Intervista
20 febbraio 2009

C'E' BISOGNO DI PIU' POLITICA

Intervista di Antonio Rapisarda - Ffweb Magazine, periodico della Fondazione Farefuturo


La questione legata allo scarso senso civico degli italiani si riaffaccia ciclicamente nel dibattito pubblico. Di fatto, molti dei problemi connessi al lento processo di “modernizzazione” del nostro Paese vengono motivati principalmente facendo ricorso alle nostre ridotte “virtù civiche”. Si sente di condividere questa lettura?

Innanzitutto vorrei rilevare come l’affermarsi dell’individualismo, dello spirito di campanile e di gruppo, il prevalere di interessi particolari su una visione generale, sul senso di appartenenza ad una comunità nazionale, siano stati a lungo celebrati come una virtù degli italiani. Si potrebbe dire che sull’elogio di questa caratteristica degli italiani l’onorevole Berlusconi abbia fondato un movimento e un ciclo politico. Ma vi e’ stata anche una certa sociologia che ha considerato a lungo questa mancanza di senso dello Stato come una qualità del Paese. Si è teorizzato che le strutture “pesanti” dello Stato fossero un impedimento ad una crescita imperniata sulla logica dei cespugli, sulle qualità dell’individuo. Ora, in verità, di fronte alla portata della competizione globale, questa mancanza di coesione nazionale e di senso dello Stato si è rivelata una debolezza. Ed è una debolezza che effettivamente stiamo pagando in termini di ritardo nella modernizzazione dell’Italia.

In che modo questo ritardo ha condizionato i rendimenti del nostro sistema-Paese?

In gran parte con il debole funzionamento della struttura pubblica, che è scarsamente efficace. E poi c’e’ la questione della slealtà fiscale, dell’esistenza di un’economia in nero, elementi che a lungo sono stati visti con simpatia, ma che in realta’ hanno reso e rendono il Paese piu’ fragile.

I ritardi nello sviluppo di una “religione civile” in Italia vengono attribuiti a diverse concause: i secoli di colonizzazione di matrice diversa, i limiti del processo unitario risorgimentale, il ruolo della Chiesa e così via. Qual è, a suo avviso, il peso specifico delle diverse cause che hanno portato a questi ritardi?

È difficile attribuire uno specifico peso a ciascuna di queste ragioni, che in modo diverso concorrono tutte a definire le caratteristiche del Paese. Tra queste, vi e’ senza dubbio il ritardo storico e la fragilità del processo di unità, il fatto che esso, nella sua fase iniziale, non abbia incluso le grandi masse popolari, ma sia stato piuttosto voluto e diretto da una élite abbastanza distaccata dal Paese profondo. In una successiva fase storica, l’ideale della Nazione e dello Stato si è identificato con la dittatura, che certamente non ha aiutato a che questo mettesse radici profonde nella coscienza degli italiani.
Direi che nel dopoguerra il compito di promuovere una coesione del Paese, che non era sostenuto dal senso di appartenenza ad una comunità nazionale, è stato a lungo garantito dai partiti politici, i quali hanno sopperito al ruolo dello Stato. Vi sono state anche molte distorsioni, certo. Ma tuttavia i partiti hanno tenuto insieme il Paese, hanno rappresentato grandi comunita’, hanno sviluppato dei sensi di appartenenza, sia pure paralleli fra loro. Con la crisi dei partiti, si è manifestato un grave scollamento e non a caso c’e’ stato il tentativo positivo, nel corso di questi anni, di sviluppare intorno alle istituzioni, in particolare all’istituzione Presidenza della Repubblica, un nuovo senso di appartenenza, una rinnovata “religione civile”. Da questo punto di vista, la presidenza Ciampi e ora la presidenza Napolitano hanno avuto questa impronta, proprio per cercare di dare una risposta agli effetti che si erano determinati.


Lo scarso civismo produce “a cascata” scarso senso delle istituzioni e dello Stato, scarso senso della legalità, preponderanza di logiche clientelari e particolaristiche. Quali responsabilità ha la classe politica in queste dinamiche? Il senso diffuso della “casta” autoreferenziale ha peggiorato questa sensazione diffusa di sfiducia e di scollamento tra il Paese e i suoi rappresentanti?

Distinguerei due fasi. Il momento di cesura sono gli anni ’70. Fino ad allora, i partiti hanno complessivamente svolto un ruolo positivo di coesione per il Paese. Poi si è aperta una lunga fase di crisi della politica. E come spesso accade, la perdita di questa funzione nazionale della politica si è accompagnata ad una crescita di fenomeni clientelari e distorsivi che hanno peggiorato la situazione. A mio parere, dunque, all’origine del prevalere di logiche particolaristiche, di cui il ceto politico - la cosiddetta ‘’casta’’ - e’ espressione, non vi e’ un eccesso di politica, ma un declino della politica intesa nel senso piu’ alto. Detto questo, continuo a pensare che occorre indagare sul ruolo delle diverse “caste”, perche’ la logica corporativa, lo spirito di casta, appunto, non è certo appannaggio esclusivo del ceto politico.

In che modo la politica e le istituzioni possono provare a colmare questo gap rispetto ai paesi più virtuosi? Come può la classe dirigente, “dirigere” il Paese verso un modello socio-culturale diverso?

Resto convinto del fatto che in questi anni è mancata la capacità della classe politica di governare insieme – com’era giusto fare - il lungo processo della transizione italiana. Da questo punto di vista, una delle ragioni che hanno concorso ad aggravare la situazione è stata l’estrema conflittualità di un bipolarismo che ha avuto caratteri di rissosita’, invece di promuovere insieme un percorso per mettere mano a riforme indispensabili al Paese.
Insomma, ancora una volta il punto di partenza sta lì: nella capacità della classe dirigente del Paese di lanciare innanzitutto al proprio interno un segnale di coesione, di senso dello Stato e di comune impegno per governare i cambiamenti necessari e che appaiono ancora largamente incompiuti. Non c’è il minimo dubbio che il ruolo avuto dal sistema dei partiti nel dopoguerra è nato anche grazie alla loro capacità di superare le divisioni e convergere per dare al Paese la Costituzione, per gettare i fondamenti della storia dell’Italia repubblicana. Ora, nella stagione della “seconda Repubblica”, questa capacità è mancata. Cio’, indubbiamente, contribuisce ad indebolire non solo la politica, ma quel senso dello Stato, quel senso di comune appartenenza di cui c’e’ bisogno. Se innanzitutto dall’alto non viene l’esempio, è difficile che questo si sviluppi dal basso.


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