Intervista
24 marzo 2009

KOSOVO, FU UN ERRORE BOMBARDARE BELGRADO <br>

Intervista di Stefano Cappellini - Il Riformista


dalema_14012003519_img.jpg
Il 24 marzo 1999, poco dopo le ore 20, i bombardieri Nato colpivano i primi obiettivi serbi a Pristina, Pogdorica e alla periferia di Belgrado.
Cominciò così, esattamente dieci anni fa, la guerra del Kosovo. La dichiararono i paesi dell’Alleanza atlantica alla Serbia, per fermare la pulizia etnica praticata dal regime di Slobodan Milosevic nella regione a maggioranza albanese. Per la seconda volta dal 1945 - la prima era stata la guerra del Golfo nel 1991 - l’Italia partecipò con propri mezzi e truppe a una operazione militare offensiva. E lo fece per decisione di un governo di centrosinistra.

Presidente del Consiglio era Massimo D’Alema, insediatosi nell’ottobre del 1998, quando lo scenario di un conflitto armato era già un'ipotesi concreta. Anzi di più, spiega D’Alema al Riformista, l'incombere dell'intervento fu una delle ragioni che lo condusse a palazzo Chigi. «Per essere precisi - dice l’ex premier - l’Act order, che è in sostanza il meccanismo previsto dalla Nato con il quale le forze armate dei singoli paesi vengono messe in allarme e a disposizione del comando generale, era stato già deliberato dal governo Prodi. Un fatto scarsamente considerato. Fu invece una delle ragioni per le quali, dopo la caduta di Prodi, Scalfaro escluse che ci potessero elezioni anticipate. Ricordo che il capo dello Stato mi disse: “Siamo in stato di pre-guerra, in queste condizioni in nessuno stato civile si scioglie il Parlamento”. Vorrei che nelle ricostruzioni di quel periodo, spesso fantasiose, se ne tenesse conto».

Lei dunque sapeva già in ottobre che sarebbe stato un premier di guerra.
Col crescere delle operazioni dei gruppi paramilitari, e dopo il massacro del villaggio di Racak, le cui immagini avevano colpito l’opinione pubblica internazionale, si era creata situazione in cui la possibilità di intervento militare Nato era sul tappeto da diverso tempo. Fui tra quelli che fino all’ultimo cercarono una soluzione politica. Poi la situazione precipitò.

Ma già all’inizio di marzo, venti giorni prima dei bombardamenti, lei andò a Washington e il presidente americano Bill Clinton le spiegò che la guerra era decisa.
Quello di Washington fu un vertice bilaterale vasto e impegnativo, dove si parlò anche del Kosovo... the responsibilty to protect<+tondo>, la necessità di proteggere le popolazioni kosovare. C’era già un ultimatum ai serbi.

Clinton confidava davvero in una guerra lampo. Anche lei?
Il segretario di Stato Madeleine Albright disse: “Basteranno due giornate di bombardamento e i serbi si ritireranno”. Obiettai a Clinton: “Badate che è un’analisi sbagliata. Bisogna prepararsi a una situazione molto più complessa di quella che immaginate”.

E il presidente?
Non rispose. Lo fece Sandy Berger, il suo consigliere alla sicurezza nazionale, che partecipava all’incontro. “We will keep bombing”, disse. In realtà le cose non andarono esattamente così. È vero che poi continuarono i bombardamenti, ma è vero anche che si dovette cercare un accordo e una via d’uscita diplomatica.

All’inizio, invece, la pista della trattativa - battuta in particolar modo dal suo governo - fallì.
Incontrai in modo segreto e attraverso canali riservati Milutinovic, presidente della federazione serba, che è stato recentemente assolto dall’accusa di crimini di guerra. Fu un incontro molto duro. Mi disse: “Non verrete mai lì a far la guerra”. “Ti sbagli – gli risposi – la comunità internazionale non può più accettare quello che sta accadendo”. Bisognava mettere fine alle guerre balcaniche che avevano fatto 300 mila morti, fermare uno stillicidio di conflitti etnici religiosi che avevano insanguinato la regione. Le ragioni dell’intervento andavano al di là della vicenda specifica del Kosovo.

Al Consiglio europeo di Berlino, un giorno dopo i primi bombardamenti, Tony Blair le rimproverò di attardarsi ancora a parlare di soluzione diplomatica.
In effetti, sembrò per un momento che si fosse aperto uno spiraglio, ma non era vero e la mia dichiarazione apparve, e lo era, troppo ottimistica. Blair replicò, ma si trattò di battute ai giornalisti. Nelle riunione di quel Consiglio si parlò di tutt’altro: fu la riunione in cui si decise dell’agenda 2000 e di Prodi presidente della Commissione.

In Italia si commentò: la solita doppiezza togliattiana di D’Alema. Con gli americani fa il falco, in Italia fa credere di voler trattare.
In Italia si tende a ridurre tutto al cortile di casa. Ci sono giornalisti che pensano che dichiarare una guerra sia un modo per dare fastidio a Diliberto o di mettere in difficoltà i Verdi.

Certo il suo governo era curiosamente assortito: un ministro degli Esteri, Lamberto Dini, filoserbo, quello della Difesa, Carlo Scognamiglio, filoatlantico. E poi i comunisti del Pdci, il cui leader Cossutta trattava personalmente con Milosevic e i russi…
Era buffo che avessimo un moderato come Dini che garantiva i serbi e un comunista come me che garantiva gli americani (ride, <+corsivo>ndr<+tondo>). Ma non ci fu mai un vero problema politico interno. Fin dal primo momento io misi le cose assolutamente in chiaro nel Consiglio dei ministri. Dissi “questa è una cosa che io ritengo che si debba fare. Me ne assumo la responsabilità. Se finirà male, mi dimetterò”. Punto e basta. Non si votò in Consiglio dei ministri, e nemmeno in Parlamento, cosa che poi mi è stata anche rimproverata.

Non le mancò comunque il sostegno dell’opposizione guidata da Berlusconi.
Sì, in quel caso l’opposizione approvò la scelta. Fui fortunato, perché normalmente Berlusconi oscilla tra l’assunzione di responsabilità bipartisan e il calcolo delle proprie convenienze. È un uomo con due anime: si può sperare che prevalga quella migliore, ma la statistica non è favorevole.

Torniamo alle operazioni di guerra. Clinton le offrì di limitarsi a offrire la disponibilità delle basi italiane. Perché non raccolse l’invito?
Clinton mi disse: “L’Italia è talmente prossima allo scenario di guerra che non vi chiediamo di partecipare alle operazioni militari, è sufficiente che mettiate a disposizione le basi”. Gli risposi: “Presidente, l’Italia non è una portaerei. Se faremo insieme quest’azione militare, ci prenderemo le nostre responsabilità al pari degli altri paesi dell’alleanza”. Era moralmente giusto ed era anche il modo di esercitare pienamente il nostro ruolo. Dopo il Kosovo, infatti, l’Italia ebbe un ruolo primario. Una parte della regione è stata poi presidiata da una forza multinazionale sotto comando italiano. È stata la prima volta che un contingente multinazionale serviva sotto la bandiera del nostro paese. Qualche anno dopo abbiamo avuto il comando della forza Onu nel Libano. Due dei momenti più significativi dell’impegno di peacekeeping di tutto il dopoguerra.

È un modo per rivendicare che sono entrambi merito suo?
(Qui D'Alema risponde con un sorriso dalemiano, ndr)

Alla fine di marzo i bombardamenti sulla Serbia si intensificano e per la prima volta viene colpita Belgrado. In quei giorni cadeva la Pasqua. E io la trascorsi a Kukes, in Albania, al confine col Kosovo, che era il punto dove arrivava il grosso dei profughi, centinaia di migliaia, e dove avevamo organizzato i primi presidi di solidarietà. Lì si vedeva cosa stava succedendo, gente disperata, massacrata. Lì si poteva verificare coi propri occhi quanto l’intervento fosse giusto.

Però, anche coi caccia in azione, il governo italiano non smise mai di trattare le dietro quinte col regime di Milosevic.
Non abbiamo mai smesso di negoziare. Fummo l’unico paese Nato che mantenne aperta l’ambasciata a Belgrado durante tutto il conflitto. Ma l’abbiamo fatto sempre in trasparenza, con lealtà e in accordo con gli americani. Prima che il ruolo venisse affidato dall’Onu a Martti Ahtisaari, ci fu una mediazione russa. Fu l’ex primo ministro Chernomyrdin ad andare a Belgrado, ma prima passò a Roma. Venne a cena da me e chiamammo Clinton al telefono. Il nostro vero capolavoro fu però l’operazione di salvataggio del leader kosovaro Ibrahim Rugova, che era sostanzialmente prigioniero dei serbi. “Qual è il vostro interesse - chiedemmo a Milosevic - che dopo la guerra il potere in Kosovo sia gestito dagli ex guerriglieri dell’Uck o da un moderato come Rugova, che è l’uomo della convivenza etnico-religiosa?”. Gli inglesi erano contrari alla liberazione, dicevano che Rugova non contava nulla, che era un uomo del passato e che erano i soliti imbrogli degli italiani.

E Clinton?
Clinton era preoccupato perché pensava che Milosevic lo liberasse per farlo parlare male della Nato. Invece Rugova venne a Roma e ringraziò la Nato per quello che stava facendo per il suo popolo. Ero dal medico quando Clinton mi telefonò per ringraziarmi: “Grande operazione, condotta con grande lealtà”, mi disse. Gli americani non hanno problemi a rapportarsi con chi è in disaccordo con loro, soltanto non tollerano quelli che cercano di fregarli. Sono moralisti in questo. Comunque, dopo la guerra Rugova vinse le elezioni col 55 per cento dei voti.

Dopo le prime vittime civili dei bombardamenti non ebbe mai un momento di pentimento per le sue scelte?
Pentito no, mai. Continuo però ancora oggi a pensare che non era necessario bombardare Belgrado. Penso che ci voglia sempre una misura e una intelligenza nell’uso della forza, ma difendo il principio secondo cui ci sono momenti in cui è inevitabile, quando si tratta di difendere valori come i diritti umani, che non possono essere accantonati nel nome della sovranità nazionale.

Intanto in Italia il popolo di sinistra soffriva, e molto.
Stiamo attenti, il popolo di sinistra non è in massa pacifista come spesso si vuole far credere. Ha sostenuto molte guerre che ha ritenuto giuste, e che talvolta non lo erano nemmeno.

Sono i giorni delle scritte sui muri “D’Alema boia” firmate con falce e martello.
Onestamente, l’avevo messo in conto. Non è questa campagna che mi colpì. Ero turbato dalla guerra. Sentivo la responsabilità di quello che accadeva, i civili che morivano… La mia preoccupazione era questa. Quando ci si trova coinvolti in avvenimenti così drammatici non ci si può preoccupare delle polemiche politiche interne.

Fu accusato di aver violato l’articolo 11 della Costituzione: “L’Italia ripudia la guerra…”.
Prosciolto, c’è una sentenza. La denuncia è stata considerata irricevibile. L’articolo 11 dice che l’Italia rifiuta la guerra, ma accetta le limitazioni di sovranità derivanti dai suoi obblighi internazionali. Se ne legge sempre solo una metà, se lo si legge tutto…

Ripensò mai in quei giorni alla celebre intervista di vent’anni prima in cui Enrico Berlinguer spiegava a Giampaolo Pansa sul Corriere della sera di sentirsi più sicuro “sotto l’ombrello della Nato”?
No, erano passati vent’anni, era cambiato il mondo. Io ero presidente del Consiglio e vicepresidente dell’Internazionale socialista. Il segretario generale della Nato era un socialista, Javier Solana. Il confronto con Berlinguer non aveva senso.

Non negherà che Nato era parola che continuava a suscitare diffidenza, se non ostilità, in buona parte del vostro elettorato…
Contrariamente a quello che si pensa nella memoria storica del popolo di sinistra, e cioè che la Nato sia una cosa terribile, ho sempre pensato che sia un organismo davvero multilaterale. Non a caso, è una delle ragioni per cui i neocon e l’amministrazione Bush l’hanno di fatto accantonata.

A metà aprile crescono i cosiddetti “danni collaterali” dei bombardamenti. Quando i caccia americani colpiscono la sede della tv serba lei è appunto a Washington per il cinquantesimo anniversario della Nato. Dini, indignato, protesta energicamente con gli americani. Lei lo smentisce: “Non si può stare a discutere ogni singolo bersaglio”.
In realtà, lo facevamo sempre, ma in modo riservato. Non potevamo fare polemica pubblica, perché questo avrebbe solo rafforzato Milosevic. Ripeto: io ero contrario ai bombardamenti sulle città serbe. Lo racconta anche il generale Wesley Clark nel suo libro di memorie. Quando cominciarono a esserci le prime vittime civili noi e la Germania insistemmo con forza perché cessassero le operazioni più rischiose. E gli americani si infastidirono di queste continue discussioni in seno alla Nato, tanto che alcune operazioni furono compiute da caccia americani che si alzavano dalle basi Usa e venivano riforniti in volo. In realtà a Washington il vero incidente fu un altro.

Vale a dire?
Ci fu una riunione di capi di Stato. Blair e Aznar dissero: “Bisogna chiudere la partita, la Nato non può perdere e quindi dobbiamo intervenire via terra”. Voleva dire invadere la Serbia, uno Stato sovrano, un opzione pesante senza autorizzazione dell’Onu. Schroeder, Chirac e io ci opponemmo. Clinton concluse: “Questa impresa l’abbiamo cominciata insieme e la finiremo insieme, perché il compito del presidente degli Stati Uniti d’America non è dividere l’Europa”. Una frase che mi è tornata in mente con Bush, che ha fatto esattamente il contrario. L’ipotesi fu scartata. E ci fu una accelerazione delle operazioni di bombardamento, ma anche dello sforzo diplomatico.

Dieci anni dopo, qual è il bilancio sulla guerra del Kosovo?
Il fatto che gli americani abbiano spinto l’Europa ad agire, dopo che era rimasta inerte davanti alla tragedia dei Balcani, fu un grande merito. Certo, la soluzione fu discutibile. I serbi non erano solo carnefici, avevano delle ragioni. E infatti la via d’uscita fu negoziata mantenendo una sovranità serba sul Kosovo. La risoluzione 1244 era ambigua, conteneva un compromesso, all’origine di una situazione che si è trascinata fino a qualche mese fa.

E non è chiusa. La Spagna, che non riconosce l’indipendenza del Kosovo, ha appena ritirato il suo contingente nella regione.
Una posizione che va rispettata e di cui si possono comprendere le specifiche ragioni (le rivendicazioni indipendentiste dei baschi, <+corsivo>ndr<+tondo>).

Stava dicendo che rifarebbe le stesse scelte...
Oggi siamo in condizioni di avere un giudizio più equilibrato e problematico su questa vicenda. Ha bloccato le guerre balcaniche e innescato un processo per cui la Serbia oggi è un paese democratico, in cammino verso l’integrazione europea. Ed è un interlocutore fondamentale, perché, liberato dall’ipoteca nazionalista e autoritaria, sta tornando a svolgere un ruolo di primo piano in tutta la regione, che conoscerà vera stabilità solo con l’integrazione di tutti i Balcani occidentali nell’Unione europea, Serbia e Kosovo compresi.

In Italia il dopo Kosovo è ricordato soprattutto per lo scandalo giudiziario legato alla ruberie della missione Arcobaleno.
Quale scandalo? La storia della missione Arcobaleno mi addolora. Viene ricordata per vicende giudiziarie che poi si sono enormemente ridimensionate. Quella è una vicenda di cui il paese dovrebbe sentirsi orgoglioso. Abbiamo organizzato una operazione di solidarietà di proporzioni gigantesche per centinaia di migliaia di persone che l’Albania non poteva assistere. Evitammo di trovarci decine di migliaia di boat people nel Mediterraneo. Grazie a quella missione stringemmo con l’Albania un rapporto speciale, che ci ha consentito poi di risolvere il grande problema della immigrazione clandestina proveniente da quel paese. Noi ci siamo dimenticati cos’era il canale d’Otranto negli anni Novanta.

Un’ultima domanda. L’intervento in Kosovo sdoganò a sinistra il concetto di “guerra umanitaria”. Ma da premier non le riuscì di sdoganare anche le riforme economiche che aveva in mente, bocciate dalla Cgil e da un pezzo degli stessi Ds. Non lo sente come un fallimento?
No. Andatevi a rileggere i rapporti dell’Ocse. Quello è il periodo in cui l’Italia ha avuto le migliori performance in termini di crescita di pil e i migliori risultati di contenimento della spesa e del deficit pubblico. Viene considerata una stagione in cui le liberalizzazioni hanno proceduto in maniera più spedita e coraggiosa. E ci furono anche riforme significative del mercato del lavoro, per le quali è giusto ricordare l’impegno e il sacrificio di Massimo D’Antona. Certo, noi volevamo adottare misure ancora più radicali e io posi il tema della revisione della struttura contrattuale e del completamento della riforma previdenziale. Si vede che i tempi non erano maturi. Ma il mio governo non cadde per deficit di riformismo. Per deficit di riformismo normalmente, in Italia, i governi restano in carica. Purtroppo.

stampa