Discorso
5 settembre 2009

FORUM AMBROSETTI 2009, “LO SCENARIO DI OGGI E DI DOMANI” - Villa d'Este, Cernobbio

Sessione “Gli insegnamenti della crisi: come e quando uscire dalla crisi”- Intervento di Massimo D'Alema


Partirò da una considerazione sulla discussione di questi giorni, che si basa sulla domanda: è davvero finita la recessione? Indubbiamente ci sono segnali che alimentano un cauto ottimismo. Si arresta la caduta del Pil, innanzitutto negli Stati Uniti e riprende vitalità il mercato immobiliare, epicentro della crisi americana. In Cina il tasso di crescita si mantiene sostenuto ed anche in Europa, particolarmente in Francia e Germania, vi sono segnali positivi. Tuttavia credo che la prudenza induca a ritenere che questi dati, se visti con attenzione, appaiono largamente il frutto delle politiche di stimolo che hanno avuto dimensioni senza precedenti e che sono state attuate dalla grande maggioranza dei governi del mondo. Non e’ un caso che gli economisti, soprattutto americani, invitano ad essere molto prudenti per quanto attiene alla prospettiva di fare cessare queste politiche di stimolo. Questo ci porta a dire che i segnali di ripresa sono abbastanza fragili e che potremo parlare di una più autentica ripresa soltanto quando essa sarà sostenuta dalle scelte delle famiglie e delle imprese, cioè dal mercato, e non in modo esclusivo o prevalente dalle politiche pubbliche.
La crisi non è stata una parentesi , un incidente di percorso lungo il cammino delle “magnifiche sorti e progressive” della globalizzazione. Lascia un segno molto profondo, di carattere strutturale. Non se ne è parlato, finora, ma la crescita delle disoccupazione metterà a dura prova i sistemi di protezione sociale europei. E poi la crescita del debito pubblico degli Stati, che è problema molo grave per l’Europa e in particolare per un Paese come il nostro. Per l’Italia, infatti, il debito pubblico rappresenta uno dei pesi maggiori sulle spalle dell’economia e delle generazioni future.
E’ vero che questa crisi ci lascia uno scenario profondamente cambiato e impone una nuova mentalità. Ho ascoltato con molto piacere il programma del primo ministro Fillion… Se posso permettermi una battuta scherzosa, l’ho ascoltato con particolare piacere perché mi è sembrata l’esposizione coerente e coraggiosa di un programma socialista, dal punto di vista della forza dell’azione pubblica… Un linguaggio che era stato completamente messo al bando nella cultura politica ed economica dominante e’ tornato ad essere un linguaggio comune: la riscoperta della necessità dell’azione pubblica e persino il ritorno dello Stato nazionale, quel vecchio arnese in declino, totalmente reso obsoleto dalla globalizzazione. Si riscopre che la stabilità dei sistemi finanziari poggia, in ultima istanza, sulla garanzia e sul ruolo degli Stati.
Tuttavia, credo che sarebbe sbagliato ritenere che si possa uscire da questa crisi anche soltanto tornando indietro. L’economia resta globale, anche se ha vissuto una crisi così drammatica . E non sarà il ritorno al protagonismo degli Stati nazionali che darà una risposta di sistema alla crisi. Se uno dei problemi di fondo lasciato aperto dalla crisi è la necessità di una regolazione, perché non è sostenibile la asimmetria tra un mercato mondiale ed una regolazione fondamentalmente basata su autorità nazionali, la grande sfida è quella di una regolazione internazionale, globale, di un potenziamento delle istituzioni globali, di uno sforzo ulteriore degli Stati nazionali per cedere sovranità a istituzioni in grado di fronteggiare le sfide di una economia globale.
Il secondo insegnamento fondamentale che la crisi ci propone è che lo sviluppo selvaggio degli ultimi 15 anni se ha generato un’enorme ricchezza ha, tuttavia, prodotto anche insostenibili diseguaglianze. La caduta dei consumi, che ha caratterizzato in modo drammatico questa crisi, è anche il risultato di una diseguale distribuzione della ricchezza, che ha impoverito il lavoro e i consumatori. L’America ha risposto a questo problema sostenendo il consumo attraverso una politica creditizia spericolata. Ma il giorno in cui la famiglia media americana non è stata più in grado di pagare la rata del mutuo per la casa, il sistema è crollato. Questo fenomeno di impoverimento delle classi medie non ha riguardato soltanto gli Stati Uniti. Una crescita robusta e di lunga durata richiede una distribuzione più equa della ricchezza. E’ difficile pensare che l’economia mondiale possa ripartire trainata soltanto dai consumi americani , che difficilmente torneranno ai livelli che hanno conosciuto in questi anni. C’è un grande problema di accesso al consumo dei popoli dei paesi emergenti, la Cina, l’Asia… C’è un grande problema del mercato interno europeo e della capacità di reddito del consumatore europeo. Questo richiede politiche pubbliche volte a ridistribuire la ricchezza e a ridurre le diseguaglianze su scala globale e all’interno dei singoli Paesi.
La terza questione riguarda il fatto che una crescita come quella degli ultimi anni, sostenuta, da una parte, dal basso costo del lavoro, in particolare nei Paesi emergenti, dall’altra da una crescita della ricchezza attraverso l’innovazione finanziaria, ha determinato una scarsa propensione all’innovazione e alla ricerca. Dunque, una nuova fase di crescita richiede uno spostamento massiccio di risorse verso l’innovazione e la ricerca, verso innovazione di processo e di prodotto, verso nuovi consumi e beni collettivi. Non e’ un caso che in certi Paesi la green economy venga vista come l’asse di un nuovo ciclo di sviluppo.
Sarebbe fortemente illusorio pensare che, chiusa la parentesi della crisi, le cose torneranno come prima. In questo momento vi è un nuovo protagonismo delle politiche pubbliche, di cui bisogna fare buon uso, perché vi è un lato indubbiamente negativo che è la crescita dell’invadenza della politica e che rappresenta sempre un rischio. Si tratta, quindi, di discutere del contenuto di questo rinnovato protagonismo delle istituzioni. Vorrei dire, sintetizzando in uno slogan, non abbiamo bisogno di più proprietà pubblica, di più controllo pubblico. Abbiamo bisogno di buona regolazione, di politiche in grado di ridistribuire la ricchezza e di orientare gli investimenti verso l’innovazione, l’educazione e la cultura, capaci di sostenere uno nuova fare di sviluppo sostenuto.
Da questa crisi il mondo non uscirà uguale a come vi è entrato. Essa accelera un processo di cambiamento, di equilibri mondiali. Al di là di ogni retorica, gli Stati Uniti e la Cina ne usciranno più forti, l’Europa ne uscirà più debole. Le prospettive difficili di fuoriuscita dalla crescita indicano, per il nostro continente, una bassa crescita. Già la crisi ha reso evidente che i soggetti necessari a governare questo passaggio andavano al di là dell’Europa. L’Europa risulta meno necessaria e credo che noi europei, se vogliamo darci una mossa , dobbiamo cominciare a pensare che il mondo ha meno bisogno di noi di quanto fosse nel passato . In fondo, per governare questa crisi c’è voluto il G20, ma, in definitiva, il formato ristretto è, come è stato scritto da una autorevole rivista americana, il G2, un consesso imperniato sul rapporto tra Stati Uniti e Cina. Gli Stati Uniti sono stati l’epicentro della crisi, ma appaiono anche il Paese in grado di assumerne la lezione in modo più rapido e prendere le decisioni necessarie per aprire una nuova fase in modo più efficace.
C’è anche un aspetto politico, di questo affanno europeo. La crisi ha spinto in tutto il mondo ad un ricambio di culture e di classe dirigenti, persino in Giappone, Paese che non conosceva cambiamenti politici profondi da 54 anni. E mentre prevale quasi ovunque una classe dirigente nuova, una mentalità nuova, l’Europa appare ferma e insidiata da un crescente peso del populismo a destra e, viste le elezioni tedesche, anche a sinistra. Sono segnali autentici di difficoltà , di fronte ai quali, a mio giudizio, sarebbe sbagliato negarne l’evidenza. Occorre reagire al rischio di un continente a bassa crescita, che invecchia e che appare prigioniero delle sue paure.
Sono d’accordo con chi dice che la prima risposta e’ un salto di qualità nel processo di integrazione politica. Non c’è dubbio che la strategia di Lisbona rimane il programma riformista più ambizioso che l’Unione europea abbia prodotto, ma nello stesso tempo resta un libro dei sogni. E’ vero: Maastricht fu sostenuta da vincoli e sanzioni, per Lisbona, invece, buone parole, incoraggiamenti, elogi per le best practices. Sostanzialmente è rimasto un libro dei sogni, perché non fu accompagnato da un apparato istituzionale e politico, da una forte volontà – come ha detto il primo ministro Fillion – in grado di rendere quegli obiettivi obbligatori . un criterio fondamentale per la crescita economica dell’Europa.
Allora, ci vuole coerenza nelle scelte, coraggio nelle decisioni. A cominciare dal fatto che non è più sostenibile la rappresentanza che l’Europa ha negli organismi economici internazionali. E’ necessario che abbia una voce sola nel FMI e nella Banca Mondiale. E a cominciare dal fatto che non possiamo continuare a parlare di programmi europei di investimento e poi, quando si arriva a discutere concretamente della possibilità di bond europei, c’è il veto degli Stati nazionali. E’ giusto: l’Unione ha bisogno di un bilancio in grado di sostenere l’innovazione e la ricerca, ma ci sono solo due modi di ottenerlo: aumentarne l’entità, ma i governi nazionali si sono sempre opposti, oppure cambiare la struttura di quel bilancio, riducendo la spesa assistenziale per l’agricoltura… Se il governo francese vorrà sostenere questa scelta, sarà una novità davvero importante.
Insomma, credo che sia il momento di scelte coraggiose e coerenti. L’Europa non se la caverà con la sua affascinante retorica in un mondo che cambia. Nel corso dei prossimo 15 anni, nessuno dei grandi Paesi europei, salvo, forse, la Germania, avrà ancora titolo per fare parte del gruppo dei sette Paesi più ricchi del mondo. Questo è il mondo, è un cambiamento accelerato che la crisi ha reso ancora più celere. O noi europei ci daremo una mossa oppure resteremo inevitabilmente indietro.
Grazie

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