Intervista
9 luglio 2009

CHE AMAREZZA, UN CONGRESSO CONTRO DI ME

Intervista di Federico Geremicca – La Stampa


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Roma - Aggressività. Gliel’hanno rimproverata in tanti: Fassino, Castagnetti, «Europa» e molti supporter di Franceschini. Hanno detto: troppa aggressività verso il segretario, nella prima uscita congressuale di Massimo D’Alema. È passato qualche giorno, ma ancora adesso dice di non capire: «La parola è sbagliata. Quella giusta è: amarezza. Amarezza per il fatto che si dica - senza che nessuno del gruppo dirigente replichi - che questo è il congresso del Pd contro di me; e poi perché invece di affrontare i problemi veri, qualcuno ha preferito aizzare le istanze di rinnovamento contro un immaginario nemico interno. È un un grave errore di partenza: ma è così che il segretario del Pd ha voluto dare il via alla nostra discussione». D’Alema appare davvero amareggiato: e poiché l’amarezza a volte può trasformarsi in rabbia, ecco che il confronto nel Pd rischia davvero il piano inclinato dello scontro per lo scontro. Anche per questo, forse, lui prova a rassicurare: «Questo non è il congresso del ritorno di D’Alema, altrimenti mi sarei candidato». Il che non vuol dire, però, che faccia sconti al modo in cui è stato costruito e gestito il Pd: «Ci siamo fatti del male. Il Pd è una grande novità che nessuno vuol cancellare: è il nerbo di un’alleanza senza la quale torniamo al prima, a quelle debolezze strutturali che ci facevano poco credibili come forza di governo. Però, è chiaro, molte cose devono cambiare».

Lei chiama in causa Franceschini: ma anche Fassino l’ha attaccata. Ha detto: uno statista non ha paura della Serracchiani.
«Non capisco. È parlamentare europea e protagonista autorevole del dibattito politico, tanto che si parla di lei come vicesegretario del Pd. Ha fatto un’intervista per dire che bisogna fare il congresso contro di me e io le ho risposto prendendola sul serio, il che mi pare una forma di rispetto. Che mi vuol dire, Piero? Che alternativa avevo? Ho risposto con più garbo di quanto lei ne abbia riservato a me: e vorrei una discussione politica per approfondire il perché di rilievi così violenti. Vorrei discuterne, ma senza polemizzare con Fassino».

Perché?
«Perché mi dispiace. E perché non credo siano questi i nostri problemi».

La preoccupa la prospettiva di uno scontro vecchi-nuovi?
«Sì, perché non è questo il tema: non siamo di fronte a un conflitto generazionale, ma a diverse opzioni politiche. I giovani hanno posizioni diverse tra loro: erano in tanti anche da Bersani. La divergenze sono politiche. Il resto è propaganda».

Infatti la piattaforma di Bersani è stata criticata politicamente: è stata definita un «ritorno al passato»...
«Se aveste ascoltato il discorso col quale Marini ha fatto sapere che sosterrà Franceschini... Altro che Bersani! Queste polemiche non reggono. Al contrario, credo che Pierluigi abbia posto il vero problema che abbiamo di fronte».

E il problema sarebbe tornare indietro? Magari mitigando le primarie, contrattando alleanze come ai vecchi tempi e puntando a leggi elettorali meno bipolari?
«Il problema è fare del Pd una grande forza politica che torna a occuparsi dei problemi del Paese, senza finte contrapposizioni tipo vecchio-nuovo. La ricostruzione che viene fatta del discorso di Bersani è caricaturale. Abbiamo di fronte problemi enormi, che riguardano la difficoltà di tutte le forze riformiste in Europa. Il grande interrogativo è: perché, quando esplode la crisi della stagione neoliberale, mentre nel mondo i progressisti colgono le nuove opportunità, in Europa non c’è una sola forza riformista in grado di raccogliere la sfida?».

E rimanendo all’Italia, qual è la sua risposta?
«Per quanto riguarda noi, il problema è costruire una stagione riformista a partire da una cultura politica robusta. Un partito nuovo deve fondarsi su un progetto per il Paese e su una solida cultura politica. Finalmente Bersani ha posto questi problemi, mentre noi veniamo da momenti un po’ così, in cui il nuovismo si è manifestato in forme perfino stravaganti...».

Siamo sempre al «partito liquido» e a tutto il resto?
«Non solo. Il problema di fondo è il progetto che noi abbiamo proposto al Paese. Qual è questo progetto? Certo, non il dire che noi siamo più liberisti di Berlusconi, perché non può essere questo il principio ispiratore del centrosinistra: così, infatti, si lascia alla destra l’idea di comunità, solidarietà, protezione delle fasce più deboli. È lì che siamo stati battuti. E ha certo pesato negativamente l’idea che il Pd muovesse dalla liquidazione delle culture solidaristiche da cui pure traeva origine».

Addirittura la liquidazione?
«Se ripensiamo alle parole d’ordine con le quali è nato questo partito, l’idea è quella dello sradicamento. Di più: è apparso che proprio lo sradicamento rispetto a quelle culture fosse il compito principale da proporsi. Senza rendersi conto, alla vigilia della crisi, che le difficoltà avrebbero riportato d’attualità proprio quelle culture».

E siamo di nuovo al nuovo contro il vecchio...
«Sto parlando di cultura politica e di progetti per il Paese. La destra non ne ha, e lo si è visto in questi mesi difficili: ma nemmeno noi siamo stati in grado di metterne in campo uno nuovo. Abbiamo parlato per mesi di alleanze da fare o non fare: dibattito puerile. L’Ulivo fu precisamente un’idea sul futuro del Paese, non solo uno schema di alleanze, che vennero dopo. Il progetto era portare l’Italia in Europa, era l’euro, risanare i conti: e la missione era modernizzare il Paese tenendo il passo del processo di integrazione europea. Dopo quel progetto, non c’è stato altro. È per questo che il discorso di Bersani a me è parso molto bello».

Lei vi ha visto un progetto?
«La maggiore novità - che non è certo un ritorno al passato - è la volontà di ricollocare il partito dentro la vicenda storica del Paese: di immaginarlo, in forme nuove, come il continuatore di qualcosa, perché altrimenti non si capisce che cosa si è. Per il Pd il problema più serio è stato che pochi hanno inteso cos’era questa forza nuova, cosa rappresentasse, qual era il suo profilo. Questo è il tema, oggi: non vecchi contro nuovi. La nostra vera debolezza è l’incertezza di identità, di fondamento. Per questo ha ragione Bersani quando dice “questo è un congresso fondativo”».

Però, presidente, forse anche lei poteva accorgersi prima che era tutto sbagliato. Verrebbe da chiederle dove è stato negli ultimi due anni...
«E’ una critica inappropriata. A me è stato chiesto di girare alla larga, in ragione di una presenza troppo ingombrante».

Poteva dare battaglia. Non sarebbe stata certo la prima, no?
«Chi fa questa obiezione è disonesto, perché da una parte mi si rimprovera di aver rotto le scatole (tanto che il congresso mi dovrebbe cancellare) e adesso mi si accusa di non aver combattuto. Sì, non ho fatto battaglie: e questo forse merita un’autocritica. Ma non è che adesso voglia rimettermi in mezzo. Stiano tranquilli: questo non è il congresso del ritorno di D’Alema, altrimenti mi sarei candidato io».

E perché non lo ha fatto?
«Perché non credo che in questo momento ci sia bisogno di tornare ad una leadership che appartiene al passato. Come ho detto, mi sarei candidato di fronte ad un’emergenza: ma questa emergenza non c’è. In più, c’è Bersani: uno che dice “non sono il candidato di nessuno però credo ci sia bisogno di tutti. E’ il ritorno alla normalità, finalmente, con una persona tranquilla che non pensa di dover fondare il proprio prestigio sulla persecuzione di quelli che c’erano prima: dirigenti, per altro, che hanno vinto elezioni senza offendere nessuno, hanno portato la sinistra al governo e prodotto innovazione culturale. Cose di semplice buon senso, certo. Ma a volte anche il buon senso è rivoluzionario...»

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