Discorso
20 aprile 2007

Firenze - 4° Congresso dei Democratici di Sinistra

Testo dell'intervento


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Care compagne e cari compagni,
credo che questa nostra forte, appassionata e, per certi aspetti, anche dolorosa discussione, che si accompagna al dibattito della Margherita a Roma, stia dando al Paese la consapevolezza che stia accadendo qualcosa di importante, che si sta producendo un cambiamento vero. Penso a quei “cambiamenti veri” che sono rari nella vita politica di un grande Paese, in particolare in Italia, dove spesso sono proclamati, ma più raramente vengono effettivamente realizzati. Essi, inoltre, quando ci sono, producono sempre resistenza, fatica, sofferenza.

Di questo grande cambiamento, credo dobbiamo essere grati in modo particolare al presidente del Consiglio, a Romano Prodi, alla sua tranquilla determinazione, con la quale, nel corso di lunghi anni, ha perseguito in Italia il disegno della costruzione di una grande forza in grado di unire i riformisti. Dobbiamo essere grati per il coraggio con cui ci ha proposto, in un momento difficile, di andare uniti alle elezioni europee e di continuare su quel cammino, fino all’appuntamento di oggi.

Non è un caso che l’on. Silvio Berlusconi abbia voluto essere qui, ieri, e oggi a Roma, al congresso della Margherita, volendosi misurare con questa novità, attraverso parole di apprezzamento. Un fatto significativo, perché l’uomo ha indubbiamente una straordinaria percezione di quello che si muove nel profondo della società italiana e credo che noi che lo abbiamo combattuto non dobbiamo sottovalutarne le capacità. Quando lo abbiamo fatto, abbiamo sbagliato.

L’uomo, dicevo, ha voluto essere sulla scena, nel momento in cui si compiva un cambiamento che egli comprende essere profondo e reale, che rappresenta una sfida per tutta la politica italiana, compreso, quindi, il centrodestra. Anch’esso, per essere all’altezza della competizione del futuro, deve probabilmente -ed io lo spero- incamminarsi lungo la strada della costruzione di una grande forza politica conservatrice del nostro Paese, capace di incarnare la destra, oltre le frammentazioni della Casa delle libertà.

Il Paese ha bisogno di una politica nuova. Non è, la nostra, una strana avventura, nella quale -come è stato detto- ci siamo incamminati per incoscienza o politicismo, mentre avremmo dovuto dedicarci a governare l’Italia. No, noi stiamo facendo ciò che abbiamo promesso agli elettori. Noi abbiamo vinto le elezioni perché c’era l’Ulivo, altrimenti le avremmo perdute. E le abbiamo vinte perché l’Ulivo ha saputo attrarre più voti, in particolare tra le nuove generazioni, di quelli presi singolarmente dalla Margherita e dai Democratici di Sinistra. Per questo siamo al governo del Paese. E l’Ulivo era lì -lo dicemmo- anche come promessa di un nuovo grande partito.

Dunque, noi stiamo dando attuazione ad una parte importante, direi cardinale, del nostro programma di rinnovamento della società italiana, che comprende la necessità di una politica nuova. Non è una scelta frettolosa o accelerata. Lasciatemi dire, con quel tanto di implicito riferimento autocritico, legato alla storia di questi anni, che, semmai, è una scelta tardiva rispetto alla forza con cui il progetto dell’Ulivo si è imposto come una delle poche, grandi novità di questa seconda stagione della nostra Repubblica.

Dopo molti anni, l’Italia non è ancora uscita da una lunga e logorante crisi democratica. Rimane in bilico fra tentazioni personalistiche e plebiscitarie, ed un parlamentarismo frantumato, rissoso, impotente, lento, rispetto alle necessità di una democrazia moderna. La politica perde legittimità, perché si indeboliscono le sue radici nella società italiana. Se noi non avvertiamo questo rischio drammatico, vuol dire davvero che non rappresentiamo più quella grande forza popolare che siamo stati durante la nostra storia.

Non si esce da questa crisi senza cambiamenti radicali. Lo stesso bipolarismo va ripensato, anche se non nella sua essenza, perché credo comunque che esso abbia fatto fare un grande passo in avanti rispetto all’immobilità del centrismo e alla cooptazione delle classi dirigenti. Però, credo anche che vada ripensato nelle sue forme, perché nel nostro sistema convivono un maggioritario talora brutale, privo di regole, senza contrappesi, senza la forza di valori condivisi, ed una cultura del proporzionale, che permane con tutti i suoi egoismi, le sue vanità, le sue ricerche di visibilità. Aspetti che ormai infastidiscono il Paese, il quale chiede alla politica serietà, coerenza, coesione.

Lo so, la questione italiana non si concentra solo nella perdurante crisi della politica, come vuole far credere una pubblicistica corrente. La politica è assediata da quel qualunquismo che è un tratto antico della cultura nazionale, alimentato da una borghesia che, non essendo un potere forte, ha bisogno di essa e la vuole debole perché all’occorrenza sia più flessibile. Ma spetta a noi uscire dalla logica devastante di classi dirigenti impegnate a darsi la colpa gli uni con gli altri (politici, giornalisti, imprenditori), anziché assumersi una comune responsabilità per il destino dell’Italia.

Se vogliamo che la politica riacquisti autorevolezza, credo che dobbiamo saper vedere cosa c’è da fare, con coraggio, forza, nettezza, per ricostruire una struttura politica in grado di guidare la società italiana, di combattere ingiustizie, corporativismi ed egoismi. Una politica in grado di unire il Paese e di liberarlo da quel senso di paura per il futuro, per le sfide che abbiamo di fronte.

Dico ciò, perché questo sentimento di paura è stato davvero il tratto della destra, ciò che ha alimentato la sua forza di massa: paura verso le sfide di un mondo che cambia, l’illusione che si possa difendere il privilegio di una parte della società italiana alzando le barriere dell’ostilità verso le grandi economie emergenti, verso il dramma, ma anche la ricchezza dell’immigrazione. Una cultura della paura che ha dato forza alla destra e che non la si sconfigge soltanto con la predicazione di una società aperta, bensì con la capacità di governare il Paese e di portarlo all’altezza delle sfide da cui dipende il destino comune degli italiani.

Ripeto: il destino comune degli italiani, non la somma dei destini individuali. Intendo quella lotta contro furbizia e individualismo, che sono i mali antichi di questo Paese, nel quale le classi dirigenti sono più preoccupate dal dove andare a rifugiare le loro ricchezze, anziché dal come investirle per lo sviluppo e l’occupazione. Sono più preoccupate dalla scelta dell’università straniera dove mandare i loro figli, anziché dal rinnovamento e funzionamento dell’università italiana.

Un Paese che sembra avere smarrito il senso della propria forza, della propria vitalità, della propria capacità di vivere l’epoca della globalizzazione come un’occasione. Siamo uno straordinario popolo cosmopolita, intelligente, e dovremmo vivere questa stagione come una straordinaria opportunità.

Per vincere questa sfida non basta rappresentare soltanto i bisogni, le aspirazioni, pur legittime, di una parte della società. Occorre un grande partito, in grado di esprimere quello che, in un linguaggio antico, si sarebbe definito un “nuovo blocco sociale”, di cui il lavoro è una componente essenziale, ma che non può – come ha ricordato Bersani poco fa – prescindere dalla vitalità del mondo dell’impresa.

Lavoro, impresa, cultura sono le componenti di un nuovo patto sociale per cambiare questo Paese, per una società più aperta e più giusta, per riuscire fare insieme ciò che in Italia non rappresenta una contraddizione, perché in nessun paese come nel nostro liberalizzare, rimuovere chiusure corporative e privilegi di casta è insieme liberale e socialista; è insieme a favore della concorrenza e del mercato, da una parte, ma anche a favore di nuove opportunità e di maggiore eguaglianza, dall’altra. Questa è la condizione dell’Italia e noi dobbiamo riuscire a fare in modo che di fronte alle sfide di oggi prevalga la speranza sulla paura.

Il lavoro che ho l’onore di svolgere, mi porta a viaggiare nel mondo che, intorno a noi, cambia con una straordinaria rapidità. Nel messaggio di Margaret Mazzantini, mi ha colpito quel riferimento allo sguardo opaco dei giovani. I grandi Paesi, sempre più protagonisti sulla scena mondiale, sono società giovani, mentre la nostra comincia a essere relativamente vecchia. Con la curiosità di un uomo che oramai pensa ai propri figli e spera di poter pensare ai propri nipoti, io guardo con curiosità a questi giovani. Il loro sguardo, in India, in Brasile, in Cina, non è opaco, è vivo: può esprimere qualche volta odio nei confronti dell’Occidente, qualche volta disperazione, molte volte speranza del domani. Queste società, che spesso vivono nella miseria e nello sfruttamento, sono animate dalla fiducia di poter stare meglio. Speranza nel futuro: c’è una straordinaria energia nel mondo che cambia.
Qui da noi, nella vecchia Europa, ce n’è di meno: molte volte c’è paura del futuro, con l’idea nei nostri figli che essi non godranno degli stessi diritti, privilegi, di cui abbiamo goduto noi. C’è un senso di precarietà, di incertezza, non solo riferita al lavoro. D’altra parte, la società italiana ha vissuto, tanti anni fa, una condizione del lavoro che era ancora più dura, con momenti di sofferenza, di sfruttamento, ma c’era comunque speranza nel futuro.

Oggi, il rischio è che si guardi al futuro senza fiducia, senza convinzione. Io penso che questo sia il più grande problema che abbiamo. A questo proposito, credo che sia impossibile cambiare e costruire uno stato sociale che annulli l’incertezza della società moderna; ma ridurre la precarietà e accompagnare l’individuo nella società fluida in cui viviamo, questo non solo è possibile, ma è una grande questione politica, culturale, ideale.

Si tratta di restituire al nostro Paese, innanzitutto alle giovani generazioni, il senso della missione dell’Italia e dell’Europa, il senso di cosa ci stiamo in questo mondo che cambia e quali valori vogliamo interpretare. Aggiungo l’Europa, perché senza di essa, i valori della democrazia e della libertà, la difesa dei diritti umani, conterebbero meno nel mondo che si va unificando. Insomma, penso al senso di una missione che dia a questa generazione fiducia e volontà di contribuire al futuro di questo Paese, rifuggendo la tentazione di mettersi come individui, al riparo dai rischi e dalle sfide che oggi ci incalzano.

Allora, io credo che questa sia la prova per l’Italia del centrosinistra, l’Italia governata dall’Ulivo. Partiamo dalla realtà. Noi abbiamo avuto una discussione nella quale una parte del nostro partito ci ha detto: “voi state facendo una svolta moderata”. Ma io mi domando: noi siamo al governo del Paese, dov’è la svolta moderata? Nel profilo internazionale che ha assunto il nostro Paese, sotto la guida del Partito democratico? L’Italia guidata dal Pd ha contribuito a voltare pagina dopo la stagione dell’unilateralismo, a rimettere al centro il sistema delle Nazioni Unite, a rilanciare l’unità europea, per intraprendere con coraggio la via della pace e del dialogo.
L’Italia dell’Ulivo lavora ad una coalizione internazionale che sconfigga davvero il terrorismo, coinvolgendo l’Europa, gli Stati Uniti, il mondo islamico, il mondo arabo, per cogliere le speranze e fugare il rischio di un conflitto di civiltà.

Dov’è la svolta moderata? Nell’allargamento che l’Italia guidata dal Pd ha dato dell’orizzonte della nostra politica estera? Siamo tornati i Cina, dopo anni in cu si parlava di quel Paese solo per dire ‘’dazi’’, se non a addirittura per dire che “bollivano i bambini”. Abbiamo guardato alla trasformazione di questi Paesi come ad una grande opportunità per la nostra economia e la nostra azione politica. Se la prova del governo è la prova del Pd, io non vedo davvero il rischio di una involuzione moderata.

Sulla scena europea, inoltre, mi pare che il Pd sia entrato con la forza di un progetto che interroga il Socialismo europeo. Losciatemelo dire: anche qui, su questo punto, da parte dello spettatore esterno ci sarà stato almeno un senso di straniamento tra l’assistere ad un dibattito nel quale ci siamo sentiti dire che stiamo ‘’abbandonando il Socialismo europeo” ed il fatto che il Socialismo europeo è venuto qui, ad incoraggiare le nostre svolte, ad interloquire con il processo di costruzione del Partito democratico.

Non so se noi lo stiamo abbandonando, il Socialismo europeo, certo il Socialismo europeo non sta abbandonando noi. Anzi, con ogni evidenza esso guarda alla nascita di una nuova grande, forza riformista dell’Italia come ad un un’opportunità per se’ stesso, il Socialismo europeo quello vero, di cui noi siamo parte, che conosciamo, che non è non è un idolo, ma è un movimento con la sua forza, la sua storia ed anche le sue contraddizioni e le sue difficoltà. Non è un feticcio, un simbolo ideologico, quello che in un’epoca lontana -quando eravamo più giovani, più spregiudicati e più eretici- qualcuno avrebbe definito un “bambolotto di pezza”.

Il Socialismo europeo è una grande forza reale, che vive anche un’autentica crisi, alla ricerca di nuove vie, per allargare i suoi orizzonti. Non a caso, negli ultimi anni sono stati fatti diversi tentativi, dalla mutazione blairiana del laburismo inglese “center, center, left”, fino all’ambizione della Spd di diventare il nuovo centro nella società tedesca, attraverso grandi partiti della sinistra riformista e di governo che puntano a conquistare il centro della società, la maggioranza e il governo dei loro paesi.

Questa è la sinistra riformista in Europa e questo è il Socialismo europeo. Guardiamo alla Francia, dove vi e’ una destra che sta cambiando perche’ Nicolas Sarkozy non ha il volto del gollismo tradizionale. Noi siamo qui a tifare per Ségolène Royal, tuttavia sappiamo che nell’auspicabile sfida con Sarkozy, la sinistra potrà vincere soltanto se saprà saldarsi con le ragioni di un elettorato moderato, democratico, europeista, che si è raccolto attorno a Francois Bayrou. E neppure in quella Francia che più di ogni altra società europea ha tradizionalmente rappresentato la logica di un bipolarismo destra-sinistra, neppure lì, oggi, il socialismo vince se, in qualche modo, non va oltre i suoi confini e non costruisce nuove sintesi e nuove alleanze.

Questo è il Socialismo europeo, quello vero, che ha bisogno del Partito democratico che stiamo costruendo in Italia. E questo lo si è capito dal messaggio aperto e interlocutorio, che, spero, sia stato inteso sia da chi, nel nostro partito, teme che ci distanziamo dal Pse, sia da chi continua a ripetere, nei confronti del Socialismo europeo, un anatema ideologico. Anche qui -e sono d’accordo con Dario Franceschini- nessuno può pensare di imporre un’egemonia ideologica, perche’ nessuno puo’ diventare qualcos’altro.

Il problema è un altro: il Pd non può nascere nella logica di una terza forza tra socialisti e conservatori in Europa. Esso puo’ nascere con l’ambizione di essere una componente di un rinnovato polo progressista, riformista, socialista, non solo socialista. E’ in questo modo che il Pd diventa un progetto per l’Europa e puo’ rappresentare un messaggio innovativo. C’erano molte delegazioni straniere, in questo congresso, che avrebbe dovuto isolarci da tutto il mondo in una eccezione italiana. Invece ho sentito qualche amico dire: “finalmente dalla sinistra italiana torna un messaggio innovativo, creativo’’.

Ritengo che il grande problema con cui ci confrontiamo sia quello di costruire su scala internazionale, perché questa è la dimensione della sinistra, una coalizione in grado di misurarsi con le sfide di oggi, che sono quelle ricordate da tante compagne e tanti compagni. Mi riferisco alla sfida che riguarda il futuro del pianeta, che impone cambiamenti dadicali non soltanto rispetto al modello di sviluppo economico, ma anche rispetto alla qualità della vita delle persone. Penso alla sfida della lotta alla povertà, alla fame, all’esclusione. Penso alla sfida della violenza, del terrorismo e della guerra, che si vince innanzitutto attraverso la capacità nel mondo globale di imparare a convivere, a rispettarsi e a conoscersi. E ancora, la sfida della libertà delle persone, dunque da un lato libertà dalla paura e dall’altro libertà di realizzare un proprio progetto di vita.

Il grande problema con cui si misureranno le giovani generazioni di oggi e quelle future è esattamente quello di dare un orizzonte globale alla democrazia, tema tutt’altro che arcaico o banale. Infatti, e’ un tratto identitario, per nulla superficiale o generico, di un grande partito nuovo che nasce. E’ stata la democrazia politica ad aver consentito alla sinistra democratica del mondo occidentale di realizzare quel compromesso tra sviluppo, libertà e diritti individuali, sociali e civili, che ha caratterizzato le nostre società.

Questo compromesso è entrato in crisi nell’epoca della globalizzazione. Ricostruirne le condizioni comporta la capacità di sviluppare un’azione politica che si muova nell’ambito di un mondo unificato. L’illusione che fosse il mercato a unificare il mondo è svanita negli anni successivi alla caduta del muro di Berlino. Oggi la sfida investe la politica e non puo’ essere vinta solo dal socialismo, ne’ in Italia, ne’ su scala mondiale. Essa richiede -anche qui uso un’espressione antica- un nuovo “internazionalismo”, capace di costruire una grande coalizione progressista e riformatrice, che comprenda le forze democratiche, progressiste, di diversa ispirazione.

Se questa è l’ambizione di una sinistra vera, io credo che la nascita del Partito democratico ci aiuti a fare un passo in avanti, non ad arretrare di fronte ad una prova così ambiziosa. Certo, compagni, la fatica del cambiamento noi l’abbiamo avvertita. Forse siamo arrivati a questo passaggio in modo diverso da come l’avevamo immaginato all’indomani delle primarie che indicarono Prodi capo della coalizione di centrosinistra. Forse siamo stati troppo cauti, lo dico per me, non per chi ha condotto con generosità, con forza, con coraggio, questo processo, e mi riferisco –per quel che ci riguarda- innanzitutto a Piero Fassino.

Se non siamo arrivati nel migliore dei modi possibili a questo passo, tuttavia sono convinto che cio’ non debba rappresentare una ragione per farci indugiare ancora. Bisogna andare avanti e farlo con slancio. La verità di questa innovazione la misureremo nelle settimane e nei mesi della Costituente, per la qualità delle idee che verranno messe in campo, perché il nostro congresso e quello della Margherita sono solo l’avvio di un grande dibattito democratico che deve coinvolgere la società italiana. E la misureremo dalla quantità delle persone che verranno in campo, perché in democrazia la quantità è qualità. E, anche qui, penso che noi non possiamo accontentarci del risultato, pure straordinario, di un congresso nel quale hanno discusso e votato 250.000 italiane e italiani: dobbiamo moltiplicare lo sforzo, proprio perché paghiamo un prezzo sulla strada di questo rinnovamento.

Cari compagni, ci conosciamo da tanti anni, lo sapete: a me non piacciono le smancerie e tendo ad essere rude. Ma questo non significa che io non avverta con profondo dispiacere personale il senso di un allontanamento che non condivido. Mi sia consentito dirlo, perché rispettarsi e volersi bene non significa far finta… ‘’che bello, ve ne andate’’. No, questo sarebbe fare un torto alle persone con le quali abbiamo lavorato tanti anni, con cui c’e’ un legame molto profondo ed antico.

Consentitemi soltanto una digressione autenticamente personale: tantissimi anni fa, erano i giorni in cui si consumava la rottura del ‘’Manifesto’’, Fabio Mussi ed io fummo incerti. Noi eravamo simpatizzanti del ‘’Manifesto’’, egli era più importante di me, perché membro del comitato centrale del partito, ma eravamo molto legati. Avevamo raccolto gli abbonamenti, eravamo parte di quella che allora era una “frazione segreta”, ma anche per questo più solidale. Fummo incerti se seguirli e abbandonare il Partito comunista, o restare.

Salimmo su quello che allora era il nostro unico mezzo di locomozione -la motocicletta di Mussi- e ce ne andammo su uno di quei monti che circondano Pisa, dai quali si va verso la Lucchesiana, in campagna. Li’, facemmo una discussione tra noi su cio’ che avremo dovuto fare: se abbandonare o no il Partito comunista. Una scelta importante. Venimmo alla conclusione che, per quante buone ragioni vi fossero –noi condividevamo largamente la piattaforma del ‘’Manifesto’’- cio’ non giustificava il fatto di separarsi dalla grande forza, che, nel bene e nel male, per noi rappresentava la maggiore speranza per il Paese. Dopo, solo dopo aver parlato di politica -perchè allora eravamo così- Fabio mi disse che Luana aspettava un figlio e che si sarebbero sposati. Adesso, sua figlia è una scienziata e noi, dopo quarant’anni, siamo sempre a far baruffa come quei vecchietti nell’ultima scena del film di Bertolucci “’900”. Quindi, figuratevi un po’.

Io non voglio fare un parallelo con le scelte di allora, perche’ tutto era diverso: in quei tempi davvero noi eravamo legati a quella idea “extra ecclesiam nulla salus”. Ora ce ne siamo liberati, siamo diventati più laici e, tuttavia, dopo tanti anni, io avverto questa separazione con senso di sofferenza e sento il dovere di dire che è una scelta sbagliata. Sento anche il dovere di dire -perché questo è il mio carattere- che noi faremo di tutto per dimostrarvelo, che sta nascendo una nuova forza della sinistra, che non stiamo svanendo la sinistra italiana. E sono sicuro, perché conosco l’onestà intellettuale di questi compagni, che, se noi ce la faremo, essi saranno i primi a riconoscerlo.

Fabio ha detto una cosa che mi ha colpito: ha parlato di quarant’anni dedicati a questo partito e alle sue trasformazioni. È vero: il partito che siamo oggi è apparso (persino ingiustamente, perché non in realta’ non è veramente così), come l’ultima trasformazione del partito dove eravamo tanti anni fa. E Gavino Angius, con un senso di obbligazione, ha detto: “beh, compagni, oggi non stiamo decidendo da soli”. È vero, e lasciatemi aggiungere: finalmente! Finalmente, oggi non stiamo decidendo da soli. Il Partito democratico non nasce come Minerva dalla testa di Giove, ma alla fine rappresenta quel cambiamento, cui abbiamo aspirato in questi anni, proprio perché lo costruiamo con gli altri, in ogni città, attraverso la creazione di comitati, in modo aperto, con uno sforzo che deve essere straordinario.

Occorre andare oltre la platea delle forze politiche ed anche dei comitati degli appassionati, perché la società civile è più ampia di essi. Ha ragione Prodi: dobbiamo arrivare ad una elezione popolare dell’Assemblea costituente, momento in cui i cittadini italiani che vogliono dare vita al Partito democratico vanno, votano, versano una quota e ricevono una tesserina. A quel punto, spero che ne conteremo più di un milione, perché noi dobbiamo ridare un fondamento forte alla politica, rilegittimarla, rimettendoci in discussione come struttura organizzata e come persone.

Anche in questo senso, vorrei spiegare, senza alcun retroscena, ciò di cui abbiamo discusso, convenendo con Fassino: noi dobbiamo dare il senso dell’avvio di un processo accelerato di trasformazione. Serve una transizione rapida. Piero ha ricevuto un mandato pieno a condurci verso il Partito democratico, ha portato avanti con coerenza questo impegno. Abbiamo deciso, abbiamo sofferto e non ha senso che adesso ci mettiamo a riedificare i Ds, come se nulla fosse stato. Non c’è bisogno di avere un presidente del partito. È un orpello inutile, in una forza politica che si muove in modo accelerato nella transizione verso la costruzione di un nuovo, grande partito.

Non ci sono assi da rompere o da costruire, è semplicemente un segnale di chiarezza e di buon senso, che e’ uno dei valori cui si è riferito Sergio Cofferati, con una proposta davvero eversiva in un Paese come il nostro. Si tratta di un atto di ragionevolezza, ma voglio anche aggiungere che a questa decisione si accompagna la disponibilità piena ad un impegno solidale. Piero ha detto che intende chiamare intorno se’, nelle forme che riterrà giuste, le maggiori personalità del partito, ovviamente in modo anche pluralistico, per lavorare insieme in queste settimane, in questi mesi. Ha fatto il mio nome: io sono a disposizione. Ci credo e credo che dobbiamo mettere ogni energia in questo impegno.

Nessuno mancherà all’appello. Siamo pronti a rimboccarci le maniche, a metterci in discussione. Ci piace anche l’idea di dimostrare che siamo, nel bene o nel male, la classe dirigente della sinistra, non una oligarchia che vuole mantenere sé stessa ad ogni costo. E che siamo disposti a metterci in discussione in un grande processo democratico di transizione politica e di mutamento generazionale negli anni a venire, così come ha indicato, in modo chiaro e generoso, Romano Prodi.

Noi siamo convinti, in questo modo, di rendere un servizio al Paese ed alle idee e convinzioni che ci muovono da tanti anni nell’impegno politico. Questo grande partito non ha raggiunto i risultati che si proponeva e qualcuno ha affermato che l’obiettivo del Partito democratico è anche il riconoscimento che non siamo riusciti: è vero. Tuttavia, non possiamo dimenticare che in questo Paese, dalla caduta di un grande partito comunista, noi siamo riusciti, nell’epoca in cui il comunismo falliva e cadeva nel mondo, a riedificare una sinistra che ha saputo mantenere vivi i suoi ideali, che ha saputo contribuire ad una grande coalizione di governo, che ha mantenuto l’Italia legata all’Europa e che, per due volte, con Romano Prodi, è tornata al governo.

Non è tutto, ma è molto ed è qualcosa di cui tutti noi dobbiamo sentirci orgogliosi, nel momento in cui celebriamo l’ultimo congresso dei Ds, guardando al futuro, guardando con generosità ad una nuova, grande forza per il nostro Paese.

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