più un carattere nazionale. La guerra con la quale conviviamo in tante parti del mondo non è quasi mai quella forma estrema di regolazione di interessi contrastanti degli Stati, che è stata tradizionalmente la guerra. Le guerre non avvengono più tra gli Stati, sono guerre che sorgono all’interno di singoli paesi, talora di Stati “falliti”. Ci confrontiamo poi con un fenomeno del tutto nuovo, che è la guerra “transnazionale” del terrorismo. Il terrorismo è, in effetti, una forma estrema di privatizzazione della guerra, un conflitto che non ha bandiere, che non ha divise, che non ha nazione.
Ma anche la minaccia per l’ambiente non ha più un carattere nazionale. Le varie forme di inquinamento non rispettano i confini. Non appare possibile fronteggiare una sfida epocale come quella ambientale solamente attraverso politiche nazionali.
Siamo dunque di fronte a fenomeni che chiamano in causa la necessità di un salto di qualità nell’iniziativa politica e che impongono la necessita’ di immaginare nuove istituzioni democratiche in grado di governare il mondo. Questa e’ la grande sfida di fronte la quale si trova la nuova generazione. E’ una sfida paragonabile a quella che nell’800 portò in Europa alla nascita degli Stati Nazionali: una sfida che richiede il coraggio di una classe dirigente internazionale capace di scelte davvero impegnative ed innovative. Occorre anche uno sforzo da parte del mondo della cultura, perché è fuori discussione che è entrato in crisi un modo di concepire l’ordine internazionale che ha le sue radici nel paradigma dello stato moderno, e che rappresentava l’ordine globale come un sistema retto da un insieme di regole volte innanzitutto a prevenire e regolare i conflitti tra Stati.

Dopo l’89 nel mondo hanno prevalso euforie ed illusioni ideologiche. A lungo si è pensato che, venuta meno la minaccia del comunismo, non ci sarebbe stato più bisogno della politica. Fu anche teorizzato e scritto che compito della politica è semplicemente quello di rimuovere gli ostacoli che si frappongono all’espansione del mercato mondiale, confidando che il mercato - finalmente libero dai vincoli dello statalismo politico - avrebbe risolto i problemi del mondo provvedendo all’allocazione ottimale delle risorse. Il mercato avrebbe prodotto il migliore dei mondi possibili a condizione che la politica - l’ultima ideologia ottocentesca - si fosse fatta da parte. Ben presto ci siamo resi conto che la globalizzazione senza politica, assieme alle innegabili opportunità, produceva anche paurose contraddizioni e che il dilagare dell’ideologia del Mercato non soltanto non determinava condizioni di pace ma, al contrario, acuiva e portava con sé nuovi rischi e nuovi potenziali conflitti.

L’11 settembre del 2001, Bill Clinton disse: “io credo che abbiamo visto l’altro volto della globalizzazione”. Ci si rese conto che il “migliore dei mondi possibili” portava con sé nuove minacce e che l’attacco alle Twin Towers rappresentava per il pensiero contemporaneo ciò che il terremoto di Lisbona fu per gli intellettuali del ‘600- ‘700, rendendo evidente che il mondo ha bisogno di una consapevole azione umana in grado di prevenire i conflitti e ridurre il peso delle contraddizioni. Successivamente si è entrati nel periodo dell’unilateralismo, dell’idea che a dare un ordine al mondo bastasse l’etica liberale della Grande Potenza, ovvero - come ha scritto Habermas - che il nuovo ordine mondiale si potesse reggere sui suoi valori - da considerare universali - e sulla sua enorme forza, espandendo la democrazia e garantendo in questo modo la difesa della civiltà.

Anche questa è stata un’illusione che si è consumata abbastanza rapidamente. Oggi noi viviamo una nuova stagione della politica internazionale. Non è paradossale osservare che proprio coloro che teorizzarono la fine delle Nazioni Unite con la caduta di Baghdad (ricordo un articolo di Richard Perle del marzo 2003 dal titolo inquietante: “Tank God for the death of the UN”) oggi tornino a rivolgersi alle Nazioni Unite, chiedendone l’intervento per venire via da Baghdad. Si tratta di un paradosso, segno che le illusioni si sono consumate molto rapidamente e che l’esigenza di ricostruire il multilateralismo sia tornata al centro del dibattito politico, dell’impegno e dello sforzo internazionale. Certo deve trattarsi di un multilateralismo nuovo, efficace, non di un multilateralismo impotente come quello che abbiamo conosciuto in passato, non di un multilateralismo che rimane a braccia conserte di fronte alla violazione dei diritti umani, ma di un multilateralismo capace davvero di prevenire e risolvere i conflitti.
Questo è esattamente, io credo, il tema della governance globale nel nostro tempo: come rifondare il multilateralismo, come individuare le sfide che devono essere affrontate, le priorità, le scelte. E questo è esattamente il tema con il quale oggi si misura non solo la cultura ma anche la politica internazionale.

Dicevo appunto che questa esigenza nasce dal tramonto dell’euforia degli anni ’90, anni nei quali tutti noi fummo coinvolti da una visione spesso acriticamente ottimistica della globalizzazione e delle sue conseguenze. Alla fine degli anni ’90, le diverse crisi finanziarie (la crisi asiatica, quella russa, quella in Argentina) e i dati sul crescente divario tra Nord-Sud, e le nuove minacce alla sicurezza hanno drasticamente ridimensionato questo ottimismo.

Sul fronte economico e sociale si è cominciato a mettere in discussione quel Washington consensus sul quale si era retto guidato il funzionamento degli organismi internazionali. Si è iniziato a vedere il lato oscuro della globalizzazione e si è cominciato a guardare il mondo sotto un’ottica nuova, individuando non soltanto i paesi e i popoli winners - e certamente ve ne sono - ma anche i paesi e i popoli loosers, quelli che rimangono indietro, che vengono emarginati dai grandi processi di crescita della ricchezza e della socializzazione. Si è constatato che il pronosticato effetto generalizzato di diffusione del benessere globale è stato solo parziale: certamente molto forte in Cina e nell’Est Asiatico, che hanno beneficiato di una crescita sostenuta, ma i benefici della globalizzazione sono stati assai meno significativi in Africa ed in altre aree del mondo e, fino a poco tempo fa, in America Latina. In Russia, la globalizzazione sulla scia del crollo del comunismo non è riuscita nei primi 10 anni ad arrestare il declino economico, il calo demografico, la caduta delle aspettative di vita ed è stata invece percepita come una “occidentalizzazione” tanto forzata quanto inutile se non dannosa, ed alla fine ha provocato un rigurgito nazionalista, il riadattamento del mercato e delle procedure democratiche alle tradizioni nazionali e dirigiste russe.
All’interno delle stesse società occidentali ha cominciato a manifestarsi non solo il malessere degli esclusi ma anche la protesta di élites giovanili intellettuali, che si è manifestata nella crescita di movimenti di contestazioni alla globalizzazione e di critica ai caratteri della globalizzazione. In sostanza si è preso atto che molte delle speranze, alimentatesi dopo la fine della guerra fredda e con l’espansione della democrazia e del mercato globale, erano state disattese. I dati sono abbastanza chiari da questo punto di vista: se è vero che c’è maggiore ricchezza in termini assoluti, è anche vero che sono cresciute diseguaglianze e povertà. Secondo i dati dell’OCSE, 2,6 miliardi di persone vivono con un reddito al di sotto di 2 dollari al giorno, un miliardo vive con meno di un dollaro al giorno, il 2% della parte più benestante del pianeta detiene la metà della ricchezza mondiale.
E’ difficile pensare che un contrasto di questo tipo non porti con sé il rischio di laceranti conflitti. Il 2% detiene la metà della ricchezza mondiale: non è solo questione di reddito, ma anche di condizioni complessive per lo sviluppo umano, inclusi l’accesso alle risorse idriche, all’assistenza sanitaria, all’istruzione.
In più, la maggiore ricchezza complessiva del pianeta non ha portato maggior sicurezza.
Al contrario, abbiamo scoperto nuove minacce: quella che Peter Berger ha chiamato la “Holy War Inc” ovvero la multinazionale del terrore. Ciò significa anche il rischio di un conflitto alimentato sempre di più da ragioni di natura religiosa ed etnica e voi sapete bene come il conflitto alimentato da queste motivazioni sia un conflitto irriducibile. Le guerre che si fanno per interessi materiali possono facilmente approdare ad un tavolo della pace mentre le guerre che sono alimentate da ragioni religiose ed etniche tendono a divenire guerre senza quartiere. Sono queste, in gran parte, le guerre del nostro tempo.
La deregulation nucleare, è un'altra minaccia di cui oggi abbiamo maggiore consapevolezza: penso alla proliferazione di matrice “individuale” come quella innescata dallo scienziato pachistano Abdul Qadeer Khan, produttore di ordigni nucleari per stati committenti, oppure al possibile ricatto di “stati canaglia”, od anche al rischio che armi nucleari finiscano nelle mani di organizzazioni terroristiche o criminali. Questa minaccia nasce proprio da uno dei fenomeni più inquietanti del nostro tempo, quello dei cosiddetti “Stati falliti”: si tratta di Stati che non hanno un governo efficace nel loro territorio e nei quali si insediano nuove forme di criminalità transnazionale che assumono forme di potere sovrano, extragiuridico ed arbitrario.
E tornano infine d’attualità tragedie che sembravano dimenticate: non soltanto guerre etnico-religiose come avvenuto nei Balcani, ma persino la pratica della schiavitù e del traffico degli esseri umani.

Gli effetti meno positivi della globalizzazione provocato fenomeni di rigetto, il ritorno di populismi, di posizioni neo-nazionalistiche, di protezionismi. Lo abbiamo visto persino nel nostro continente, nei paesi dell’Europa allargata. Ma ciò si è verificato anche negli Stati Uniti, in occasione delle elezioni per il rinnovo del Congresso, in cui molti candidati si sono imposti sulla base di piattaforme fondate sul nazionalismo economico: questo è l’aspetto meno apprezzabile dell’ascesa di molti candidati del Partito democratico, il cui rifiuto della guerra si accompagna ad una sorta di neo-isolazionismo e anche di protezionismo.
Vi sono inoltre segnali preoccupanti che indicano un crescente pessimismo sulle aspettative future. Un recente sondaggio condotto per conto del “World Economic Forum” ha indicato che solo il 19 % degli europei e solo il 26 % degli americani crede in un futuro più prospero per la nuova generazione. In questo c’è una profonda frattura tra il sentimento delle nuove generazioni nei paesi più sviluppati e il sentimento delle nuove generazioni in molti dei grandi paesi emergenti. Noi viviamo in questa parte del mondo, che è stata definita da acuti psicanalisti “quella delle passioni tristi”, in cui le nuove generazioni si attendono un futuro peggiore di quello dei loro genitori e la “molla ad agire” è più la paura del peggio che non la speranza del meglio.
I grandi paesi emergenti vivono un sentimento diverso: il sentimento dell’aspettativa di un mondo migliore che determina una grande energia sociale. Io credo che anche per questo noi abbiamo bisogno di favorire una interazione intensa e costruttiva delle civiltà, e promuovere la condivisione delle esperienze.
Le incertezze ed i dilemmi di sicurezza del mondo globale hanno in alcuni casi sollecitato risposte di tipo militare ed unilaterale. Abbiamo già parlato degli Stati Uniti in Iraq, ma potremmo parlare anche di Israele nel Libano. In tutti questi casi la complessità e spesso l’elusività della minaccia asimmetrica ha frustrato i tentativi di affrontare e risolverne le cause piu’ profonde.

E’ chiaro che la guerra in Iraq costituisce un caso emblematico di non coincidenza tra debellatio e vittoria, tra conflitto tra stati e eliminazione della minaccia. Non appena vinta facilmente la guerra contro lo Stato iracheno è iniziata la vera guerra contro il terrorismo internazionale. La guerra tra gli Stati non solo non ha fornito una risposta, ma ha fornito al fenomeno del terrorismo un potente elemento di alimentazione. Una volta, quando il nemico era uno Stato, se ne occupava il territorio e si vinceva la guerra. Ma se, come avviene oggi, il nemico non è uno piu’ uno Stato, con l’occupazione del territorio la guerra diventa più terribile di prima. Ancora non esiste una dottrina, neanche militare, su come affrontare questa nuova minaccia e abbiamo avvertito in questi anni anche un gap culturale che ha reso più difficile lo sviluppo di un’azione efficace in grado di contenere efficacemente questi fenomeni.
Questo gap riguarda anche noi, che siamo stati critici verso l’unilateralismo: abbiamo potuto in modo efficace dimostrare la fallacia di quella politica, ma certamente incontriamo molte difficoltà nel mettere in campo una strategia alternativa. E’ evidente cioè che tutti questi tentativi di cui ho parlato hanno in comune un limite culturale: le sfide globali del mondo complesso attuale richiedono risposte globali. La forza del mondo globale e complesso tende a resistere alle risposte “in forma semplificata” proposte, ad esempio, dal neo-sovranismo.
Il punto principale che mi preme sottolineare è che l’unilateralismo, i nuovi nazionalismi, e anche un certo pessimismo di fronte al mondo globale, denotano in sostanza un deficit della politica. La globalizzazione economica e l’evoluzione del contesto della sicurezza internazionale sono avanzati ad un ritmo più veloce della politica. Ci troviamo di fronte ad un’evidente asimmetria e la comunità internazionale non è riuscita a rispondere tempestivamente ed efficacemente sul piano della governance alle nuove sfide del mondo globale.
Avvertiamo dunque il bisogno di una risposta politica, di adeguare regole ed istituzioni alla realtà attuale, il bisogno appunto di quel multilateralismo efficace, che è il tema intorno al quale lavorare.

Sono tre i punti principali che vorrei trattare: il primo riguarda il ruolo delle istituzioni internazionali per fare fronte a queste sfide e tradurre in pratica la prospettiva del multilateralismo efficace; il secondo tema riguarda l’agenda globale, in altre parole quali sono, in concreto, le sfide globali, che sono diventate sfide anche per i governi nazionali; infine, tratterò brevemente il tema del ruolo e della responsabilità dell’Europa, dato che è l’Europa la forma in cui l’Italia può partecipare ad un nuovo sistema di governance internazionale.

Il primo tema è il tema delle istituzioni. Le istituzioni della governance globale che abbiamo oggi sono nate sostanzialmente circa 60 anni fa. Le Nazioni Unite, il Fondo Monetario, la Banca Mondiale (le Istituzioni di Bretton Woods), la Nato.
Fanno eccezione il G7, nato Rambouillet nel 1975 e divenuto poi G8; e l’Organizzazione Mondiale per il Commercio nata nel 1995 sulle spoglie del GATT.
Il ruolo centrale avuto da queste istituzioni nel garantire stabilità, nel facilitare lo sviluppo del commercio e del sistema degli scambi e far avanzare i principi e norme per quanto riguarda sia i diritti individuali (si pensi non solo alla dichiarazione dei Diritti dell’Uomo nel ’48 ed ai successivi Patti delle Nazioni Unite sui diritti civili, politici, economici e sociali, sottoscritti da un largo numero di Paesi membri) che le norme di convivenza e reciproco rispetto tra gli Stati è innegabile. La Carta delle Nazioni Unite è diventata la nostra “Costituzione mondiale”. E’ stata del resto la presenza di queste istituzioni dopo il secondo dopoguerra che ha consentito di evitare il ripetersi, per il mondo e soprattutto per l’Europa, di esperienze tragiche come le due guerre mondiali. Bisogna dare atto agli Stati Uniti, dopo il tentativo sfortunato di Wilson, di essere stati gli artefici delle istituzioni della governance globale che abbiamo ancora oggi. Ed è soprattutto attraverso tali istituzioni che gli USA hanno potuto esercitare, ma in maniera condivisa, la loro leadership internazionale. Il patto implicito tra gli Stati Uniti e le altre democrazie occidentali, negli oltre quarant’anni di guerra fredda, si è fondato sul riconoscimento da parte degli alleati della leadership americana, in cambio dell’accettazione da parte degli Stati Uniti di condividere con essi e “moderare” questa leadership nell’ambito delle istituzioni comuni. La questione di fondo tuttavia è un’altra, e riguarda l’adattamento di queste istituzioni ad una realtà profondamente mutata ed in rapida trasformazione, realtà in cui il potere mondiale si è fortemente diffuso ed il numero degli attori si è moltiplicato. Le istituzioni del ’45, per esempio, ponevano le premesse ma non contemplavano il processo di decolonizzazione. La natura delle sfide politiche ed economiche è cambiata. E’ dunque solo con una riforma di queste istituzioni e dimostrando che esse sono ancora capaci di svolgere una funzione efficace che diventa credibile proporre soluzioni concordate, evitando la logica di scelte unilaterali. Due sono le questioni peinciplai che vanno affrontate: la prima riguarda l’adattamento degli strumenti della governance globale alle nuove sfide; la secondo concerne la rappresentatività ed inclusività delle istituzioni multilaterali. Entrambi questi aspetti determinano la legittimità dell’architettura istituzionale internazionale agli occhi dell’opinione pubblica mondiale.

Innanzitutto sono gli strumenti di cui queste istituzioni dispongono ad essere scarsamente efficaci e spesso insufficienti. Ad esempio, pensiamo nel settore della sicurezza alle forze al servizio delle Nazioni Unite per le sempre più numerose missioni militari di peacekeeping (molto spesso missioni per mettere fine a guerre civili all’interno di stati in dissoluzione). Pensiamo poi al problema della sicurezza degli approvvigionamenti energetici, dove manca un vero strumento multilaterale: solo l’Europa ha cercato con la Carta europea dell’Energia di dotarsi di uno strumento efficace, peraltro non ratificata dalla Russia, il principale produttore della materia prima. In proposito non esiste una regolazione internazionale che stabilisca doveri e diritti reciproci di consumatori e produttori. Alcuni strumenti e regimi multilaterali su cui si è fondata finora la stabilità del sistema, come il Trattato di non proliferazione nucleare, si trovano d’altra parte sempre più “sfidati” dalla nuova globalizzazione che ha aperto le maglie della proliferazione.
Il problema è che la strumentazione istituzionale ideata dopo il ’45 era imperniata sugli stati nazionali, sulla loro sovranità e su sfide di sicurezza diverse da quelle di oggi. Come sottolinea Paul Kennedy, a Bretton Woods, Yalta o San Francisco, non si parlava nemmeno di terrorismo internazionale, di riscaldamento globale, di Stati in disgregazione, temi che invece oggi si collocano al centro dell’agenda internazionale.
E’ evidente che abbiamo il problema di rafforzare sia gli strumenti normativi che le capacità di enforcement delle decisioni da parte delle istituzioni multilaterali per mettere queste ultime in condizione di reagire tempestivamente ed efficacemente alle sfide globali.

L’altro aspetto centrale riguarda la legittimità e la rappresentatività delle istituzioni della governance: non solo il Consiglio di Sicurezza ma anche istante finanziarie, come il G8, che riflettono rapporti di potenza che non corrispondono più alla situazione attuale.
Il Consiglio di Sicurezza è lo specchio dell’equilibrio creatosi al termine della Seconda Guerra Mondiale e si compone quindi in parte di “potenze” (i membri permanenti) di cui alcune, oggi, non sono più tali. Mi dispiace doverlo dire a qualche paese europeo amico, tuttavia questa è la realtà del mondo. Il G8, i cosiddetti “grandi della terra”, senza la Cina, l’India, il Brasile, non funziona più. Le istituzioni finanziarie internazionali sono espressione solo di una parte del mondo e sono viste in una altra grande parte come istituzioni estranee o addirittura ostili. Dobbiamo ammettere che queste istituzioni “euro-occidento-centriche” non rappresentano più in maniera adeguata il mondo di oggi; non rappresentano i mutati equilibri economici e demografici; mentre i paesi emergenti si sentono svantaggiati, sottorappresentati e privati della loro influenza.

Il Fondo monetario non funziona sulla base del principio “uno Stato un voto”, mentre invece, come dice Stiglitz, al suo interno “votano i dollari” cioè i paesi più ricchi. Il Direttore Esecutivo del Fondo Monetario Internazionale è per tradizione un europeo, mentre il Presidente della Banca mondiale è un americano, “nominato”, in pratica, direttamente dal presidente degli Stati Uniti. Potremmo quindi dire che il Fondo Monetario è Internazionale ma con un marchio europeo e americano, mentre la Banca è mondiale, ma il suo Presidente è uno dei più stretti collaboratori del Presidente degli Stati Uniti. Il problema è estremamente complesso e il dibattito sui formati delle istituzioni è ancora molto aperto. Non c’è del resto solo il dibattito sull’allargamento del Consiglio di sicurezza, la discussione è più ampia.
Ad esempio, in occasione della crisi finanziaria degli anni ’90, si riunì a Berlino per la prima volta il G20, il gruppo dei ministri delle finanze e dei governatori delle Banche centrali dei 20 paesi più influenti, che comprendeva finalmente la Cina, l’India, il Brasile, l’Indonesia, l’Arabia Saudita, il Sud Africa e la Turchia. Alcuni hanno successivamente proposto di trasformare questo formato in un foro politico, che non fosse né un organo decisionale, né tantomeno vincolato ad un Trattato come nel caso del Consiglio di Sicurezza, ma che tuttavia fosse inclusivo delle Nazioni più rappresentative del mondo globale con la funzione di favorire la costruzione di un consenso internazionale sulle principali problematiche globali e trans-nazionali. E’ questa soltanto una delle proposte avanzate. Tony Blair ha suggerito di dare vita ad un G13 con la Cina, l’India, il Brasile, il Messico, il Sud Africa. Il dibattito è tutt’altro che esaurito.
La sfida consiste nel conciliare le diverse esigenze. Da un lato, quella di allargare la base rappresentativa delle istituzioni globali attuali, per renderle più democratiche, più inclusive, più ricettive delle istanze della comunità globale nel suo insieme, e dall’altro quella di evitare che una maggiore inclusività infici l’efficacia delle istituzioni, soprattutto per quanto riguarda i processi decisionali. E’ un dibattito che ci è familiare, in fondo, e che ripropone su scala internazionale una discussione molto simile a quella che oggi vivono gli europei su come allargare i confini europei senza ridurre l’efficacia dei meccanismi di decisione.
Vorrei concludere su questo punto con un’osservazione: qualsiasi riforma delle istituzioni globali non può che essere consensuale: deve essere condivisa, cioè, dal massimo numero di Stati nazionali. C’è dunque bisogno del contributo di tutti, ma è evidente che le potenze più grandi, i paesi più sviluppati, quelli cioè che fino ad ora hanno avuto ed hanno tuttora un peso preponderante in queste istituzioni, hanno una responsabilità speciale nel ricercare il consenso e nel mostrare all’intera comunità internazionale la loro volontà di far funzionare il multilateralismo in maniera efficace e democratica al tempo stesso. Voglio sottolineare che l’Italia, sotto questo profilo, sta facendo la sua parte. Anzitutto sul tema della riforma del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: l’Italia ha lavorato ad una proposta che va decisamente nel senso di un meccanismo più aperto, più inclusivo, più democratico, più rappresentativo.

Quali sono i temi dell’Agenda globale? Quali sono, cioè, i temi su cui si misura il multilateralismo che noi vogliamo sia più efficace? E’ chiaro che le istituzioni globali non possono fare tutto: l’idea di una global governance che si basa sulla creazione di un supergoverno mondiale accentratore è senz’altro sbagliata e costituisce un disegno velleitario poco realistico. A tutti i livelli, innanzitutto a livello globale, deve valere il principio di sussidiarietà, secondo cui le decisioni vanno prese il più possibile vicino ai cittadini, mentre a livello globale bisogna ricercare le sole scelte volte ad affrontare le grandi sfide globali. Il core di questa agenda comprende i problemi e le minacce che non possono essere risolti a livello nazionale.
E vi sono, a mio giudizio, quattro aree chiave nell’Agenda globale: le nuove minacce alla sicurezza (anzitutto terrorismo e proliferazione nucleare); il tema dell’energia e della tutela dell’ambiente; l’esigenza di una riduzione delle disuguaglianze e di una lotta alla povertà che non può essere affrontata solo su scala nazionale; e, infine, la gestione dei grandi flussi migratori.

Terrorismo, proliferazione nucleare e stati “critici” rappresentano una triade di minacce che per semplificare tendiamo ad associare, ma che si possono anche presentare separatamente. Si tratta soprattutto di minacce mobili che non si possono affrontare né in modo unilaterale, né esclusivamente o prevalentemente attraverso lo strumento militare, ma che necessitano di una forte cooperazione internazionale, di una condivisione di principi e di attività politico-diplomatiche. In tema di non proliferazione, il caso iraniano è emblematico. In generale, io ritengo che la proliferazione, in un mondo così incerto, dove gli attori non sono soltanto gli stati, sia un rischio per tutti, e anche per gli stati stessi che aspirano oggi ad acquisire uno status nucleare. Global governance in questo delicato settore significa difendere e consolidare il corpo delle regole contenute nel Trattato di non proliferazione. Il Trattato ha avuto in parte successo perché ha consentito almeno di limitare la corsa agli armamenti atomici. Questo successo è stato per larga parte dovuto alla cooperazione tra le due superpotenze. In passato il Trattato ha funzionato perché il duopolio nucleare era sotto il controllo americano e sovietico. Oggi il contesto è diverso: servono consenso e cooperazione più ampi tra i diversi players nucleari per sostenere le regole del gioco. E’ evidente che assai difficile è porre un argine alla proliferazione, se non si comincia dalla riduzione degli arsenali nucleari delle grandi potenze. Io credo che dopo l’89 si sia perduta una grande occasione da questo punto di vista. Questo è un tema che noi vogliamo riproporre nella politica estera italiana. Non a caso, durante la visita che ho compiuto in Giappone, ho voluto visitare Hiroshima ed ho voluto altresì discutere col governo giapponese, che ha come è comprensibile una forte e peculiare sensibilità su questo tema, la possibilità che l’argomento riappaia nell’Agenda internazionale quando l’anno prossimo il Giappone assumerà presidenza del G8. Credo davvero che questa torni ad essere una questione importante, di cui ci si deve occupare.

Brevemente sull’ambiente e l’energia.
Le energie rinnovabili non sono, per ora, ed anche per i prossimi anni, un’alternativa complessivamente sostenibile al nostro fabbisogno. E’ chiaro che il “mix” dovrà progressivamente spostarsi verso un uso crescente delle fonti rinnovabili. Tuttavia, per una fase purtroppo non breve fossili e idrocarburi resteranno fondamentali; anzi, nei prossimi anni la domanda crescerà in modo esponenziale, trainata soprattutto dallo sviluppo economico dei paesi emergenti, in primis la Cina. Ciò avrà inevitabili effetti sull’emissione di CO2, con prevedibili drammatiche conseguenze ambientali. Energia e ambiente sono tra loro connesse e presentano un triplice ordine di problemi. Primo, una domanda crescente che dovremo cercare di ridurre. Secondo, il problema della sicurezza di approvvigionamenti, su cui dovremo cercare di negoziare con i paesi fornitori. Terzo, le emissioni di CO2 che dovremo cercare di contenere. Non si tratta di problemi semplici, ma di sfide dalla cui soluzione dipende molto in termini di possibilità di sviluppo, di sostenibilità ambientale e di sicurezza. Credo che, senza una cornice multilaterale, condivisa e reciprocamente vantaggiosa per quanto riguarda i paesi produttori e consumatori di energia (evitando cartelli e strategie a somma zero), queste sfide non si possano vincere. Di qui l’esigenza di definire un regime ambientale condiviso, dopo Kyoto, da tutti i paesi principali consumatori di energia.

Sul tema della lotta alla povertà, alle disuguaglianze.
Sarà difficile avere un mondo più stabile e sicuro senza una riduzione del divario economico Nord-Sud. Lo vediamo soprattutto, ma non solo, in Africa dove la povertà alimenta conflitti, che a loro volta creano mortalità, malattie, flussi di rifugiati, traffici di armi e droga, che a loro volta finanziano gruppi armati e terroristici. Cito un dato che mi sembra significativo: secondo uno studio del Ministero per lo Sviluppo economico britannico, un Paese con un reddito pro-capite 250 dollari ha il 15% di probabilità di alimentare entro cinque anni conflitti all'interno del suo territorio, mentre questo rischio è soltanto dell'1% per i paesi con un reddito pro-capite di 5000 dollari. La lotta alla povertà appartiene quindi al dominio della 'crisis - prevention'. Tra gli obiettivi del millennio vi era quello di dimezzare la povertà entro il 2015; e nel 2002 a Monterrey i Paesi industrializzati si assunsero l'impegno di devolvere lo 0,7% del loro PIL agli aiuti allo sviluppo. A Gleneagles, nel 2005, i paesi del G8 decisero inoltre la cancellazione del debito verso il FMI e la Banca Mondiale dei diciotto paesi più poveri del mondo. Sono stati indicati molti obiettivi ambiziosi, solo in parte poi effettivamente raggiunti. Da questo punto di vista, l’Italia, dopo aver varato una delle leggi più avanzate in materia di riduzione del debito bilaterale verso i paesi più poveri del mondo, ha poi proceduto per alcuni anni all’indietro, collocandosi in coda alla classifica dei paesi industrializzati in termini di impegno verso i paesi più poveri del mondo. Adesso stiamo cercando di riguadagnare terreno: ad esempio, raddoppiando i fondi per l’aiuto allo sviluppo, cosa non banale nell’ambito di una legge finanziaria che è stata contrassegnata dalla riduzione degli stanziamenti più che da un loro aumento. Io credo dunque che molto resta da fare e penso che occorra una vera e propria 'strategia multilaterale’, articolata attraverso azioni multi-settoriali e sinergiche rivolte agli stati 'deboli', che non si esauriscano nella cancellazione del debito, ma che comprendano una politica più intelligente di incentivi allo sviluppo dell'economia attraverso il microcredito, il sostegno alla società civile attraverso l’institution-building, programmi di formazione, il trasferimento di tecnologie. Al di là di singole iniziative separate ancorché lodevoli, credo che sia mancata sinora una strategia complessiva concepita e portata avanti in un rapporto effettivo di collaborazione tra i paesi ricchi e i paesi poveri, attuabile soltanto nel quadro di una comune assunzione di responsabilità.

Infine, una parola sul grande tema delle migrazioni. Le proiezioni demografiche indicano un allargamento della forbice demografica tra Nord e Sud del mondo. Entro il 2025, nel Nord del mondo la popolazione si ridurrà di 29 milioni, mentre aumenterà di 1.6 miliardi nel sud del mondo. E' un problema che riguarda in particolare l'Europa ed anche l'Italia. Per quanto concerne il nostro Paese, secondo le stime dell'ONU, se nei prossimi 50 anni volessimo mantenere stabile la nostra forza lavoro dovremmo aprire le porte a oltre 350 mila immigrati l'anno per un totale di oltre 19 milioni. La pressione demografica si avvertirà soprattutto da parte dei Paesi del Mediterraneo e del Medio Oriente. Si pone quindi per tutti, per i paesi di emigrazione e quelli di immigrazione, un problema enorme di governance. Le migrazioni possono essere una camera di compensazione di questo squilibrio demografico perché soddisfano la domanda di manodopera nelle nostre società, che sono sempre più vecchie, e consentono inoltre di mantenere il livello sociale anche dal punto di vista dei costi del welfare. Le emigrazioni servono anche ad alleviare le povertà dei paesi emergenti: pensiamo a quanto pesa il flusso delle rimesse degli immigrati. Tuttavia le emigrazioni pongono enormi problemi di carattere sociale, culturale e di sicurezza, e non possono essere affrontate se non attraverso una gestione condivisa di questi flussi coinvolgendo i Paesi dai quali provengono, ad esempio gli Stati africani, dei Paesi attraverso i quali passano, ad esempio in Nord Africa, ed infine dei Paesi verso i quali sono diretti, vale a dire i nostri. Davvero questa è una questione che non può essere affrontata attraverso tabù, attraverso chiusure nazionalistiche, attraverso campagne populiste o razziste. Questa è la sfida sulla quale davvero si misura la qualità di una classe dirigente in grado di progettare il futuro e di costruirlo in un inevitabile rapporto di governance condivisa con altri Paesi, con altri continenti. Tutto questo, e concludo, credo che sarà essenziale per noi negli anni che verranno.

Infine, il contributo che l’Europa potrà dare nel consolidamento della global governance.
L’Europa e l’Unione Europea offrono già oggi un contributo importante alla governance globale. L’Europa attuale è nata dalla condivisione di sovranità dei suoi membri ed in quanto tale si trova ed agisce a suo agio nell’attuale contesto globale e interdipendente. Non è un caso che la strategia di sicurezza europea varata nel 2003 sia imperniata sulla cooperazione internazionale e sul multilateralismo efficace. Non vi è dubbio che in questi anni l’Unione Europea anche in quanto attore normativo, oltre che economico, sia riuscita ad affermare con successo il suo approccio originale alla soluzione dei problemi internazionali. Certamente si tratta di un approccio nuovo e diverso rispetto alla tradizionale logica di potenza degli stati sovrani, che privilegia il dialogo rispetto al confronto, che concilia interessi e valori democratici, che privilegia il rispetto del diritto internazionale e delle istituzioni internazionali. Quest’Europa, intanto, deve forse rivendicare ciò che di importante ha fatto; ne parliamo sempre, forse troppo, e male. Il metodo europeo è, io credo, il metodo giusto ed efficace per far fronte alle sfide globali. L’Europa può quindi dare il suo miglior contributo alla nuova governance. Tuttavia essa ha bisogno di fare un salto di qualità nella sua capacità di pensare e di agire in maniera unitaria. Laddove l’Unione Europea agisce in maniera coerente, come nel commercio e nel settore della sicurezza ambientale, il suo contributo alla governance riesce ad essere incisivo. Non è questo però il caso di altri settori, come la sicurezza o l’energia. Il problema fondamentale, come ho ripetuto più volte, è quello delle istituzioni. Senza un rafforzamento delle istituzioni comuni, sulla base di quanto era previsto nel trattato costituzionale, sarà difficile avere un’Europa in grado di reggere le sfide globali e di conseguire attivamente alla formulazione dell’agenda globale.
Nelle istruzioni chiave della global governance, l’Europa parla ed agisce oggi in maniera separata. Ciò costituisce in sé un anacronismo nel momento in cui il sistema internazionale va acquisendo caratteristiche crescentemente multipolari e sempre meno eurocentriche. Mi sembra questa, cioè la proiezione esterna dell’Unione europea, ed in particolare in seno alle istituzioni globali, un punto chiave che dobbiamo affrontare. Noi stiamo cercando, ad esempio, in quanto membro non permanente del Consiglio di Sicurezza, condizione in cui si trova oggi il nostro Paese, di coordinare le posizioni dei paesi europei, di portare l’Unione Europea nel Consiglio di Sicurezza. Il che sarebbe tra l’altro previsto anche all’articolo 19 del Trattato sull’Unione Europea. Ma si tratta di un esercizio meno semplice di quanto si possa pensare. Questo perché alcuni Paesi, come la Francia e la Gran Bretagna, essendo membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, si sentono gli eredi di una grande tradizione. Come se lì, nel Consiglio di sicurezza, non ci fosse più l’Unione Europea. Io credo che noi europei la prova di quanto questo approccio possa rivelarsi illusorio l’abbiamo avuta nel modo più clamoroso di fronte alla guerra in Iraq. Ci siamo divisi: alcuni paesi si sono accodati agli americani, altri paesi si sono opposti alla guerra. Quelli che si sono uniti agli americani lo hanno fatto nella convinzione di poter condizionare le scelte americane. Il risultato è stato che né gli uni né gli altri hanno esercitato alcun peso reale. Solo quando l’Europa è unita e laddove è unita l’Europa è in grado di esercitare un peso reale. C’è una fondamentale ragione di interesse: basti pensare, mi è capitato di dirlo più di una volta, anche di fronte a platee che mi guardano, per dire la verità, quasi indignate, che un’Europa divisa in pochi anni scomparirà dal G7, giustamente scavalcata dalla Cina, dall’India, dal Brasile.
L’Europa unita è la più grande potenza commerciale del mondo ed è la seconda potenza economica del mondo. E’ uno degli attori fondamentali dell’ordine internazionale. L’unità dell’Europa è dunque l’unico modo che può consentirle di avere un peso nella costruzione di un ordine mondiale. Non è soltanto una sorta di orgoglio di nazionalistico europeo che mi spinge ad affermarlo, ma anche la convinzione che l’assenza dell’Europa nella costruzione di un ordine mondiale significherebbe anche assenza dei nostri valori, cioè di quel peculiare patrimonio di democrazia, libertà individuali e diritti sociali che costituisce appunto il fondamento della civiltà europea. Valori che qui hanno messo radici più profonde che in altre parti del mondo, valori a mio giudizio utili ad una comunità internazionale alla ricerca di nuove regole e di obiettivi comuni. Insomma l’Europa ha un grande potenziale per contribuire a rafforzare regole della governance globale e per partecipare alla costruzione di “beni pubblici globali”. Ma per farlo ha bisogno di dotarsi di istituzioni più efficaci, più democratiche, più unitarie.
Viviamo in un mondo carico di incertezze, viviamo in una stagione ricca di enormi potenzialità, ma anche carica di contraddizioni e di pericoli imminenti. Il messaggio conclusivo è che, per vincere questa sfida, per mettere riparo ai pericoli e valorizzare le potenzialità, c’è bisogno di attingere a quel patrimonio che è stato elaborato nel corso dei secoli scorsi: il retaggio culturale, storico e quello di civiltà che hanno trovato nella politica e nella democrazia gli strumenti per affrontare le sfide, per governare le contraddizioni e garantire sicurezza e progresso alle popolazioni. Anche le grandi sfide globali hanno bisogno di una risposta che faccia leva sulla politica e sulla democrazia. Questa risposta è ancora in gran parte da costruire. Compito delle classi dirigenti di oggi è crearne le condizioni, compito delle nuove generazioni è assumere questa grande sfida come una scommessa che essi devono vincere, perché solo vincendola si garantiranno un futuro migliore e si garantiranno un futuro di progresso in grado sconfiggere le paure che sembrano dominare il nostro tempo.
La sfida può essere vinta. Penso che stiamo vivendo, in questi ultimi anni, un momento in cui, messe da parte le illusioni che hanno dominato il decennio scorso, finalmente l’intera comunità internazionale si pone dinanzi a questi temi in modo costruttivo. In questo quadro, l’Italia vuole fare e sta già facendo la sua parte.

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