Discorso
19 settembre 2009

INNOVAZIONE, CRESCITA, CONSUMI: PER UN’ITALIA PIU’ EUROPEA – Forum Giovani Imprenditori Confcommercio - Ca' Corner, Venezia

sessione “La crescita e l’innovazione” – Intervento di Massimo D’Alema


Grazie per avermi dato la possibilità di intervenire a questo convegno. Una nuova occasione, che fa seguito al convegno di Cernobbio dell’anno scorso, per incontrarci e scambiare opinioni sui problemi del nostro Paese. E credo che il tema proposto oggi alla nostra attenzione è effettivamente cruciale. Il mondo vive una crisi molto profonda, che rappresenta effettivamente la fine di un ciclo dello sviluppo e che dobbiamo affrontare con coraggio. Sono d’accordo con i manager che abbiamo ascoltato, in particolare con il dottor Franck Sportolari, quando ha detto che non dobbiamo arretrare, non dobbiamo cedere a tentazioni protezionistiche. Dobbiamo avere coscienza di una crisi che cambierà molte cose, l’ordine del mondo, vedrà emergere nuovi protagonisti . E, senza dubbio, i nuovi protagonisti saranno quelli che punteranno sull’innovazione. Questo vale per le imprese, naturalmente. Ma vale anche, più in generale, per i sistemi Paese.
Vorrei citare un discorso, molto noto in Europa, del presidente Barack Obama, tenuto di fronte alla National Academy of Sciences. Obama ha detto: in un momento difficile come il presente, c’è chi dice che non possiamo permetterci di investire in ricerca e che sostenere la scienza è un lusso, quando bisogna dare priorità a ciò che è assolutamente necessario. Sono di opinione opposta. Oggi la ricerca è più essenziale che mai alla nostra prosperità, sicurezza, salute, ambiente, qualità della vita. Per reagire alla crisi oggi è il momento giusto per investire molto più di quanto si sia mai fatto nella ricerca applicata e nella ricerca di base, anche se in qualche caso i risultati si potranno vedere soltanto tra dieci anni o più. I finanziamenti pubblici sono essenziali proprio dove i privati non osano rischiare. All’alto rischio corrispondono, infatti, alti benefici per la nostra economia e per la nostra società”.
Dunque, una scelta centrale, fondamentale, verso la quale si orientano oggi i responsabili politici dei più grandi Paesi. Puntare sull’innovazione come condizione di un nuovo ciclo della crescita. Il ciclo che è entrato in crisi si è largamente fondato sul basso costo del lavoro, in particolare nelle economie emergenti. Ed ha avuto, anche per questo, una scarsa propensione all’innovazione. Oggi ciò non è più pensabile. Uno sviluppo sostenuto dal basso costo di lavoro è caduto per la caduta dei consumi, una diseguale distribuzione del reddito diventa, alla lunga, una strozzatura per l’economia.
Un nuovo ciclo, quindi, sostenuto da un quadro di regole, perché un mercato senza regole diventa una giungla. Un nuovo ciclo sostenuto da politiche di redistribuzione della ricchezza e persino da un rilancio di politiche di welfare (pensiamo, a questo proposito, all’impegno americano per la riforma sanitaria). E sostenuto da grandi investimenti pubblici e privati nel campo della ricerca e dell’innovazione, in grado anche di aprire nuove frontiere. Ho ascoltato la suggestiva relazione sulle potenzialità della robotica. Si discute e si investe, nel mondo, sulla green economy, sulle tecnologie ambientali, sulle fonti alternative di energia, sulla ricerca biomedica. Una delle prime decisioni dell’amministrazione americana è stata riprendere il finanziamento sulla ricerca delle cellule staminali embrionali. Le nuove frontiere dello sviluppo sono queste.
Tutto ciò è necessario per il mondo ed è particolarmente necessario per un Paese come l’Italia. Contrariamente a quello che si sostiene nel dibattito pubblico, l’Italia è uno dei Paesi più colpiti dalla crisi internazionale. Cito i dati Ocse di questi giorni. Quest’anno la caduta del Pil si attesterà intorno al 5%, contro una media europea del 4% (un punto di Pil è tanto, per un Paese come il nostro). Ci attestiamo saldamente al di sotto delle performance medie europee. Si aggrava la situazione del debito pubblico, anche per effetto della crisi economica, e l’Ocse ci dice, nel suo rapporto di alcuni giorni fa, che le prospettive della disoccupazione del nostro Paese sono molto preoccupanti, che il peggio deve venire: andiamo verso il 10,5 % di disoccupazione, con la prospettiva, di qui al 2010, di perdere un altro milione di posti di lavoro. D’altro canto le vostre analisi dei consumi mi sembra che riflettano le ragioni di seria preoccupazione. E’ evidente che la crescita della disoccupazione e il peso della crisi economica non incoraggiano certamente una ripresa massiccia dei consumi. Pessimisti, ottimisti, menagrami… questa è la realtà. Una classe dirigente che rimuove la realtà è surreale.
Ciò che è più preoccupante, per il nostro Paese, non è soltanto l’impatto della crisi, che naturalmente, essendo una crisi da caduta dei consumi colpisce innanzitutto i grandi Paesi produttori ed esportatori di beni di consumo. Per questo è abbastanza ovvio che l’Italia sia colpita più di altri, come la Germania o il Giappone. Ma – ripeto - non è soltanto questo. Vi è anche la considerazione che ci troviamo di fronte a qualcosa che non attiene esclusivamente alla congiuntura, ma anche alla struttura dell’economia italiana, cioè ad una scarsa propensione alla crescita. Parliamo di tendenze di lungo periodo, l’Italia fatica da molti anni e le prospettive di bassa crescita riguardano anche per gli anni a venire. Nel migliore dei casi, si valuta che nel 2013 il livello dei consumi procapite degli italiani potrà tornare al livello del 2000. E naturalmente proporsi il traguardo di ritornare a come stavamo 13 anni fa non sembrerebbe così ambizioso e stimolante per un grande Paese come l’Italia. Considerando, appunto, che oggi siamo parecchio al di sotto del livello di 13 anni fa…
Questa è la realtà. Muovere da essa e guardarla per quello che è, al di là della retorica e degli infingimenti, richiederebbe una strategia molto coraggiosa e incisiva. Politiche di lungo periodo condivise, in grado di affrontare davvero con radicalità e coraggio i problemi del nostro Paese. La mia sensazione è che manchiamo di una simile strategia e che appare molto incerta e debole la volontà politica. Direi, anzi, che nei diversi campi in cui si decide il futuro dell’economia italiana, stiamo procedendo sostanzialmente nella direzione inversa a ciò che sarebbe necessario fare.
Si potrebbe parlare a lungo delle politiche di redistribuzione della ricchezza, che hanno visto in Italia, in questo anno, un aggravamento delle diseguaglianze sociali. Si potrebbe parlare delle regole, del fatto che lo scudo fiscale, con la rimozione del falso in bilancio, va nella direzione esattamente opposta a quella necessità di trasparenza e di recupero di una dimensione etica della finanza che è ciò che si sta facendo in ogni parte del mondo. Mi soffermerò, invece, esclusivamente sugli indirizzi, sulle politiche pubbliche in materia di ricerca, università , innovazione.
I tagli imposti all’università e alla ricerca hanno assunto proporzioni estremamente rilevanti e sono una delle scelte caratterizzanti delle politiche pubbliche di questo ultimo anno. La legge 133 ha previsto la riduzione del fondo di finanziamento ordinario delle università di un miliardo 440 milioni nel quinquennio 2009 / 2013. Taglio che incide su una situazione già pesantemente svantaggiata.
Secondo i dati Eurostat, infatti, l’Italia, prima dei tagli, spendeva lo 0,7 % del Pil per la formazione universitaria, contro una media dell’1,37% degli Usa. Secondo l’Ocse, in Italia l’università assorbe l’1,6% della spesa pubblica, a fronte del 3,5% degli Stati Uniti, del 2,7% della Gran Bretagna, del 3% della media Ocse.
Dunque, questi tagli, solo in parte corretti dal decreto 180, vanno a colpire un settore strategico, nel quale la spesa pubblica italiana è nettamente inferiore a quella dei Paesi concorrenti, con i quali ci misuriamo sul mercato internazionale. Si tratta di risorse che sono state destinate ad altre priorità. Una di queste, che ha assorbito circa 400 milioni, è stata l’operazione Alitalia, che, forse, poteva essere lasciata la mercato.
Altro capitolo, non meno preoccupante, riguarda le misure volte a sostenere la ricerca nelle imprese, nei settori privati. Come è noto, con la Finanziaria del 2007 era stato istituito il credito di imposta alla ricerca per le imprese. Il credito di imposta fu una misura presa, per la prima volta dieci anni fa, per il Mezzogiorno dal governo che ebbi l’onore di presiedere. Lo ritengo uno dei meccanismi più efficaci di incentivo alle imprese che sia mai stato sperimentato nel nostro Paese. Ha notevoli vantaggi: quello di abolire l’intermediazione della pubblica amministrazione e della politica, perchè non ci sono domande da avanzare; quello di prevenire le truffe, perché non si finanziano progetti, ma atti. Hai investito, hai assunto e sei in grado di documentarlo? Ti consento di detrarre dalle tasse una quota. Una misura efficace. Il credito di imposta è stato abolito dall’attuale governo e si è passati da un intervento di carattere automatico ad uno strumento spot, con un plafonamento delle risorse, sulla base di un meccanismo di domanda delle imprese. Il 6 maggio dell’anno scorso c’è stato il “clik day”. Tutte le imprese richiedenti hanno sottomesso la loro domanda di prenotazione dei fondi e le somme a disposizione si sono esaurite, ci racconta il Sole 24 Ore, in 30 secondi. A rimanere insoddisfatto è stato il 76 % delle imprese che hanno partecipato a questa specie di lotteria.
Desta anche seria preoccupazione il saccheggio dei fondi Fas, che sono stati distolti verso altre finalità, ritenute più urgenti. In particolare, con una decisione del marzo di quest’anno, i Fas sono stati sottratti al Ministero dello Sviluppo economico e sono confluiti in un fondo per l’economia reale costituito presso la Presidenza del Consiglio. Il risultato è stata la sospensione di alcuni programmi strategici, come, ad esempio, quello che prevedeva lo stanziamento di due miliardi per il recupero dei siti industriali inquinati. E sappiamo che il recupero dei siti industriali, ai fini della creazione di nuove opportunità per il terziario, molto spesso è una delle operazioni strategiche per il nostro Paese, in particolare nel Mezzogiorno, dove esistono alcune delle maggiori aree inquinate. E’ stato sospeso anche il finanziamento per nuovi contratti e sviluppo per il Mezzogiorno. Sospeso il programma, finanziato per 800 milioni, per la creazione della rete a banda larga. Sospesi, in parte, gli incentivi per le fonti rinnovabili e il risparmio energetico, previsti per 700 milioni di euro.
Rispetto a queste scelte, che ho in parte elencato e che vanno nella direzione opposta a quella che sarebbe necessaria, recentemente, all’inizio di questo mese di settembre, il governo ha presentato un piano della ricerca, che è stato definito dal presidente dell’Agenzia per la diffusione dell’innovazione, professor Renato Ugo, abbastanza confuso, generico e impreciso. Tuttavia, anche se non sono chiaramente indicati gli impegni di carattere finanziario, ritengo che esso contenga alcune novità interessanti, come, ad esempio, il sostegno ai giovani ricercatori. Spero che se ne possa discutere in Parlamento, anche per capire meglio cosa dovrebbe essere.
Siamo di fronte ad una sfida di lungo periodo. Penso che il sistema universitario e della ricerca italiana non sia esente da responsabilità e, certamente, non basti soltanto rivendicare l’uso di risorse. Occorrono riforme, introducendo criteri rigorosamente meritocratici anche con agenzie di valutazione internazionali, incoraggiando il rapporto tra università, ricerca e imprese. Qualche segnale positivo c’è. C’è uno studio interessante sugli spin off, sulla nascita di 700 imprese innovative come risultato del lavoro di ricerca delle università italiane. Siamo forse in grado di indicare già una classifica delle università italiane, da questo punto di vista. E, da tempo, sono favorevole a ripartire le risorse pubbliche premiando le università che fanno meglio, non quelle più numerose.
Ci sono riforme da fare, ma certamente il modo peggiore di fare le riforme, in un momento come questo, è disinvestire sul futuro del Paese. Tornerebbe ad essere fondamentale la necessità di un impegno condiviso per cambiamenti di fondo del nostro Paese. Ogni qualvolta si affronta uno dei grandi problemi nazionali, si ha la percezione che, senza il coraggio di cambiamenti profondi, senza mettere le mani nella struttura complessiva della macchina pubblica, senza modificare i meccanismi decisionali, sarà molto difficile per l’Italia riprendere il posto che potrebbe avere.
Da questo punto di vista, vorrei concludere citando un dato positivo, nonostante le esigue risorse impiegate nella ricerca. Infatti, malgrado i ricercatori italiani siano pochi e mal pagati, tuttavia, nel quadro delle pubblicazioni internazionalmente riconosciute, essi hanno conquistato un buon livello, occupando un posto enormemente maggiore rispetto al bassissimo impegno pubblico e al modesto impegno privato investito nella ricerca. Il che significa che disponiamo non soltanto di capacità imprenditoriali, ma anche di risorse intellettuali, che sono una qualità del nostro Paese. Dunque, le potenzialità ci sono. Quello che non c’è è un quadro di priorità, di politiche pubbliche, un impegno riformatore in grado di offrire a queste potenzialità certezze e speranza per il futuro. Questo, credo, la società civile debba chiedere alla politica con maggiore fermezza, in un momento così delicato per il nostro Paese.
Grazie

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