Discorso
13 marzo 2009

SCUOLA DI FORMAZIONE POLITICA “GIOVANNI FERRARA” – intervento di Massimo D’Alema – Pavia


La crisi assume una dimensione sociale estremamente pesante. Credo che, in realta’, sia un intero ciclo dello sviluppo ad essere arrivato ad un esito e che siano venuti alla luce squilibri e contraddizioni di fondo. Parliamo della globalizzazione senza regole, del liberismo estremo, insomma di quella teoria che ha dominato nel corso di questi anni, secondo cui la globalizzazione non aveva bisogno della politica. Anzi - e’ stato scritto - l’unico compito della politica e’ rimuovere gli ostacoli, perche’ l’economia possa dispiegare i suoi straordinari effetti benefici. Provvedera’ il mercato ad allocare risorse in modo ottimale, a ridurre le diseguaglianze, a renderci tutti felici. Non era vero. La gigantesca illusione che la globalizzazione facesse venire meno il bisogno della politica ha prodotto due contraddizione di fondo.
Quella che viene chiamata “deregulation” e’, a mio avviso, una formulazione tecnica per alludere ad un problema molto piu’ profondo, che io definirei un “deficit di democrazia”. La globalizzazione ha prodotto un drammatico deficit di democrazia. Il mercato senza regole (e noi sappiamo che il mercato senza regole e’ fuori dalla migliore teoria liberale, perche’ il mercato-istituzione richiede delle regole) e’ frutto di una asimmetria tra la crescita di una economia mondiale e l’assenza di istituzioni in grado di regolarla. E’ come se l’economia nazionale si fosse sviluppata in assenza dello Stato. In fondo, nella storia europea , quella che Dahrendorf - pensatore liberale - defini’ la quadratura del cerchio, e’ stata esattamente la capacita’ di conciliare le ragioni della crescita capitalistica con quelle della coesione sociale e quindi del mantenimento della democrazia.
Ma chi ha svolto questo ruolo di conciliatore? Chi ha fatto quadrare il cerchio? La politica, le istituzioni, lo Stato nazionale, attraverso la sua capacita’ di regolare il mercato, di porre rimedio alle diseguaglianze. Ebbene, noi, invece, abbiamo vissuto la crescita di una economia/mondo priva di istituzioni e quindi priva di regole. Questo ha fatto crescere una oligarchia, un ristretto gruppo di persone che ha concentrato nelle proprie mani il potere senza controllo. In un bel libro, Giulio Sapelli ha scritto che la crisi mondiale e’ frutto di un colpo di stato compiuto dall’oligarchia finanziaria “stockoptionista”, cioe’ i grandi manager della finanza mondiale detentori delle stock option.
Questa oligarchia finanziaria non e’ stata sottoposta a nessun controllo, ha preso il potere, si e’ data le sue regole, ha accumulato un’enorme ricchezza. Badate: questa razza padrona della globalizzazione ha anche fatto un’operazione ideologica. Infatti, non c’e’ nessuno che abbia preso il potere e che, innanzitutto, non si preoccupi di diffondere una ideologia. Anche perche’, aggiungo, la razza padrona ha un controllo ampio dei mezzi di comunicazione di massa. E l’ideologia che e’ stata diffusa a piene mani e’ stata, secondo me, quella dell’antipolitica: il disprezzo verso la politica, le sue forme, le sue istituzioni, gli Stati nazionali. Intendiamoci, la politica spesso ha arrancato rispetto all’immagine moderna che le grandi compagnie multinazionali hanno comunicato. Un’immagine di modernita’, di rapidita’, mentre, dall’altra parte, c’erano procedute farraginose. Esse, in qualche modo, hanno costruito un universo ideologico che ha permeato il senso comune di milioni di esseri umani.
Ora assistiamo al crollo di questo castello ideologico e i banchieri orgogliosi bussano alla porta dei tanto disprezzati Stati nazionali per vedere se, attraverso qualche emissione di obbligazioni, si pone rimedio al crollo dei patrimoni. C’e’ un radicale mutamento anche nella cultura. E c’e’ un affannoso rincorrersi sul chi lo aveva detto prima. Il ministro Tremonti ha ritrovato la freschezza del suo linguaggio giovanile, di quando era socialista. Era preparato perche’ aveva questo background, ha tirato rapidamente fuori dagli armadi , dove erano a prendere polvere, i libri della sua giovinezza e si e’ rilanciato in questo tipo di cultura… E’ cambiato il linguaggio, si attendono risposte dalla politica.
Innanzitutto, sarebbe illusoria l’dea di fronteggiare questa emergenza drammatica soltanto attraverso il rafforzamento di istituzioni tecniche o soltanto contando sul ruolo degli Stati nazionali. Infatti, anche se in crisi, l’economia globale resta globale e non saranno gli Stati nazionali da soli a poterla regolare. L’Idea che si possa tornare indietro rispetto alla globalizzazione sarebbe illusoria, pericolosa, porterebbe a politiche protezionistiche, accentuerebbe una guerra tra poveri (come lo sciopero dei lavoratori inglesi contro i lavoratori italiani che hanno vinto una gara d’appalto ) oppure provocherebbe un’ ondata xenofoba (“pensiamo prima ai nostri che agli immigrati”… Discorsi che tengono banco nella politica italiana… ). Tutto cio’ sarebbe innanzitutto illusorio, perche’ non si portano indietro le lancette della storia. E sarebbe profondamente regressivo e pericoloso, perche’ potrebbe provocare drammatici conflitti. La grande globalizzazione della fine dell’Ottocento e degli inizi del Novecento a cui segui’ la grande crisi, poi sfocio’ nella guerra.
Dunque, questa forma della risposta politica, nazionalista e neoautoritaria, e’ estremamente pericolosa. La risposta vera e’ costruire coraggiosamente una nuova architettura istituzionale internazionale. Si discute molto, oggi, della crisi degli strumenti di governance, ma si parla poco di quello che, secondo me, dovrebbe tornare al centro, cioe’ il sistema delle Nazioni Unite. Una governance globale non puo’, a mio parere, poggiare solo su strumenti tecnici, anche se certamente, da questo punto di vista, credo che sia fondamentale il ruolo che puo’ assumere il FMI. Quando ero ministro degli Esteri, avevamo lavorato su questo tema e avevamo predisposto una proposta italiana per una riforma del FMI e del suo ruolo. Naturalmente, occorre affidare al Fondo monetario il compito di un’alta sorveglianza multilaterale, il che comporta, innanzitutto, una revisione della sua governance, nel senso che esso dev’essere uno strumento nelle mani di una comunita’ di Paesi, non soltanto di Paesi ricchi. Ed e’ auspicabile che l’Europa, li’, si rappresenti come singolo Paese. Inoltre, occorre che tutti i Paesi si sottopongano a sorveglianza multilaterale, perche’, a partire dagli anni Ottanta, l’FMI e’ stato innanzitutto uno strumento attraverso cui i Paesi ricchi hanno sorvegliato i Paesi poveri, imponendo loro politiche che spesso si sono rivelate disastrose.
Questo ci rimanda ad un tema che e’ squisitamente politico: non esistono istituzioni senza “accauntability”. Le decisioni puramente tecniche, di cui non si sa chi risponde davanto all’opinione pubblica, sono spesso ingannevoli. Spesso, dietro la neutralita’ della tecnica si nasconde il dominio di una posizione politica, culturale, ideologica. Per questo e’ essenziale che, accanto al rafforzamento e alla riforma di strutture di carattere tecnico, in grado di esercitare una sorveglianza sul funzionamento dei mercati finanziari, si rafforzino gli organismi di cooperazione politica.
Mi riferisco, dunque, sia al sistema delle Nazioni Unite, sia ad una seria revisione di quelle istituzioni piu’ operative nate a partire dall’esperienza del G7, poi del G8, essendo chiaro che il G8 non puo’ piu’ pretendere di essere un organismo di governo del mondo. In qualche modo non avrebbe neanche dovuto pretenderlo, dovendo limitare il suo compito a discutere questioni ed iniziative concrete, nel quadro degli orientamenti e delle decisioni delle Nazioni Unite. Ma non puo’ piu’ esserlo oggi in particolare. Pensate che, quando nacque il G7, che divenne G8 con la Russia, per scelta politica, i Paesi che ne facevano parte producevano qualcosa tra il 75 e l’80 per cento del pil del mondo. Oggi, il 48 per cento… Il mondo e’ cambiato radicalmente e abbiamo bisogno di istituzioni che ne prendano atto. Nessuna grande issue internazionale, ne’ di carattere economico ne’ ambientale, puo’ essere discussa senza la Cina, l’India, il Brasile al tavolo delle decisioni e non invitati il giorno dopo, a prenderne atto dei pretesi grandi della Terra, che tali piu’ non sono. E attenzione, perche’ questa crisi cambiera’ in modo ancora piu’ profondo la gerarchia del mondo, affermando il ruolo di nuovi protagonisti con i quali si dovra’ fare i conti.
Come abbiamo visto, questo ciclo di sviluppo ultraliberista ha avuto, come prima conseguenza, quello di creare un deficit di democrazia che, poi, e’ stato anche all’origine dell’esplodere di una crisi finanziaria incontrollata. Ma ha avuto un’altra conseguenza, una seconda contraddizione di fondo non meno grave. Questo sviluppo si e’ accompagnato, infatti, ad una crescita paurosa delle diseguaglianze sociali, producendo un “deficit di eguaglianza”, un deficit di giustizia sociale che si e’ manifestato non soltanto nell’aggravarsi della distanza tra Paesi ricchi e Paesi poveri, tra Paesi beneficiari della globalizzazione e Paesi sconfitti, ma anche all’interno degli stessi Paesi ricchi.
Il credit crunch americano, la crisi dei mutui sub prime e’ stata l’innesco della crisi finanziaria ed e’ stata soprattutto esaminata da quell’, cioe’ sotto il profilo squisitamente finanziario. Pochi, pero’, hanno considerato che la crisi e’ nata innanzitutto dal fatto che le famiglie americane non sono state piu’ in grado di pagare la rata del mutuo. E siccome su quella rata era stato costruito un enorme castello dei prodotti derivati, la crisi ha avuto l’effetto della bomba atomica, producendo una reazione a catena al cui principio – ripeto - c’e’ l’impoverimento del la famiglia media americana.
Dunque, vi e’ un dato sociale: l’impoverimento del mondo del lavoro, delle classi medie, che e’ stato uno degli effetti della globalizzazione, della finanziarizzazione dell’economia. Da un lato si e’ arricchito il capitale, con il denaro che ha creato il denaro, dall’altro si e’ impoverito il lavoro. In piu’, i Paesi ricchi sono stati oggetto della concorrenza di Paesi dove il costo del lavoro e’ molto basso e cio’ ha contribuito a tenere basso il costo del lavoro anche qui da noi. Non a caso, in un recente rapporto dell’Ocse viene fuori un dato impressionante dell’ultimo ventennio: in un periodo di crescita della ricchezza globale, nei Paesi ricchi, cioe’ nei quattro quinti dei Paesi Ocse, e’ cresciuta la poverta’, oltre ad essere aumentate le distanze sociali. In modo particolare, questo processo ha riguardato gli Stati Uniti, il Canada, l’Italia, la Germania… Si e’ ridotta notevolmente la quota dei salari sul valore aggiunto, mentre e’ cresciuta molto la quota delle rendite. Ad esempio, negli ultimi 15 anni in Italia, l’aumento dei redditi da lavoro autonomo e da capitale e’ stato del 44 per cento, quella dei redditi da lavoro del 6 per cento.
Dobbiamo riflettere, quindi, sugli effetti sociali intollerabili di questi trend. E dobbiamo dire la verita’, cioe’ che li abbiamo contrastati in modo insufficiente anche quando abbiamo svolto funzioni di governo. Queste tendenze hanno prodotto una situazione che ha effetti negativi non solo sociali, ma anche economici, perche’ rendono piu’ fragile la societa’. In un Paese in cui la crescita della ricchezza si concentra in poche mani , non c’e’ un aumento dei consumi. E’ evidente, infatti, che se cresce la ricchezza soprattutto nel decile piu’ alto, cio’ non aiuta la crescita di un mercato interno. Al contrario, l’Europa ha sempre di piu’ bisogno di un mercato interno dinamico per rilanciare la propria economia, che non puo’ fondarsi soltanto sulle esportazioni, visto che sul mercato mondiale ci sono la Cina, l’India… Insomma, gli spazi si restringono.
Questa diseguaglianza sociale ha avuto effetti negativi sull’economia e si e’ scoperto che l’idea convenzionale che ha dominato in questi anni, secondo cui meno si spendeva per lo stato sociale e piu’ l’economia era competitiva, non era vera. Cosa e’ accaduto? Gli economi hanno scoperto che c’e’ una certa proporzionalita’ tra crescita della diseguaglianza e riduzione della produttivita’ del lavoro. La produttivita’ del lavoro e’ piu’ alta in Paesi che hanno sistemi di protezione sociale piu’ forte. I Paesi che investono sulla salute, sull’istruzione dei cittadini, sono quelli che hanno anche una piu’ alta produttivita’ del lavoro. Non e’ un caso che le economie che hanno resistito maggiormente alla competizione internazionale, in Europa, sono quelle del Nord, con sistemi di welfare piu’ sviluppati e piu’ forti, dove c’e’ maggiore coesione sociale. La societa’ diseguale e’ come una squadra di calcio lunga, che fatica e che, generalmente, prende gol.
Dunque, abbiamo riscoperto la necessita’ di correggere gli squilibri strutturali che la globalizzazione selvaggia ha determinato. Ho messo in luce due punti che mi sembrano fondamentali: colmare –appunto- il deficit di democrazia, non attraverso il ritorno al protezionismo e al nazionalismo, ma attraverso una costruzione dell’architettura istituzionale internazionale capace di governare lo sviluppo. E colmare un deficit di giustizia sociale, perche’ cio, oltretutto, e’ economicamente insostenibile, essendo fonte di una fragilita’ economica.
Da questi punti di vista, onestamente, a me non sembra che la risposta europea sia all’altezza di questi compiti. Trovo che sia debole e che contenga anche qualche aspetto pericoloso. Paradossalmente, la risposta piu’ innovatva, il messaggio piu’ socialista, come ha titolato NewsweeK , viene dagli Stati Uniti. In definitiva, la politica americana va esattamente ad affrontare le contraddizioni che abbiamo esaminato. Da un lato, attraverso un forte rilancio della azione pubblica, senza temere neppure di nazionalizzare qualche banca, la’ dove l’espressione “nazionalizzare” e’ quasi una bestemmia. Dall’altro, attraverso un carattere coraggiosamente innovativo delle scelte proposte. Persino dal punto di vista simbolico. Negli Stati Uniti c’e’ una scarsissima protezione sociale. In particolare, si ha l’assistenza sanitaria attraverso sistemi assicurativi legati al posto di lavoro. Ecco che il presidente degli Stati Uniti mette una tassa sui ricchi per garantire l’assistenza sanitaria ai disoccupati. Una classica misura di redistribuzione della ricchezza.
Piu’ in generale, e’ tutta la manovra americana ad avere un fortissimo segno di redistribuzione della ricchezza: riduzione delle tasse per i lavoratori e le classi medie, aumento delle tasse per i ricchi. E ricordo che parliamo di un Paese dove, a partire da Reagan in poi, ha dominato la filosofia della flat tax, cioe’ dell’appiattimento della curva delle aliquote.
C’e’ qualcosa di europeo in quello che sta facendo il presidente degli Stati Uniti d’America. Accanto a cio’, vi e’ un grande impegno per rilanciare lo sviluppo in una chiave innovativa, puntando sulle nuove tecnologie, sulla ricerca scientifica. Una cosa come il 12, il 13 per cento della manovra americana e’ dedicato a nuove tecnologie ambientali, all’economia verde, con il calcolo di creare tre milioni di posti di lavoro “verdi”. E, ancora, la decisione molto coraggiosa di ridare i contributi pubblici alla ricerca sulle cellule staminali embrionali, che punta a portare gli Stati Uniti alla leadership mondiale nella ricerca biomedica.
Insomma, si tratta di decisioni molto forti per rilanciare lo sviluppo in chiave innovativa , con riduzione della dipendenza da petrolio e aggancio alla strategia di Kyoto (da sempre rifiutata dalla amministrazione conservatrice), e forte scelta di redistribuzione della ricchezza. E da noi? In Europa niente di tutto questo. A lungo gli europei si sono illusi di essere al riparo da questa crisi, grazie ad un sistema finanziario piu’ solido e al fatto che, in fondo, fosse una cosa americana. In effetti, il Paese europeo piu’ esposto, la Gran Bretagna, ha trovato in Gordon Brown un leader che ha saputo – lui si’ – reagire in modo tempestivo ed efficace anche con decisioni molto radicali, come le nazionalizzazioni. E la reazione britannica ha cosi’ limitato, in qualche modo, le conseguenze della crisi finanziaria sui mercati europei.
Tuttavia, la verita’ e’ che poi l’Europa e’ stata pienamente investita dalla crisi economica e che era del tutto illusorio che, in un mondo globalizzato, noi potessimo essere al riparo da una crisi globale, con crollo dei consumi, contrazione della liquidita’ per le imprese, disoccupazione, collasso di diversi Paesi dell’Europa centrale e orientale, la cui crescita e’ avvenuta, in questi anni, all’insegna del liberismo piu’ sfrenato. Il collasso dei Paesi che c’erano stati presentati come un modello… Non c’era convegno in cui Confindustria non dicesse: bisogna fare come in Irlanda, dove non si pagano le tasse, dove si attraggono capitali da ogni parte del mondo... Ecco, hanno attratto anche un mucchio di spazzatura, per cui quest’anno il Pil e’ -7. Dico questo perche’ abbiamo anche resistito a campagne ideologiche, che, se le avessimo accolte, chissa’ dove ci avrebbero portato. Vi lascio pensare solo per un momento se non avessimo tirato dritto e non avessimo portato l’Italia nell’Euro. Operazione per la quale la destra abbandono’ il Parlamento, atto che aveva un solo precedente: l’Aventino dopo il delitto Matteotti. Ora, se in questa bufera noi fossimo stati con la “liretta”, nulla sarebbe rimasto dei risparmi degli italiani.
In questo quadro, il fatto piu’ allarmante e’ che, di fronte all’incalzare della crisi, e’ emersa la debolezza delle istituzioni dell’Unione, con l’affannoso e inconcludente succedersi di vertici e di Consigli straordinari (si potrebbe dire, parafrasando Sraffa , “produzione di vertici e mezzo di vertici”). In realta’, quello che accade e’ una certa tendenza alla rinazionalizzazioni delle decisioni fondamentali. L’alternativa, infatti, sarebbe un salto di qualita’ della coesione europea, prendendo atto che non si puo’ avere una moneta unica senza un coordinamento delle politiche economiche e di bilancio. L’alternativa sarebbe un grande programma europeo di investimenti, finanziato con gli eurobond. Ma a tutto questo i governi nazionali resistono, soprattutto quelli conservatori.
Allora, che si fa? Si salvi chi puo’ … Si allentano i vincoli, perche’ e’ chiaro che in un momento di crisi si possono superare i parametri del patto di stabilita’; si chiude un occhio in materia di aiuti di Stato, per cui i francesi danno i soldi all’industria dell’automobile … Tutto cio’ puo’ riportarci molto indietro. E’ evidente che, se saltano le regole in materia di politiche di bilancio e di aiuti di stato, si rischia di mettere in discussione l’euro e il mercato interno, cioe’ due delle piu’ importanti conquiste che gli europei hanno realizzato in cinquant’anni di storia europea. Aggiungo, e per noi non e’ l’ultima preoccupazione, che in un’Europa in cui la parola d’ordine e’ ‘’si salvi chi puo’’’, noi siamo il vaso di coccio sia per come siamo governati, sia perche’ la situazione del bilancio pubblico italiano rende molto difficile la strada del ricorso alle risorse pubbliche per affrontare i nostri problemi.
La mia impressione e’ che, di fronte a questa crisi, l’Europa sia in affanno rispetto alle necessita’ e che rischiamo di andare nella direzione esattamente opposta a quella di rafforzare gli strumenti della governance internazionale. Dunque, il timore e’ il ritorno a politiche nazionali con un orizzonte ristretto e con un segno politico inequivoco, conservatore e reazionario come d’altra parte sono il nazionalismo, l’illusione dei dazi e delle barriere. E com’e’ la politica della paura, grande volano di una destra europea , illiberale, che ha preso piede non solo in Italia. La paura dell’Oriente, perche’ ci porta via i mercati ed e’ piu’ competitivo di noi; la paura del Sud, perche’ vengono gli immigrati; la paura dell’Islam… l’Europa appare, in questo momento, un continente vecchio e impaurito, molto piu’ degli Stati Uniti d’America, che, se e’ vero che sono stati l’epicentro di questa crisi e ne portano la principale responsabilita’, e’ vero anche che hanno una capacita’ di reazione che mostra la vitalita’ e il dinamismo di una societa’ piu’ aperta e inclusiva della nostra. Una societa’ in cui il carattere multietnico ha espresso un presidente come Obama, che e’ il primo leader globale. Nella sua famiglia c’e’ un patrigno indonesiano, un cognato cinese…
L’America ha fornito al mondo il primo leader globale, una persona nella cui famiglia ci sono tre o quattro continenti, confermando quella bellissima frase di Lucien Fevre che dice che soltanto il “metissage de sang” produce la civilta’, il mescolamento dei sangui… Noi, invece, siamo in un Paese dove si raccolgono le firme per cacciare gli immigrati.
Insomma, tutto questo, a mio avviso, e’ un segno della fatica dell’Europa, a cui gli europei devono reagire. Perche’ la crisi e’ un enorme problema, ma e’ anche una grande occasione di cambiamento. In quersto contesto, noi dobbiamo vedere i rischi e le potenzialita’ dell’Italia, senza cadere in quell’accusa che il presidente del Consiglio ha rivolto alla sinistra, di essere menagrama. Accusa che io gli ho rigirato. A me l’hanno subito rimproverata, mentre lui puo’ dire quello che vuole…
E’ chiaro che si esce dalla crisi iniettando fiducia. Ha ragione Romano prodi, che oggi ha scritto un bel saggio sul “Sole 24 Ore”: la nostra forza e’ innanzitutto l’esistenza di un tessuto industriale vitale, fatto di piccole e medie imprese che hanno capacita’ innovativa e flessibilita’. Dunque, dobbiamo avere fiducia circa la possibilita’ che l’Italia esca da questa crisi. Naturalmente, quando ne usciremo, sara’ cambiata la classifica delle grandi potenze economiche. Quello che accadra’ sara’ normale: si ridefinira’ un ordine del mondo per cui i Paesi che sono stati ricchi nel corso del secolo scorso conteranno un po’ meno e dovranno dividere il potere con altri.
Il problema e’ capire se noi siamo in grado di ridare slancio alla societa’ italiana, Ora, le cose che si stanno facendo vanno nella direzione opposta. L’Italia si presenta come un esempio negativo su tutti, malgrado la propaganda e la straordinaria capacita’ del capo del governo di dire cose che sono il contario della verita’ e di fare in modo che esse siano al centro del dibattito politico. Berlusconi ha detto di essere quello che ha fatto piu’ di tutti per affrontare la crisi. Vi sono statistiche internazionali che dicono il contrario. Da un’analisi pubblicata ieri dal “Sole 24 Ore” emerge che l’impatto della manovra italiana, complessivamente, e’ dello 0,2 per cento, contro quella americana che e’ del 5,8 per cento, e quella tedesca che e’ del 3,8 per cento. Di gran lunga noi siamo il Paese che ha fatto meno per fronteggiare la crisi, invece si dice che abbiamo fatto di piu’. Non ho letto su nessun grande giornale un editoriale dal titolo: “non e’ vero”.
Noi siamo riusciti ad avere un impegno anti crisi pari allo 0,2 per cento del pil, ma ad avere un aumento del deficit del 2,4. Il che e’ un dato singolare ed impressionante, che non e’ casuale, ma frutto delle scelte compiute in questi mesi. La principale scelta di politica economica del governo Berlusconi e’ stata la ripresa massiccia dell’evasione fiscale. Una scelta tacita, che pero’ e’ senza dubbio un risultato della politica del governo. Lo spiega bene la Corte dei Conti che, in un rapporto, ha indicato quali sono gli atti compiuti dal governo, il quale ha cancellato una serie di misure che erano state assunte dal governo precedente.
Quindi, aumenta il deficit pubblico e crolla il gettito malgrado l’aumento della pressione fiscale, il che vuol dire che i cittadini onesti pagano piu’ tasse. Insomma, tra la ripresa dell’evasione e l’eliminazione dell’ICI per i piu’ ricchi, il governo ha fatto una straordinaria operazione di ridistribuzione della ricchezza a favore della parte piu’ ricca della popolazione. Berlusconi dice che, come Obama, e’ un uomo del fare, ma fa il contrario delle scelte compiute negli Stati Uniti.
E vi e’ un altro punto: si taglia la spesa per la ricerca e per l’universita’. La scelta strategica di puntare sull’innovazione per uscire dalla crisi da noi viene seguita in senso opposto. E’ su tutto cio’ che bisogna portare la sfida. Sembra che, opportunamente, in queste settimane Franceschini cercahi di caratterizzare la sua leadership soprattutto nel lanciare messaggi chiari che vadano nel senso di una piu’ giusta ridistribuzione del reddito, della protezione dei piu’ debolii. E dobbiamo rafforzare il messaggio di una politica di sviluppo. In questo momento e’ fondamentale che vi sia una opposizione che faccia di giustizia sociale e sviluppo un tema centrale, guardando alle forze produttive e invitandole, anzicche’ a dividersi, a a mettersi insieme, perche’ hanno grandi interessi comuni. Mi fa piacere che anche la Confcommercio, da Cernobbio, lanci la parola d’ordine di una piu’ forte progressivita’ delle aliquote. E non perche’ e’ stata folgorata dagli ideali socialisti, ma perche’ ha fatto due conti, per cui sa dell’importanza della redistribuzione del reddito tra lavoratori e classi medie. Dunque, muove da una preoccupazione di natura corporativa, ma pone un problema di carattere generale .
Ora, credo che questo sia il terreno fondamentale della battaglia politica del nostro Paese e su questo terreno si gioca il futuro dell’Italia: salvaguardare l’apparato produttivo, investire sull’innovazione per rilanciare la capacita’ competitiva attraverso una crescita della produttivita’ del lavoro. Ma, come dimostra l’esperienza dei Paesi piu’ virtuosi, la produttivita’ del lavoro e’ direttamente dipendente a quanto si investe sull’innovazione, sulla formazione, sulla salute dei cittadini. Questo richiede anche un governo del mercato del lavoro che sappia garantire la necessaria flessibilita’, senza scadere in quella precarizzazione che si rivela, anch’essa, un fattore che concorre alla caduta della produttivita’. E’ evidente che il giovane che vive il lavoro come l’esperienza di uno o due mesi sotto ricatto, e’ difficile che possa dare il meglio della sua qualita’, intelligenza e professionalita’. E’ evidente che il lavoro svalorizzato e precario e’ anche scarsamente produttivo.

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