Discorso
8 maggio 2007

Per un’Europa senza veti

Ampi stralci dall’intervento del ministro degli Esteri Massimo D'Alema all’università di Oxford.

Traduzione di Carlo Antonio Biscotto e di Sara Bani - l'Unità


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Consentitemi di iniziare citando un passo della Dichiarazione di Berlino in coincidenza con il cinquantesimo anniversario dei Trattati di Roma: «Abbiamo un modo unico di vivere e lavorare insieme nell’Unione Europea. Questo modo si esprime tramite l’interazione democratica degli Stati membri e delle istituzioni europee». Sì, l’interazione democratica tra nazioni-Stato e istituzioni comuni è stata la chiave dell’evoluzione della Ue. Il progetto europeo era non solo una idea ambiziosa, ma anche un’idea autenticamente grande proprio per il fatto di essere riuscita a raccogliere l’ambizione, le capacità e le migliori tradizioni storiche di ciascun paese membro in vista del perseguimento di una serie di obiettivi comuni e non circoscritti.

Sostanzialmente questo è stato il modo originale in cui l’Europa ha superato il nazionalismo vecchio stile. Per la prima volta nella storia, il disegno dell’unificazione europea si fondava sul consenso volontario piuttosto che sulla forza. Se guardiamo ai 50 anni trascorsi, questa lezione centrale è chiara: una forte Unione esige Stati che siano, al tempo stesso, consapevoli delle loro oggettive limitazioni e pronti a mettere in comune prerogative sovrane. Da questo punto di vista la visione federale dell’Europa era solo parzialmente corretta in quanto prevedeva un progresso lineare in grado di distaccarsi dalla sovranità nazionale e di avvicinarsi all’autorità sopranazionale. Ma la concezione opposta che considerava le nazioni-Stato come la sola unità politica capace di sviluppo e quindi rifiutava qualsiasi significativa cessione di sovranità, è stata superata dagli eventi. Infatti ora siamo in grado di vedere alla luce dell’esperienza che la strada del futuro è piuttosto quella di una sovranità condivisa e di una governance a più livelli. La qual cosa ci porta ad una conclusione chiave: requisito fondamentale per il successo dell’Unione è una efficace divisione delle responsabilità. (...)

Il problema con cui dobbiamo fare i conti oggi è di natura diversa: le sfide non sono più solo intra-europee, ma sono diventate globali. Quindi la domanda che dobbiamo porci è chiara: un organismo creato secondo una logica regionale sarà in grado di affrontare le sfide globali? In astratto la risposta è semplice: l'Unione è oggi più necessaria di mezzo secolo fa. Questa è una fondamentale premessa condivisa a mio giudizio da tutte le leadership politiche del continente (anche su questo versante della Manica): l'Europa è una protagonista ancora più necessaria in questa era di globalizzazione (con i suoi vincitori, i suoi sconfitti e i molti che nutrono speranze) e in questa era di rischi e minacce in continuo mutamento. L'Europa è il modo migliore che abbiamo per far fronte ad un certo numero di sfide complesse salvaguardando al tempo stesso i sistemi politici democratici. Nessuna nazione-Stato da sola potrebbe esserne capace. In pratica, tuttavia, la trasformazione globale ha generato una profonda crisi nell'Unione Europea mettendo in moto una sorta di reazione a catena: alcune leadership nazionali hanno mostrato la tendenza ad attribuire all'Europa la colpa dei loro problemi interni; settori dell'opinione pubblica hanno cominciato a vedere l'Europa non come una protezione dalle sfide globali, ma piuttosto come un fattore di debolezza. Di conseguenza «il modo unico di vivere e lavorare insieme» dell'Unione Europea ha perso legittimazione. E l'Unione è finita in una posizione di stallo.

Per uscire da questa situazione di disagio è necessario quello che definirei un nuovo «patto per l'Europa». Come negli ultimi cinquanta anni il nuovo patto per l'Europa globale può basarsi solamente su leadership nazionali autenticamente impegnate a favore della scelta europea. Più che in passato, La Ue ha anche bisogno - è stata questa la lezione franco-olandese - del sostegno attivo dei suoi cittadini: non solo del consenso permissivo che per lo più abbiamo avuto, ma di un consenso democratico. A questo proposito temo che la questione dei referendum nazionali stia diventando un pretesto per evitare il vero punto: i leader politici debbono impegnare direttamente i loro elettori nella formulazione e nel perseguimento di una visione positiva per una Europa globale, sia sotto il profilo ideale che sotto quello pratico. I referendum nazionali non sono necessariamente la strada da seguire. Sarei piuttosto favorevole alle ratifiche parlamentari di un nuovo Trattato seguite da sforzi pratici intesi a trasformare le elezioni del 2009 per il parlamento europeo in una vera battaglia politica sulla Ue.

All'indomani delle elezioni presidenziali francesi, possiamo dire che la Francia, con Nicolas Sarkozy, è di nuovo in movimento come attore chiave europeo. Ciò avrà effetti positivi sulla più ampia scena europea: la crisi della Ue è stata anche la conseguenza dell'assenza della Francia dopo il rifiuto del Trattato Costituzionale. Ci sono ora in Europa condizioni migliori per ripartire su diversi fronti dove i problemi si sono accumulati: la «pausa di riflessione» è terminata. Se la dinamica politica europea potrà trarre vantaggio dal ritorno della Francia, colgo l'occasione per dirvi oggi, con estrema franchezza, che il Regno Unito è ugualmente cruciale per il futuro dell'Europa globale. Nessuno Stato membro può defilarsi senza che l'intera Unione Europea soffra a causa della mancanza di un adeguata volontà politica.

Il fulcro del Trattato

Risolvere il dibattito istituzionale è il primo ingrediente di un nuovo patto per l'Europa. (...) Si è sostenuto che le sfide e le priorità pratiche debbono prevalere su un Trattato Costituzionale destinato al fallimento - priorità quali i negoziati commerciali del Doha Round, l'agenda di Lisbona, le questioni energetiche, il cambiamento climatico. Il problema è che in assenza di un accordo su un Trattato riformato, gli impegni dell'Unione su questi fronti non saranno credibili nei confronti dei cittadini o dei terzi. E la sua capacità di prendere decisioni formali e di annunciare politiche concrete sarà fortemente vincolata. Per una questione di realismo politico e di buon senso dobbiamo valutare con attenzione l'esito negativo dei referendum e delle forti riserve espresse in quegli Stati membri che hanno sospeso la procedura di ratifica, tra i quali il Regno Unito. È parimenti realistico e fondato sul buon senso, tuttavia, prendere in considerazione il fatto che 18 paesi tra cui l'Italia hanno ratificato il Trattato e che questi paesi rappresentano la maggioranza della popolazione europea. Questa rilevante realtà democratica deve essere inserita nelle nostre future deliberazioni.

Ovviamente sono assolutamente consapevole, e questo dovrebbe valere per qualunque persona sensata, dei notevoli ostacoli che debbono essere superati: non sarà facile raggiungere un compromesso tra 27 paesi. Ma la strada in salita così abilmente tracciata dalla Cancelliera Angela Merkel rende possibile in occasione del prossimo Consiglio Europeo una road map per proseguire il cammino: l'Italia fungerà da catalizzatrice dei consensi, pur senza rinunciare ai punti che riteniamo essenziali. (...)

Prendendo in esame nuove politiche settoriali, sappiamo tutti che la flessibilità sarà la chiave per consentire agli Stati membri di sentirsi a proprio agio con livelli differenziati di impegno. Quindi un approccio più flessibile potrebbe essere adottato per le nuove politiche comuni, ivi comprese forme di «opting out» o di «opting in». In politica estera ciò comporta la necessità di abbandonare il diritto di veto a favore dell'astensione costruttiva. Non c'è dubbio, infatti, che con l'allargamento dell'Unione si registrerà anche un incremento della flessibilità - in altre parole accordi a geometria variabile diventeranno più frequenti. Ad esempio, è concepibile che la politica estera comune possa essere strutturata intorno a criteri geografici di responsabilità e a «gruppi di contatto» con un mandato del Consiglio della Ue. Le tendenze verso accordi tipo Schengen sono visibili nella sicurezza interna dove i progressi fatti registrare finora sono più incoraggianti di quanto si pensi. L'Italia ha tutto l'interesse a partecipare a specifici accordi per una più stretta integrazione o per una cooperazione rafforzata tra un numero limitato di membri. Il presupposto è che siano aperti e inclusivi. Dal nostro punto di vista, queste intese andrebbero comunque collocate all'interno di un quadro istituzionale unitario. È ciò che distingue una Unione politica più flessibile dalla sua eventuale frammentazione.

Portare alla luce le potenzialità di un accordo in vista dell'approvazione di un Trattato è imperativo in quanto il tempo stringe; dobbiamo raggiungere questo obiettivo entro le elezioni del 2009 per il parlamento europeo. In assenza di impegni vincolanti e di alcune regole comuni, i nostri governi nazionali diventeranno facilmente esposti ad ogni sorta di pressioni interne e settoriali nonché alla tentazione di proteggere interessi nazionali angusti. Paradossalmente, nella maggioranza dei casi non riusciranno nemmeno a promuovere i loro specifici interessi nazionali stante la natura transnazionale delle sfide, ma operando in tal modo avranno minato la coesione della Ue.

Tornando sulla necessità di un consenso attivo, sappiamo benissimo che una notevole maggioranza dei cittadini europei si aspetta molto della Ue: vogliono che la Ue intervenga in settori chiave quali l'occupazione e la sicurezza interna. Il loro appoggio è chiaramente condizionato e il loro giudizio si fonda su una valutazione delle cose fatte - così come sempre avviene in un sistema democratico sano. (...)

La necessità di confini definitivi

Consentitemi di parlare ora di un contributo specifico che l'Italia è in grado di fornire offrendo alcune riflessioni sul rapporto tra allargamento e approfondimento della Ue. Se definire i confini «interni» dell'Unione - cioé a dire la divisione delle responsabilità - è il primo ingrediente di un nuovo patto per l'Europa, definire i confini «esterni» è il secondo importante elemento. Una lezione importante - e un altro frammento di una visione del futuro - andrebbe tratta esattamente dai recenti dibattiti sull'allargamento e l'ulteriore integrazione. A questo proposito c'è un paradosso: mentre le Ue continua ad attirare potenziali membri nella sua proiezione esterna ('fuori'), è diventata molto meno attraente ed efficace nella sua proiezione interna ('dentro'). Cittadini e gruppi che sono già «dentro» mettono sempre più in discussione il valore aggiunto della Ue allargata. Credono infatti che l'allargamento sia una sorta di cavallo di Troia dei guai della globalizzazione. Dobbiamo guardare solamente i dati dell'Euro-barometro: con l'eccezione di una parte dei nuovi membri, in questo momento l'allargamento ha pochi sostenitori nel cuore continentale dell'Europa. In altre parole, sta diventando un progetto abbracciato solamente dalle elite politiche e assai meno un progetto che gode di un solido consenso democratico. E quando si apre un divario del genere - tra scelte politiche e sostegno democratico - il vero compito della leadership europea non è né quello di sfruttare queste paure (e cedere alle pressioni delle varie opinioni pubbliche) né quello di ignorare queste paure (e procedere come se nulla fosse). La strada giusta ritengo sia quella di affrontare un dibattito aperto tentando di dimostrare come il livello di ansia sia ingiustificato e come alcune delle sfide si possano affrontare esattamente grazie ad un migliore funzionamento dell'Europa.

I vantaggi e gli aspetti positivi dell'allargamento della Ue sono quasi scomparsi dal dibattito pubblico. Vengono sottolineati i costi e le incertezze causati dall'allargamento della Ue non i suoi benefici. Tuttavia la realtà è che i costi del non allargamento - in termini di perdita di opportunità economiche e di fragile stabilità - sarebbero stati per gli europei molto più alti.

In breve, non è l'allargamento «in sé» che ha causato l'attuale impasse della Ue. È piuttosto il fatto che l'allargamento avrebbe dovuto essere gestito meglio. Da questa linea di ragionamento scaturisce una conclusione logica: chi è favorevole all'allargamento - come l'Italia, come il Regno Unito - dovrebbe essere anche favorevole alle riforme istituzionali. Non approfondire la Ue come operazione fine a se stessa, ma piuttosto in quanto ulteriore integrazione necessaria affinché una Europa più grande tenga fede alle sue promesse.

Un modo più esaustivo per inquadrare il dibattito sull'allargamento consiste nel meglio definire il tipo di identità europea che dobbiamo cercare di ottenere: deve essere una identità costruttiva basata su valori democratici positivi, ivi compresa la nostra capacità di integrare nel rispetto della diversità. L'opposto di una identità negativa basata sulla paura della diversità e su una sensazione di esclusione. In quest'ultimo caso, infatti, trasformeremmo l'Europa in una sorta di epicentro dello scontro di civiltà, un esito assurdo e in totale contrapposizione con i valori cui siamo più affezionati oltre che con i nostri comuni interessi di società aperte con una vasta rete di relazioni globali. Se vediamo le cose da questa prospettiva - oltre che sulla base di motivazioni geopolitiche - acquista un forte peso l'ipotesi di un futuro accesso della Turchia nella Ue: a condizione, ovviamente, che la Turchia riesca a superare la sua attuale crisi istituzionale, a consolidare la democrazia e a soddisfare appieno i criteri concordati. Dobbiamo evitare un rischioso circolo vizioso: l'opposizione in Europa all'ingresso della Turchia e le tentazioni anti-democratiche in Turchia si rafforzano a vicenda. (...)

Per consolidare questa visione positiva di una comune identità, l'Europa avrà tuttavia bisogno di frontiere esterne stabili. Qualunque attore internazionale ha bisogno di frontiere chiare e concordate. In assenza di una intesa sulle frontiere definitive, anche l'identità europea è destinata a rimanere fragile. La logica di una Europa quale entità in «continuo divenire» sta per esaurire le sue potenzialità, sia internamente (la ragione per cui abbiamo bisogno di un Trattato fondamentale) che esternamente (la ragione per cui abbiamo bisogno di frontiere definitive).(...)

Permettetemi di aggiungere una considerazione finale sulla Russia. L'Unione europea dovrebbe impegnarsi più concretamente per concepire una strategia comune nei confronti di questo paese. (...) Sono cosciente di quanto sia delicata questa questione per alcuni dei nuovi Stati membri; ciò nonostante, esiste l'assoluta necessità di definire una strategia comune nel quadro di un impegno condiviso verso quello che potremmo chiamare est europeo. La Russia è un partner strategico di primo piano per l'Europa e un interlocutore chiave per la sicurezza energetica. La posizione della Russia inciderà sulla nostra capacità di trovare una soluzione per lo status definitivo del Kosovo e la crisi nucleare con l'Iran. O concordiamo una strategia comune per trattare con la Russia, anche per quanto riguarda il suo atteggiamento di nazionalismo assertivo, oppure Mosca cercherà sempre di giocare le sue carte bilateralmente e di dividere gli Stati europei.

Verso la globalizzazione

Un forte attore regionale di portata globale, ecco il terzo ingrediente di un nuovo patto. L'Europa deve diventare globale, protagonista di un mondo sempre più multipolare. Esiste una tensione oggettiva, inutile negarlo, tra la nostra storia, che è regionale, e la nostra ambizione, che è globale. Per cinquant'anni le sfide europee sono state nazionali e continentali; di fatto anche l'alleanza della Nato era basata su un patto transatlantico incentrato sulla stessa Europa. Oggi è necessario fare un salto di qualità, perché l'Unione europea deve diventare un attore globale per tutelare i suoi successi regionali.(...)

La base di un nuovo consenso per l'Europa è da ricercarsi in una politica positiva della globalizzazione, che ammette i benefici derivanti dai cambiamenti ma che al contempo agisce per limitarne i costi. La protezione individuale e sociale non equivale al protezionismo, né implica una perdita di competitività in presenza di riforme interne. In parte la ragione per avere un'Europa più forte e unita sul palcoscenico globale è chiaramente economica. Le tendenze attuali fanno ben sperare: la crescita sta ricominciando, guidata dalla ripresa tedesca. Ma le tendenze sul lungo termine confermano la nostra visione: per esempio il pil italiano, francese e tedesco insieme (secondo stime affidabili basate sulle tendenze in corso) ammonterà a poco più del 6 per cento del pil globale tra 25 anni - all'incirca quanto pesava la sola Germania 20 anni fa. Ovviamente questo non comporta necessariamente - quasi sicuramente non lo comporterà - una diminuzione dei nostri standard di vita in termini assoluti, ma inciderà sul nostro potere relativo nel mondo, per esempio in termini dell'influenza che saremo in grado di esercitare.

In gran parte si tratta di una conseguenza dell'ascesa del sudest asiatico e più recentemente dell'India, ma altri paesi seguiranno, man mano che si diffondono gli effetti della globalizzazione. Secondo un'altra stima nel 2030 nessun paese europeo da solo, con la possibile eccezione della Germania, avrà le cifre in regola per giustificare un seggio al tavolo del G7. Davanti a processi di tale portata nell'economia mondiale sarebbe completamente sciocco considerare l'Unione europea come la fonte dei nostri problemi - ancora peggio sarebbe usarla come un capro espiatorio. Questa sindrome mi ricorda una frase attribuita a Paul-Henri Spaak: «Non esistono paesi "piccoli" o "grandi" in Europa. Siamo tutti piccoli - alcuni però non l'hanno ancora capito». (...) Nel ventunesimo secolo sicurezza significa lotta contro il terrorismo, gestione dei conflitti, controllo della proliferazione nucleare, così come riduzione della povertà, sicurezza energetica e cambiamenti climatici. Un'agenda della sicurezza così vasta richiede risorse più ingenti: ecco perché abbiamo bisogno di coordinarci di più e di avere delle economie di scala.

Nessuna visione del ruolo globale dell'Unione europea può essere completa in mancanza di un riferimento alle relazioni transatlantiche. Il legame con gli Stati Uniti (e con il Canada, vorrei aggiungere) sono parte integrante della nostra storia e adesso dovrebbero fare parte anche della nostra visione del futuro. La lezione in questo senso è molto chiara: non può esistere un'unità in Europa costruita contro gli Stati Uniti, per la semplice ragione che questo tipo di scelta divide prima e soprattutto gli europei. E se si trovano in disaccordo tra loro e sul rapporto con gli Stati Uniti, gli europei rinunciano a qualsiasi possibilità di esercitare una loro influenza. Basti ricordare il caso iracheno: né saltare sul carro dei vincitori, come hanno fatto gli inglesi, né opporsi come hanno fatto i francesi ha davvero inciso sugli eventi del 2003 come credo avrebbe potuto fare una posizione europea comune. Un'Unione europea più forte e unita avrebbe anche il vantaggio di offrire una visione più equilibrata del rapporto con gli Stati Uniti.

Se dovessi riassumere i passi da compiere per una vera «Europa globale», segnalerei cinque punti:

1) Unificare le rappresentanze europee presso il Fmi e la Banca mondiale.

2) Usare i seggi nazionali nel consiglio di sicurezza dell'Onu in modo da massimizzare il peso complessivo dell'Unione europea. Per farlo bisognerebbe allineare sistematicamente le posizioni dei diversi paesi dell'Unione sulla base di decisioni concordate precedentemente a livello europeo. Permettetemi di ribadire in questa sede l'impegno dell'Italia a seguire questa strada nel periodo in cui siederà al consiglio di sicurezza, dal 2007 al 2008.

3) Sviluppare - e se necessario usare - forze di militari professionali europee da mettere a disposizione dell'Onu, continuando a lavorare per una più stretta collaborazione tra l'Unione europea e la Nato.

4) Sviluppare e implementare una vera politica europea comune nel campo dell'energia e dei cambiamenti climatici. Una politica energetica comune è di estrema importanza quando si tratta di affrontare i produttori più potenti e i mercati più complessi.

5) Rafforzare il rapporto euro-americano attraverso la creazione di uno spazio economico comune, sviluppando al contempo (o ripensando e chiarendo) delle strategie comuni europee nei confronti di attori di primo piano come la Russia, la Cina, l'India, il Brasile.

La Gran Bretagna in Europa

Vorrei concludere con qualche osservazione sul ruolo specifico del Regno Unito. È opinione comune che l'impegno europeo in politica estera e di difesa non può avere vero successo se il Regno Unito non partecipa appieno. Non posso che concordare con questa affermazione. Ma al di là di questo, abbiamo bisogno della vitalità e dell'apertura dell'economia e della società britannica come contributo fondamentale per l'Europa. Come ha affermato Tony Blair in una recente intervista, ci possono essere molti euroscettici in Gran Bretagna, ma sono pochi quelli che davvero vogliono che il paese esca semplicemente dall'Unione europea. Ecco perché è possibile ricorrere ad argomentazioni razionali perché il Regno Unito promuova attivamente una sua visione dell'Europa, invece di opporsi semplicemente alla visione degli altri paesi. Il ruolo del Regno Unito è di fondamentale importanza perché, su un piano più generale, ritengo che un nucleo politico informale sia indispensabile per far funzionare bene l'Europa: il motore franco-tedesco ha svolto un ruolo chiave per decine di anni, ma adesso deve essere ampliato in vista delle sfide che dobbiamo affrontare e che sono molto diverse da quelle del passato. Anche l'Italia si considera una protagonista attiva di questa nuova trasformazione europea.

Dal ministro degli esteri italiano dovete aspettarvi come conclusione un'espressione di fiducia nelle istituzioni europee. Non ho intenzione di deludervi, ma voglio farlo nello spirito delle mie considerazioni di apertura di oggi: le istituzioni dell'Unione europea esistono per essere un patrimonio dei cittadini europei, per servirne gli interessi condivisi e perseguire i valori e gli obiettivi collettivi in un'epoca di cambiamenti globali. Ne abbiamo bisogno, abbiamo bisogno di leadership nazionali più forti che agiscano come leadership europee - dobbiamo condividere la sovranità per il bene comune. E abbiamo bisogno di un'Unione europea più forte, basata su quello che ho definito un nuovo patto, che possa meritarsi un sostegno attivo da parte dei cittadini. Altrimenti l'Europa diventerà un successo del passato, e non lo strumento che abbiamo scelto per decidere del futuro.

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