Discorso
3 marzo 2009

''Combattere le diseguaglianze per tornare a crescere" - <br>keynote speech di Massimo D’Alema<br>

Bruxelles, conferenza del Gruppo del PSE "Closing the casino: building a fairer and stronger real economy"


Sono grato al PSE e al Gruppo socialista al Parlamento europeo per avere promosso questo incontro e sono onorato della responsabilità che mi è affidata di aprire il dibattito con alcune considerazioni di carattere generale. Non sono uno specialista, non pretendo di proporre un’analisi particolare della grande crisi che sta sconvolgendo il mondo, che sta colpendo le nostre economie e le nostre società. Altri potranno meglio di me approfondire diversi aspetti fondamentali della crisi e delle terapie che sono necessarie per affrontarli. Non credo tuttavia che questo fondamentalmente sia il tempo degli specialisti e degli economisti. É compito della politica restituire fiducia e speranza, indicare una prospettiva nuova, assumere la guida. Per fare questo è importante che ci chiariamo le idee circa la natura e la portata della crisi che abbiamo di fronte. Nella classe dirigente conservatrice, nei Paesi più ricchi del mondo, è sembrata prevalere l’idea che la crisi fosse un incidente di percorso, un inciampo lungo il cammino del progresso e della crescita della ricchezza, sulla strada di una globalizzazione dominata dalla ideologia e dalle politiche neoliberiste. Certo sotto accusa era l’ingordigia di certi banchieri; la mancanza di scrupoli etici di una finanza speculativa che ha finito per dominare il lavoro e la produzione materiale; l’eccesso di deregulation che – bontà loro – ora viene riconosciuto anche dai più sfrenati teorici di un mercato senza regole. Ma si tratta davvero soltanto di questo? Se così fosse, sarebbe stato sufficiente rimettere le cose in ordine, liberare le banche dall’inquinamento dei titoli tossici, separare con qualche accorgimento (bad banks or chapter 11) la buona dalla cattiva finanza. E riprendere il cammino. Non era così. Questa è stata una breve illusione. Oggi è investita l’economia reale da una crisi di cui è difficile delineare la portata e prevedere gli esiti. Crolla la produzione, calano i consumi, tante, tantissime imprese, soprattutto piccole e medie, falliscono per mancanza di prospettive e di liquidità. Si affaccia lo spettro di una drammatica crisi sociale e di una moltiplicazione del numero dei disoccupati anche nei paesi più ricchi.
La verità è che sembra essere finito un intero ciclo dello sviluppo, portando alla luce gli squilibri e le contraddizioni di fondo di questa globalizzazione ultraliberale che ha dominato negli ultimi venti anni non solo le scelte della politica economica ma anche la cultura, il senso comune, il modo di vivere delle persone. Il primo nodo che viene alla luce è quello che io definirei “un drammatico deficit di democrazia”. In fondo, la mancanza di regole è precisamente il frutto della asimmetria fra la crescita di un mercato mondiale delle merci e dei capitali e la assenza di istituzioni democratiche in grado di fare da contrappeso rispetto allo strapotere dell’economia e della finanza. È cresciuta così una nuova "razza padrona": una oligarchia finanziaria che ha preso nelle sue mani il potere, che si è data le sue regole, che ha accumulato un'enorme ricchezza attraverso compensi d’oro e il sistema delle stock options. Questa oligarchia, attraverso il controllo dei media, ha diffuso una cultura e un senso comune. Il disprezzo verso la politica, verso le istituzioni rappresentative, verso gli Stati nazionali, l’idea del dominio dell’economia sulla politica; la concezione secondo cui l’unico compito che la politica deve svolgere è quello di rimuovere gli ostacoli al pieno dispiegarsi degli effetti benefici della globalizzazione e della finanziarizzazione. Oggi assistiamo al crollo di questo castello ideologico. E i banchieri orgogliosi bussano alla porta dei tanto disprezzati Stati nazionali con il cappello in mano per acquisire gli aiuti necessari a salvare i loro imperi finanziari. Ma se vogliamo dare una risposta che non si limiti all’esigenza, che potrebbe rivelarsi illusoria, di fronteggiare l’emergenza drammatica in cui ci troviamo, dobbiamo essere consapevoli che non sarà sufficiente l’azione dei governi nazionali o il ricorso a istituzioni “tecniche”, come le banche centrali e il Fondo Monetario Internazionale. Insomma, sia pure colpita da una crisi profonda, l’economia globale resta globale e non sarà sufficiente una risposta imperniata sul ruolo degli Stati nazionali. Questo è vero su scala mondiale, ma è particolarmente vero – lo vedremo in seguito- per il futuro dell’Unione europea. Dunque, oggi è il momento di costruire coraggiosamente una nuova architettura istituzionale internazionale, di ripensare il ruolo di organismo come il Fondo Monetario Internazionale che – come si è cominciato a discutere nel G20 – può assumere compiti di sorveglianza a condizione di mutarne radicalmente la governance e di farne una strumento a disposizione dell’intera comunità internazionale e non soltanto un’agenzia di Paesi ricchi. Si è parlato della necessità di una nuova Bretton Wood. Forse non è realistico pensare a un nuovo regime di parità fra le principali monete del mondo, tuttavia il sistema di tassi di cambio liberamente fluttuanti ha favorito la speculazione e la crescita di squilibri globali. Per cui appare necessario, anche in questo campo, accrescere i poteri di sorveglianza e di intervento del FMI, in particolare attraverso la possibilità di convertire le valute nazionali create in eccesso rispetto alla domanda in diritti speciali di prelievo, creando così una maggiore stabilità ai detentori. È aperto oramai, in sede scientifica e politica, un dibattito assai ricco sulle forme di regolazione e di sorveglianza necessarie per evitare il ripetersi di shock finanziari e di massicci fenomeni speculativi. Ma guai dimenticare che c’è, al fondo, un problema politico e cioè la necessità che anche i Paesi più ricchi a partire dagli Stati Uniti si assoggettino a una sorveglianza internazionale e multilaterale. Altrimenti, il FMI resterà ciò che è stato a partire dagli anni ’80 e cioè uno strumento di sorveglianza soltanto sui Paesi poveri, per assoggettarli a politiche neoliberiste con conseguenze – come si è visto – disastrose per quegli stessi Paesi e per l’equilibrio dell’economia mondiale. Insomma, se la crisi mette in luce quello che ho definito un deficit di democrazia e la necessità di un rinnovato primato della politica sull’economia, questo non può risolversi in un ritorno alla centralità degli Stati. Ma deve spingerci ad un coraggioso impegno per rafforzare le istituzioni internazionali e multilaterali della governance globale. Non solo le istituzioni di natura tecnica ed economica. Ma le istituzioni politiche, a cominciare dalle Nazioni Unite e dal sistema delle agenzie internazionali.
La seconda contraddizione di fondo che viene alla luce nella crisi attuale e che spiega la fragilità delle nostre economie e delle nostre società di fronte alla crisi è il “deficit di giustizia sociale” che si è accumulato in questi anni. La stessa crisi dei mutui sub prime che ha innescato il credit crunch americano, ha avuto origine nell’impoverimento e nell’indebitamento delle classi medie americane, anche se poi un mercato finanziario spericolato e speculativo ne ha enormemente moltiplicato gli effetti. Ma all’origine, appunto, vi è un dato sociale. Un recente studio dell’OCSE “Growing Unequal? Income Distribution and Poverty in OECD Countries” mostra in modo assai significativo gli effetti delle trasformazioni economiche dell’ultimo ventennio. Non mi riferisco soltanto alle diseguaglianze fra Paesi ricchi e Paesi poveri ma a quelle che attraversano le nostre società. Negli ultimi venti anni l’indice di diseguaglianza è aumentato in modo rilevante in un periodo di crescita della ricchezza. L’aumento ha riguardato i due terzi dei paesi OCSE e in particolare i maggiori fra questi, come gli Stati Uniti, il Canada, l’Italia, la Germania… Si è ridotta notevolmente la quota dei salari sul valore aggiunto e quindi è aumentata la forbice tra i redditi dei lavoratori dipendenti e i redditi da capitale e da lavoro autonomo. In Italia, la crescita dei redditi da lavoro dipendente è stata del 6%, la crescita dei redditi da lavoro autonomo è stata del 44%: una differenza impressionante. È cresciuto l’indice di povertà tra i giovani adulti, le famiglie con figli e tra i bambini. È cresciuto il fenomeno della povertà anche in famiglie in cui almeno un componente lavora. È evidente cha la finanziarizzazione dell’economia e la crescita enorme del peso della rendita finanziaria hanno accresciuto e enfatizzato questi fenomeni. Credo che sia giusto tra di noi riflettere non soltanto sugli effetti sociali intollerabili di questi trends che abbiamo subito e contro i quali abbiamo agito in modo insufficiente pure quando abbiamo svolto funzioni di governo, ma anche sugli effetti che queste diseguaglianze producono sull’economia e sullo sviluppo. In realtà, questi fenomeni sociali rendono fragile lo sviluppo economico. È evidente, infatti, che una società diseguale è una società nella quale si restringe il mercato interno e si riducono i consumi, perché se la crescita della ricchezza si concentra in una fascia ristretta della popolazione questo certamente non aiuta la crescita dei consumi. Ma è anche evidente che società fortemente diseguali producono una ridotta mobilità sociale e una caduta della produttività del lavoro. Vi è una corrispondenza tra la crescita delle diseguaglianze e la redditività della produzione da lavoro. Insomma, noi abbiamo subito per troppi anni un pensiero economico dominante, una sorta di “saggezza convenzionale” secondo cui la riduzione della spesa sociale e la rinuncia a politiche fiscali di redistribuzione del reddito avrebbe portato a una più alta capacità competitiva dell’economia europea. Non era vero. Anzi, era vero il contrario. Un più elevato investimento sociale a favore della salute e dell’istruzione, un sistema di protezione più efficiente per i disoccupati in grado di non abbandonare le persone a sé stesse nei momenti di difficoltà, giocano un ruolo fondamentale per la formazione e il miglioramento del capitale umano e quindi per rendere più solido lo sviluppo e più forte la competitività delle nostre economie. Questo significa che la crisi che impone la necessità di un intervento pubblico per rilanciare lo sviluppo e sostenere la domanda deve essere considerata da noi come l’occasione per imporre un cambiamento profondo nella qualità dello sviluppo. Non avrebbe senso, per dirla con la battuta ironica di Keynes, spendere “per scavare buche e poi riempirle”. Piuttosto, gli interventi di sostegno immediato della domanda dovrebbero avere contenuti che gettano le basi strutturali per una crescita stabile di lungo periodo e collegarsi con riforme in grado di correggere gli squilibri strutturali che la globalizzazione selvaggia ha determinato. Ed è evidente che rinnovate politiche di welfare e incisive politiche fiscali di redistribuzione della ricchezza sono una condizione importante per una nuova fase di sviluppo.
Non mi sembra onestamente che la risposta complessiva dell’Europa alla crisi sia ispirata al coraggio e alla lungimiranza che sarebbero necessari. E questo dipende anche dalla divisione dalla timidezza delle forze riformiste progressiste e socialiste in Europa. Qualche settimana fa il settimanale americano ‘”News Week” intitolava la sua copertina in modo provocatorio “Siamo tutti socialisti”. Socialista è una parola molto difficile da usare negli Stati Uniti d’America. Eppure, paradossalmente, la risposta più “socialista” alla crisi sembra venire proprio dalla nuova amministrazione democratica americana. Non mi riferisco soltanto alla imponenza della mobilitazione di risorse pubbliche, ma soprattutto al carattere coraggiosamente innovativo delle scelte che vengono proposte. Aumentare le tasse ai ricchi per estendere l’assistenza sanitaria ai disoccupati è una scelta concretamente importante e anche di un grande significato simbolico. Più in generale, la manovra americana punta ad una redistribuzione della ricchezza, attraverso l’uso della leva fiscale dopo che per anni si era teorizzato l’appiattimento della curva delle aliquote. In secondo luogo, ci si propone l’obiettivo di estendere sistemi pubblici di protezione sociale anche colpendo la resistenza di potenti lobbies finanziarie e assicurative. Infine, gli investimenti pubblici destinati a rilanciare l’economia puntano a rafforzare settori innovativi della ricerca, in particolare lo sviluppo di tecnologie verdi in campo energetico e della tutela ambientale. Certo, l’America è stata ed è l’epicentro di questa crisi e il Paese che con le sue scelte politiche ed economiche ne porta le maggiori responsabilità. Tuttavia, l'America è anche il Paese nel quale, con l’elezione di Barack Obama e le scelte che la nuova amministrazione sta via via proponendo, la risposta alla crisi appare più forte e coraggiosa.
Dobbiamo dire, invece, con chiarezza che l’iniziativa europea è stata sin qui confusa e inadeguata. In una prima fase ha prevalso la convinzione che la crisi finanziaria fosse sostanzialmente un problema americano e che noi europei fossimo al riparo dai rischi maggiori. In effetti è vero che le nostre banche sono meno inquinate da una finanza spericolata e speculativa come quella che ha messo in ginocchio il sistema americano. È anche vero che il Paese europeo più esposto alla crisi finanziaria d’oltre Oceano - e cioè il Regno Unito – è stato anche quello nel quale, grazie a Gordon Brown, la risposta del governo nazionale si è mostrata più pronta ed efficace. Ma, nell’ottimismo europeo, vi era una sconcertante sottovalutazione degli effetti economici, sistemici, che la crisi finanziaria avrebbe prodotto in un mondo globalizzato come quello in cui viviamo. La caduta dei consumi, la contrazione della liquidità per le imprese, il collasso di diversi Paesi dell’Europa centrale e orientale la cui crescita è avvenuta in questi anni all’insegna del più sfrenato modello di neoliberismo hanno rapidamente fatto svanire le illusioni delle leadership conservatrici del nostro continente e la crisi sta assumendo tali proporzioni da mettere a dura prova i sistemi di protezione e di stabilizzazione sociale che pure sono in Europa assai più forti che negli Stati Uniti (anche perché in questi anni abbiamo fortunatamente resistito alla ideologia che pretendeva di cancellarli nel nome della modernità).
Di fronte all’incalzare della crisi, è emersa la debolezza delle istituzioni dell’Unione. Bisogna riconoscere che solo il Parlamento europeo - lo dico con l'orgoglio di un ex-parlamentare - con le sue discussioni e, in parte, con le sue deliberazioni si è mostrato all’altezza dei problemi che abbiamo di fronte. Per il resto la risposta alla crisi è stata sostanzialmente affidata alle decisioni dei governi nazionali. Salvo l’affannoso e inconcludente succedersi di vertici e Consigli straordinari. Si potrebbe dire, parafrasando Sraffa, "produzione di vertici a mezzo di vertici". In questa situazione il rischio concreto è che anziché cogliere questa crisi come una opportunità per fare un salto di qualità nell’integrazione e nel coordinamento delle politiche economiche in realtà si vada verso una rinazionalizzazione delle decisioni fondamentali ed un allentamento dei vincoli sia in materia di politiche di bilancio, sia in materia di aiuti di stato. Con una Commissione ridotta ad avallare ex post le decisioni dei singoli governi nazionali. Credo che dobbiamo dire con forza che questa tendenza sarebbe disastrosa. Non solo perché senza un forte coordinamento europeo le misure dei singoli Paesi non possono avere la forza d’urto per invertire il ciclo e rilanciare lo sviluppo, ma perché la frammentazione delle scelte accentuerebbe le diseguaglianze in Europa e finirebbe per mettere in crisi l’unione economica e monetaria ed il mercato unico: cioè le più importanti conquiste degli europei negli ultimi 50 anni. È il momento, al contrario, di prendere finalmente atto che senza istituzioni più forti ed un effettivo coordinamento nella indicazione degli obiettivi e nell’uso delle risorse l’Unione europea non sarà mai in grado di mantenere le sue promesse in termini di crescita economica, dell’occupazione e della qualità della vita dei suoi cittadini. Come possiamo proporre una regolazione ed un controllo a livello internazionale dei mercati finanziari quando all’interno dell’Unione non si riesce ad assicurare un effettiva cooperazione tra le autorità nazionali di vigilanza? Come possiamo sostenere la necessità di alleggerire la pressione fiscale sul lavoro e sui redditi medio-bassi quando siamo ancora alle prese, persino all’interno dell’area dell’euro, con la concorrenza fiscale in materia di tassazione dei redditi da capitale e anche soltanto l’espressione “armonizzazione” continua ad essere per molti governi europei un tabù? Quale funzione di stabilizzazione può svolgere il bilancio dell’Unione europea – così come avviene negli USA – se non si riesce neppure a passare dall’1 all’1,24 per cento del PIL dell’Unione? Quale politica europea di investimenti si potrà compiere se dal Piano Delors ad oggi la proposta di emissione di Eurobonds continua ancora ad essere considerata una fuga in avanti da alcuni Stati e non uno strumento essenziale senza il quale risulta assai difficile sostenere i grandi obiettivi in materia di infrastrutture e di innovazione necessari per una nuova fase di sviluppo? Ciò che oggi è in discussione è il meccanismo stesso di crescita dell’Europa che si basa sul mercato unico, sulla moneta unica, sulla strategia di Lisbona. Dovremmo prendere atto che a dieci anni dal vertice di Lisbona, che produsse il più straordinario manifesto riformista in Europa, non siamo riusciti ad introdurre vincoli ed incentivi efficaci per indirizzare risorse pubbliche e private verso l’innovazione e la conoscenza. Anche perché alla indicazione di quegli obiettivi coraggiosi non corrispondevano strumenti istituzionali comuni e meccanismi decisionali adeguati. Oggi la recessione rischia di colpire, più di altre voci, le spese per ricerca e sviluppo e per la formazione del capitale umano, perché l’emergenza finanziaria sembra imporre altre priorità. Questo è ciò che sta avvenendo per esempio in Italia. Solo un forte impulso europeo può evitare il pericolo di un ripiegamento nazionalistico, di spinte che, di fatto, al di là delle dichiarazioni, assumono il segno protezionista delle disperate lotte fra poveri, come quelle che abbiamo visto nelle manifestazioni dei lavoratori inglesi contro gli operai italiani o come quelle che si manifestano nelle ondate razzistiche anti immigrati in diversi Paesi europei. È dunque essenziale, per ragioni politiche oltre che economiche, puntare su una risposta europea alla crisi e fare della crisi, appunto, un’occasione per rafforzare le nostre istituzioni comuni e rilanciare i nostri valori. Sarebbe un grave errore ritenere che possa funzionare una sorta di “strategia dei due tempi”: oggi ciascuno per sé affronti l’emergenza e domani riprenderà il processo di integrazione. In questo modo rischiamo di non arginare l’emergenza e di compromettere l’integrazione futura.
Siamo alla vigilia di una campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento europeo che cadrà in un momento davvero cruciale per la storia del mondo e del nostro continente. Corriamo il rischio, noi che rappresentiamo il campo delle forze riformiste, progressiste e socialiste, di trovarci in una situazione davvero paradossale. Se guardiamo al panorama dei governi europei non siamo da molti anni mai stati così deboli, mentre il mutamento sconvolgente della realtà del mondo mostra come i valori fondamentali, che sono alla base del nostro movimento, tornano ad essere attuali e necessari. Davvero è il momento di agire e non lasciare al populismo della destra la risposta al sentimento di paura e di insicurezza che colpisce oggi milioni di europei. Come ci hanno mostrato anche le elezioni americane, la forza e la chiarezza del messaggio di cambiamento possono coinvolgere una larga opinione pubblica, ridare fiducia e speranza, mutare rapporti di forza consolidati, spostare in avanti gli equilibri politici. In questo senso la crisi è anche un’opportunità ed una sfida per i socialisti e per i riformisti. Una sfida da affrontare insieme.
Grazie

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