Discorso
23 marzo 2009

UNA NUOVA AGENDA EURO-ATLANTICA, conferenza alla Johns Hopkins University

Bologna


Ringrazio il professor Zamagni per la sua presentazione, ringrazio gli studenti e le autorita’ accademiche del Bologna Center e della Johns Hopkins University per l’opportuinita’ che mi e’ data di discutere con voi delle relazioni transatlantiche, di come stanno mutando o possono mutare alla luce di due grandi avvenimenti: la elezione del presidente americano Barack Obama e la crisi internazionale cosi’ drammatica che stiamo vivendo.
Il Transatlantic Trends del 2008, che e’ forse l’osservatorio piu’ interessante sull’opinione pubblica americana ed europea, in una serie di sondaggi effettuati nel corso della campagna elettorale americana, indicava che il 69 per cento degli europei era nettamente in favore dell’elezioni di Barak Obama presidente degli Stati uniti, contro il 26 per cento degli europei in favore di John McCain. Una maggioranza schiacciante degli europei, dunque, vedeva in Barack Obama il simbolo ed il portatore di un grande cambiamento. Un dato ancora piu’ interessante, in quanto l’opinione pubblica europea e’ tutt’altro che prevalentemente orientata in senso liberal, per usare un’espressione americana o per usare un’espressione a noi, sinistra, piu’ vicina. D’altro canto, direi specularmente, il 56 per cento degli americani votanti Obama sosteneva la necessita’ di una piu’ stretta relazione con l’Unione europea, contro poco piu’ del 40 per cento degli americani votanti McCain.
La premessa del nostro esame di oggi, quindi, e’ nel fatto che l’elezione di Obama e’ venuta sull’onda di una opinione pubblica americana favorevole ad una piu’ stretta collaborazione con l’Europa e che gli europei hanno atteso Obama come un presidente americano finalmente disposto al multilateralismo e alla collaborazione con il Vecchio Continente. Le premesse sono quelle di una grande amicizia e le aspettative sono state quelle di un miglioramento nelle relazioni sia nell’Unione Europea che negli Stati Uniti.
D’altro canto, l’elezione del senatore Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti e’ avvenuta sull’onda di una critica delle scelte unilaterali dell’amministrazione Bush, di una forte riscoperta del valore delle alleanze e del multilateralismo, temi molto forti della campagna democratica. Ed anche sull’onda della denuncia del diffondersi di un sentimento anti americano come risultato degli errori dell’amministrazione conservatrice, del primato del ‘’soft power’’ o - come poi si e’ detto con una epressione piu’ ambigua - dello ‘’smart power’’, che comunque e’ sempre un grande passo in avanti rispetto ad alcuni atti compiuti dall’amministrazione Bush , all’uso della forza e quindi all’uso spregiudicato e massiccio dell’hard power americano.
Dall’altra parte, in Europa, come ha detto il primo ministro britannico Gordon Brown parlando di fronte al Senato degli Stati Uniti, mai, forse, vi e’ stata una leadership europea cosi’ amica degli Stati Uniti d’America, cosi’ propensa ad un rapporto positivo con loro. Probabilmente, il leader britannico aveva in mente la Francia, Paese europeo da sempre piuttosto prudente rispetto all’amicizia con gli Stati Uniti. Non c’e’ dubbio che, con la presidenza Sarkozy, noi abbiamo assistito ad una decisa svolta pro Stati Uniti della leadership francese. Ho partecipato, a New York, nel settembre scorso, ad una serata in onore del presidente della Repubblica francese, nella quale vi era una presenza molto significativa dell’establishment newyorkese, di personalita’ dell’amministrazione , di congressman. Il discorso in onore di Sarkozy tenuto da Henry Kissinger faceva abbastanza impressione. .. La frase piu’ significativa fu: ‘’possiamo tornare a dire ‘french frises’’’, dopo che, nel momento piu’ acuto del contrasto sull’Iraq, gli americani avevano deciso di chiamare le patate fritte ‘’liberty frises’’, per non confonderle con le altre, che , in quel momento, rappresentavano la Francia, cosi’ lontana dagli ideali della liberta’.
Al di la’ di questi aspetti di clima, pure significativi, appare tuttavia piu’ sostanziosa la decisione della Francia di tornare a far parte del dispositivo militare della Nato. Una decisione storica e certamente orientata ad una piu’ stretta collaborazione, anche sul piano militare, con gli Stati Uniti d’America.
Dunque, le premesse per le relazioni transatlantiche sono interessanti. E lo sono state anche durante la campagna elettorale e con l’insediamento di Barack Obama. Tra l’altro, credo che Obama sia stato il primo candidato presidente ad aver fatto una tournée elettorale in Europa, Berlino, Parigi, Londra… Un problema che, come italiani, ci dovrebbe preoccupare, ma corrisponde ad una piu’ vasta percezione di cosa sia l’Italia oggi,argomento che comunque non e’ oggetto della nostra conversazione.
Sono trascorsi alcuni mesi da questi eventi che ho rapidamente raffigurato. L’amminsitrazione Obama ha cominciato ad affrontare le sue sfide (la prova e’ sempre piu’ ardua, ovviamente, delle premesse elettorali) e siamo alla vigilia di momenti molto importanti, come il primo vertice Usa-Unione Europea dell’era Obama , che si terra’ all’inizio di aprile, preceduto da una importantissima riunione del G20, che impegnera’ il presidente degli Stati Uniti a Londra, l’1 e il 2 dello stesso mese. E’ molto presto per fare un bilancio, ma certamente queste prime settimane sono importanti per capire, al di la’ delle promesse reciproche e delle premesse positive di collaborazione, come le cose si stanno mettendo in atto, come si sta sviluppando la relazione euro-americana alla prova delle grandi sfide che abbiamo di fronte, della definizione delle priorita’ concrete nell’azione internazionale e, in particolare, della grande crisi che stiamo vivendo.
Consentitemi, qui, di fare una rapida premessa, perche’ credo che, proprio di fronte alla crisi, cominciano a manifestarsi le prime differenze tra la risposta americana e la risposta europea. Ma forse, prima ancora di differenze nella risposta, si evidenzia una diversita’ di giudizio nel merito. Gli Stati Uniti sono stati sicuramente l’epicentro dei fenomeni che ci hanno portato alla crisi internazionale. La finanziarizzazione dell’economia, le tendenze ad un mercato finanziario speculativo privo di regole e di controlli sono state certamente assai piu’ forti negli Stati Uniti che non nella vecchia Europa, assai piu’ cauta nel favorire questi processi. Ma gli Stati Uniti sono anche il Paese che sta reagendo in modo piu’ dinamico alla crisi. Sono, forse, il Paese che ne ha percepito, fin dall’inizio, la profondita’.
Ancora una volta l’esame dei Transatlantic Trends e’ molto interessante per vedere il diverso atteggiamento dell’elettorato di McCain e quello di Obama: per il primo, la principale sfida e’ la lotta al terrorismo, per il secondo e’ la crisi economica in arrivo. Davvero queste due issues hanno pesato moltissimo nel formare l’opinione e alla fine ha prevalso la necessita’ di un cambiamento nell’economia. Dunque, la crisi - io la penso un po’ piu’ come Obama e un po’ meno come la maggioranza delle leadership europee – non e’ un incidente di percorso, non e’ una parentesi lungo il cammino delle “magnifiche sorti e progressive”, come avrebbe detto un grande poeta italiano, della globalizzazione. La crisi non e’ soltanto il risultato della bramosia di alcuni banchieri . In realta’, essa segna le fine di un ciclo e fa emergere contraddizioni di fondo rispetto al modo in cui e’ venuta dispiegandosi la globalizzazione economica.
Per questo, la crisi richiede una risposta forte, incisiva, non solo nelle dimensioni della manovra, ma anche nel carattere innovativo delle misure. A mio giudizio, molta dell’innovazione necessaria si trova nella risposta americana, di cui colpisce la dimensione, ma soprattutto la carica di innovazione sociale. Mi ha colpito che, in un Paese come gli Stati Uniti d’America, dove a lungo, cioe’ a partire da Reagan, si e’ teorizzato l’appiattimento della curva delle aliquote (la ‘’flat tax”), si tornano a colpire i grandi patrimoni per sostenere la parte piu’ povera della popolazione, ci si pone il problema di estendere forme di protezione anche pubblica nel campo della salute, si colpiscono i privilegi di quei manager il cui strapotere e’ stata una delle ragioni che ha portato alla crisi. Intendo il vuoto di democrazia, non soltanto un eccesso di deregulation, il formarsi di una casta, di una oligarchia finanziaria e internazionale sottratta ad ogni controllo democratico.
La risposta americana, dunque, ha una forte carica di redistribuzione della ricchezza, che, oltre ad essere un problema di giustizia sociale, e’ anche un problema economico, perche’ il concentrarsi della ricchezza nella parte piu’ ricca della popolazione ha fatto sì che la crescita della ricchezza si sia accompagnata anche ad una crescita della poverta’ e delle diseguaglianze sociali. Vi e’ un impressionante studio dell’Ocse a fine 2008, ‘’Growing Unequal’’, dove si descrive la crescita delle diseguaglianze sociali e della poverta’ all’interno Paesi ricchi, che, naturalmente, ha bloccato il meccanismo dei consumi. La capacita’ di consumo di una ristrettissima fascia della popolazione, infatti, e’ comunque assai limitata ed e’ evidente che se la retribuzione di un grande manager passa da 100 mila a tre milioni di euro, mentre il salario operaio resta fermo, cio’ ha un effetto negativo sui consumi, oltre che sulla coesione sociale. A questo proposito, ad esempio, in Italia, negli ultimi 15 anni, i redditi da lavoro sono cresciuti del 6 per cento mentre i redditi da capitale del 44 per cento.
Non a caso Newsweek ha titolato ‘’We are all socialists”, parola quasi non utilizzabile negli Stati Uniti, volendo alludere, in qualche modo, alla carica di innovazione sociale che l’amministrazione Obama ha portato in campo. Cosi’ come colpisce un mutamento radicale di atteggiamento americano intorno ai grandi temi dell’ambiente e del cambiamento climatico. Una parte importante del pacchetto americano e’ proprio dedicato a sostenere l’innovazione, le nuove tecnologie ambientali, le fonti di energia alternative, oltre che – decisione molto coraggiosa per un presidente cattolico – la ripresa del sostegno pubblico alla ricerca sulle staminali embrionali.
Insomma, si direbbe, in termini europei, una radicale e coraggiosa svolta a sinistra. La vecchia Europa, viceversa, appare molto piu’ incerta. L’ultimo Consiglio europeo ha risposto negativamente alla pressione americana per un nuovo ”Recovery plan” europeo. La risposta ufficiale e’ che non ci sono soldi. L’Europa appare abbastanza divisa, si affida molto alla risposta dei singoli governi, allentando i vincoli europei in materia di aiuti di Stato. Un’operazione rischiosa, questa, perche’ potrebbe persino determinare una crisi del mercato interno, aggravando le diseguaglianze all’interno dell’Europa . La drammatica crisi all’Est e in Europa centrale trova una risposta molto debole, in termini di solidarieta’ comunitaria, e nelle classi dirigenti conservatrici europee, che sono largamente preponderanti (19 governi su 27), prevale l’idea che in qualche modo dalla crisi si uscira’. Ed il campione della politica “qualcosa succedera’” e’ il governo itraliano, che reagisce ad una crisi da deregulation introducendo ulteriori elementi di deregulation in altri settori , come nel campo delle costruzioni.
L’impressione e’ che si apra una certa divaricazione tra la sfida americana ed un certo spirito conservatore predominante in Europa. Certo, quella americana e’ una sfida molto impegnativa e rischiosa. La crisi e’ davvero il banco di prova di questa amministrazione, dal punto di vista del consenso e della capacita’ di dare una risposta positiva alle attese e sperante che l’elezione di Obama ha suscitato. Questa e’ la vera, grande priorita’, che spinge anche verso un nuovo orizzonte delle relazioni internazionali e della politica estera. Non e’ un caso che il primo viaggio del segretario di Stato Hilary Clinton sia stato in Asia e in Cina. In fondo, con tutto il rispetto per la vecchia Europa, se il problema e’ uscire dalla crisi economica , i principali partner stanno li’. E’ sistema Cina / India. Sono loro ad essere inevitabilmente i principali partner degli Stati Uniti per uscire dalla crisi economica, non foss’altro perche’ la Cina e’ detentrice di una buona fetta del debito pubblico americano. Ed e’ necessario convincere i cinesi a comprare un po’ di titoli del debito pubblico Usa, che e’ destinato ad accrescersi anche per il peso delle manovre necessarie ad affrontare la crisi economica.
Vi e’, qui, una nuova priorita’? Forse no, ma vi e’ l’indicazione che la politica americana si orientera’ verso un multilateralismo che non necessariamente ruotera’ attorno all’asse transatlantico e che portera’ gli Stati Uniti dell’amministrazione Obama a muoversi a tutto campo per rilanciare un sistema di relazioni cooperative, amichevoli, con diverse regioni del mondo. In questo senso, e’ interessante il nuovo approccio con l’America Latina e, in particolare, la scelta dell’interlocutore piu’ importante, il presidente brasiliano Lula. Scelta intelligente, quasi obbligata: il Brasile e’ un continente e ha scoperto giacimenti petroliferi che ne fanno un Paese con riserve paragonabili a quelle dell’Arabia Saudita. Il che cambia la geopolitica del mondo. Vi e’ attenzione verso l’Africa, che e’ anche legata alla personalita’ del nuovo presidente americano , il quale si presenta sulla scena come il primo leader globale.
Mentre Bush e’ stato il capo dell’Occidente e, a mio parere, non e’ stato un buon capo dell’Occidente, Obama si presenta come un leader globale persino per ragioni biografiche, antropologiche: immigrato africano di seconda generazione, con una parte della sua famiglia che continua a vivere in Africa. E’ stato abbastanza curioso vedere l’Africa in festa per l’elezione del presidente degli Stati Uniti d’America: il continente piu’ povero che festeggia l’elezione del leader del piu’ ricco Paese del mondo. La sua famiglia ha parentele asiatiche: sua madre ha sposato un indonesiano in seconde nozze, lui stesso e’ cresciuto in Indonesia. E’ interessante questa figura di leader che appare figlio della globalizzazione e la cui vita personale incrocia piu’ continenti. Mi sembra un segnale importante di modernita’ della societa’ americana. Questo, naturalmente, porta in se’ anche un’ambizione egemonica. Non c’e’ dubbio, infatti, che la presidenza Obama ha un forte segno di rilancio dell’egemonia americana nel mondo, attraverso il dialogo, il multilateralismo, il rilancio delle alleanze, dopo che la politica neoconservatrice l’aveva di fatto appannata, rafforzando l’antiamericanismo.
La crisi, inoltre, impone un profondo rinnovamento degli strumenti della governance mondiale, perche’ e’ chiaro che questo mondo non e’ piu’ governabile attraverso il G8. I Paesi che dettero vita al G7 rappresentavano, allora, quasi l’80 per cento della ricchezza del mondo. Oggi ne rappresentano meno della meta’. Appare impensabile affrontare qualcuna delle sfide globali senza avere al tavolo Paesi come la Cina, l’India, il Brasile, il Sud Africa. Perde d’importanza il club dei Paesi ricchi e diventa necessario coinvolgere altri protagonisti. Non e’ un caso che il G20 sia diventato, nella crisi, piu’ importante del G8: e’ piu’ inclusivo e rappresentativo della realta’ del mondo attuale. Il rapporto euroamericano, di fronte a questi cambiamenti cosi’ sconvolgenti, e’ meno scontato rispetto al passato. E’ piu’ problematico, ma e’ anche piu’ interessante e pieno di implicazioni, se, naturalmente, l’Europa sapra’ stare al passo dei grandi mutamenti.
Al primo punto della nuova agenda transatlantica c’e’ - appunto – la sfida della crisi e della costruzione di una nuova governance mondiale, che non implica soltanto l’impegno per il rilancio dell’economia. Sarebbe un grave errore pensare che la crisi di una globalizzazione senza politica possa essere risolta attraverso il ritorno al primato degli Stati nazionali. Anche se la globalizzazione e’ in crisi, l’economia resta globale. Di conseguenza, la risposta richiede una architettura istituzionale internazionale, anche per evitare il rischio di una reazione nazionalistica e neoprotezionista. Sono lieto che torni il primato della politica, dopo un quindicennio in cui si e’ teorizzato che non ce n’era bisogno e che bastava lasciar fare all’economia. Ma la politica puo’ tornare in modi molto diversi. Di fronte alla grande crisi degli anni Venti e Trenta, negli Stati Uniti la politica si distinse nella forma del New Deal, mentre in Europa si affermo’ nella forma del fascismo e del nazismo. Dunque, anche il nazionalismo, il protezionismo, l’idea che, in fondo, ci si possa difendere dalla globalizzazione attraverso gli Stati nazionali rappresenterebbe il ritorno della politica, ma sarebbe una politica regressiva.
Sono convinto, viceversa, che la sfida e’ quella di affrontare i problemi della governance in modo inclusivo e innovativo, riformando le istituzioni internazionali e mettendole al servizio di quel “legal standard” di cui ha parlato anche il ministro Tremonti. Tra i nostri governanti, e’ tra i piu’ attrezzati ad affrontare questa situazione, perche’ da giovane era socialista ed ha cosi’ riscoperto il suo linguaggio giovanile, che gli e’ utile per affrontare una crisi in cui tornano, come dicevo, idee che sembravano tramontate. Come, ad esempio, le nazionalizzazioni, quasi una bestemmia da vent’anni a questa parte, ed altre misure che sembravano demode’ e che rientrano in scena.
Penso che sia su quest’agenda che Europa e America debbano trovare un’intesa: rilancio dell’economia; architettura di una nuova governance globale che sia inclusiva e che prevenga il rischio di una chiusura nazionalistica e protezionistica; comune sfida contro il cambiamento climatico in una situazione in cui la nuova amministrazione americana ci consente di lavorare insieme ad un accordo post Kyoto, una volta archiviata la politica dell’amministrazione Bush che ha frenato tutte le iniziative in materia ambientale. In questo quadro, vorrei mettere l’accento sui Paesi piu’ poveri. L’attenzione che siamo costretti a porre su noi stessi e la necessita’ di ricorrere a massicce risorse pubbliche per sostenere economie e banche dei Paesi piu’ ricchi, rischia di cancellare dall’agenda e dagli impegni finanziari i Paesi piu’ poveri, con il pericolo di aggravare le disuguagliante e di creare nuove contraddizioni e nuovi potenziali conflitti.
Se l’Europa non rinnega se stessa, credo che oggi, in questo confronto con gli Stati Uniti, vi siano possibilita’ molto serie di trovare intese (penso, in particolare, al “Climate Change”), che qualche mese fa erano impensabili. Tutto cio’ – ripeto - se l’Europa non rinnega se stessa, se sara’ all’altezza della sfida che dobbiamo affrontare. In questo momento, infatti, si avverte in modo abbastanza pesante il ritardo nel processo di integrazione politica. Quanto bisogno, invece, avremmo avuto, proprio di fronte a questa crisi, di un Trattato europeo in funzione e quindi di un salto di qualita’ nelle integrazioni delle politiche economiche. E’ questo, infatti, il problema, altro che il ritorno agli Stati nazionali. La debolezza della moneta europea e del mercato unico derivano dal fatto che queste grandi conquiste non reggono se non c’e’ un coordinamento delle politiche di bilancio e delle politiche economiche. Insomma, quella maggiore intergrazione dell’Europa in campo economico che non siamo riusciti a realizzare anche per le difficolta’ del rinnovamento istituzionale dell’Unione.
Questo vale anche sul terreno della politica estera e di sicurezza. Pure qui vi sono le condizioni per un rapporto nuovo con gli Stati Uniti, a condizione, pero’, che l’Europa sia unita e coraggiosamente coerente con i propri valori e la propria visione del mondo. Nel momento in cui crolla la politica neoconservatrice negli Stati Uniti, non ci mettiamo noi a fare i neo conservatori, come qualche leader europeo sembra voler fare… Questa e’ la vera asimmetria: mentre negli Stati Uniti la crisi ha coinciso con la crisi di un ciclo politico e dunque con un cambio politico, in realta’ l’Europa vive ancora, in gran parte, con lo strascico del ciclo politico americano, essendo l’Europa un continente piuttosto vecchio, lento nelle trasformazioni e quasi sempre ritardatario rispetto ai cambiamenti che caratterizzano gli Stati Uniti.
I test cruciali di una nuova cooperazione sono quelli su cui gli americani misurano, tra l’altro, una nuova strategia nella lotta al terrorismo, che non significa la rinuncia all’uso della forza, ma un mix diverso fra diplomazia, messaggio culturale, dialogo ed uso della forza. Un mix diverso che l’amministrazione Obama sta gia’ sperimentando. Per questa amministrazione, il test piu’ rilevante sara’ l’Afghanistan. L’annuncio del ritiro americano dall’Iraq e di un maggior impegno in Afghanistan corrisponde, forse, alla principale promessa di politica estera fatta da Obama durante la campagna elettorale. Quando parlo di Afghanistan, intendo pure il Pakistan, dato che la crisi, in quella parte dell’Asia, coinvolge questi due Paesi. E quando si dice Pakistan ci si riferisce anche al rischio terrorismo in India, come abbiamo visto nei recenti avvenimenti di Mombay. Ancora l’Asia, dunque, si presenta come la priorita’ strategica. E non e’ un caso che la nuova amministrazione abbia voluto impegnare, proprio in quella parte del mondo, uno degli uomini piu’ esperti e piu’ capaci, Richard Holbrooke, che fu l’uomo di Clinton per i Balcani, cioe’ la maggiore crisi internazionale nell’epoca Clinton.
Sull’Afghanistan noi abbiamo molto da dire. Lo posso sottolineare con qualche motivo di soddisfazione personale, perche’ ho sostenuto per lungo tempo che accanto all’impegno militare occorreva un maggiore impegno politico, che bisognava cercare di aprire un dialogo almeno con una parte della insorgenza, che era necessario isolare Al Quaeda dialogando con quella parte della societa’ afghana che combatte contro Karzai. Allora queste tesi erano pressoche’ un tabu’ e si veniva linciati, soprattutto in Italia. Adesso le sostiene in parte il presidente degli Stati Uniti il che e’ una notevole consolazione e comunque significa che i giornali italiani ne diranno bene, perche’ li’ il conformismo e’ totale.
E’ vero, come sostiene l’amministrazione americana, che in Afghanistan ci vogliono piu’ soldati, ma ci vuole soprattutto una nuova strategia che punti, piu’ che alla violenza, all’uso della forza, a tattiche militari che hanno comportato un altissimo costo di vite umane tra i civili, un maggiore controllo del territorio, un maggiore rapporto con le popolazioni, un maggiore rapporto con le forze locali, non solo con Karzai. Certo, ci vuole anche la presenza militare per la sicurezza, ma, accanto a questo, serve molto di piu’: lavoro politico, formazione del personale, rapporto con le popolazioni, aiuto economico. Tutto quello che, in questi anni, e’ stato trascurato nel nome di una visione militarista della azione in Afghanistan. Occorre superare una evidente contraddizione che c’e’ tra le due missioni che si svolgono in quel Paese: la missione Isaf, che ha compiti di stabilizzazione e sicurezza, e la missione Enduring Freedom, che ha il compito di colpire e uccidere i terroristi, con operazioni che a volte sono indiscriminate. E’ assurdo che si sovrappongano due missioni militari, due comandi, due logiche di missione, creando spesso situazioni non gestibili. Insomma, siamo in Afghanistan con l’obiettivo di vincere un conflitto che non e’ esclusivamente militare. Lo si vince se si conquista il consenso della popolazione afghana. E anche la condotta militare deve privilegiare questo fondamentale obiettivo.
Ci sono le condizioni per un cambio di strategia? Credo che, nei cenni fatti dall’amministrazione americana, vi siano certamente le premesse. Spero che, dall’altra parte, vi sia un’Europa che aiuti in questa direzione e non dimentichi le posizioni assunte in un periodo molto piu’ difficile, quando cioe’ l’ interlocutore americano era meno disponibile ad ascoltare i suoi argomenti.
Secondo grande banco di prova e’ la questione iraniana, che va vista, a mio giudizio, nella concatenazione delle crisi che investono il grande Medio Oriente. E’ molto importante ed ha un grande valore simbolico il messaggio che Obama ha rivolto al popolo ed ai leader dell’Iran. Un messaggio moderno ed innovativo anche nella forma, con un appello televisivo che salta ogni mediazione, indirizzato a quello che e’ stato descritto come il nuovo, grande Satana. Di tanto in tanto gli americani hanno la passione di individuare qualche Satana e non sempre le cose finiscono bene, basti pensare all’Iraq. Per questo, il coraggio di rivolgersi al nemico e sollecitare un nuovo inizio, ha rappresentato un messaggio molto forte.
Dall’altra parte ci sono interlocutori non facili e certamente, senza una svolta politica in Iran, non e’ facile pensare che questo dialogo abbia successo. C’E’ da sperare che il nuovo atteggiamento americano dia forza alle componenti riformiste, che pure vi sono, e possa indebolire le posizioni piu’ oltranziste e fondamentaliste. E se si vuole avere qualche speranza di successo, in questo dialogo, per indurre l’Iran a rinunciare alla corsa verso l’arma nucleare, credo che sia necessario un approccio comprensivo: considerare che la questione iraniana non e’ staccata dal tema mediorientale e da quello che, a mio giudizio, rimane la chiave di tutti i conflitti in quell’area, mi riferisco al conflitto israelo-palestinese. Questo anche perche’ l’Iran continua ad agitare la bandiera palestinese come un simbolo. Attraverso l’uso della causa palestinese, l’Iran ha conquistato un grande consenso in tutto il mondo arabo, ben al di la’ del mondo persiano e sciita. E invito a non confondere l’orientamento dei governi arabi con l’opinione pubblica araba, che sono due realta’ molto distanti e che tendono sempre piu’ a divergere. Per i governi arabi, Nasrallah, il capo di Hezbollah, e’ un pazzo, ma, dai sondaggi, risulta essere il leader piu’ popolare di tutto il mondo arabo.
Solo compiendo una scelta coraggiosa si puo’ rimontare la differenza tra i governi e l’opinione pubblica. Significa fermezza nella lotta contro il terrorismo, fermezza nell’azione per evitare che l’Iran abbia armi nucleari, ma anche capacita’ di collegare tutto cio’ ad un impegno reale per la pace. Il che vuol dire anche incoraggiare Israele a muoversi verso la pace.
Siamo, certo, in un momento estremamente delicato. La mia convinzione e’ sempre stata quella che per andare verso la pace sia necessario un governo di unita’ nazionale palestinese e un governo di unita’ nazionale israeliano. E’ molto complicato fare una pace cosi’ difficile se gli interlocutori, al loro interno, sono cosi’ profondamente divisi. Certo, quando penso che Lieberman potrebbe diventare ministro degli Esteri di Israele, temo che la pace potrebbe non essere in buone mani e che questa prospettiva potrebbe allontanarsi. Allora tutto diverrebbe piu’ difficile.
E’ un tema, questo, che americani ed europei debbono affrontare insieme. Anche perche’ se l’Europa ha pochissima influenza sulle scelte israeliane, possono averne gli Stati Uniti. L’Europa, viceversa, ha un maggiore rapporto con il mondo arabo. Se si unissero le due forze, si potrebbe avere influenza sull’una e sull’altra parte per spingerle veramente sulla strada della pace.
L’altra grande priorita’, infine, e’ il rapporto con la Russia, che non e’ piu’ l’Unione Sovietica, ma che rimane la piu’ grande potenza nucleare dopo gli Stati Uniti. Questo gigantesco Paese euro-asiatico e’ un Paese chiave nel campo delle politiche energetiche ed ha un ruolo strategico insostituibile. A mio parere, anche per la Russia e’ necessario che vi sia un’azione condivisa euro-americana. Occorre impegnare la Russia come “responsible stake holder”, come direbbero gli americani, cioe’ come un partner responsabile. E considerare che con la Russia non sia saggia una politica di isolamento o di escalation, perche’ finirebbe per incoraggiare, all’interno di quel Paese, spinte nazionalistiche e neoautoritarie.
Impegnare la Russia significa, naturalmente, anche costruire con essa un rapporto dignitoso e paritario. Non e’ dignitoso, per esempio, che ciascun Paese europeo, in ordine sparso, contratti le proprie garanzie per gas o petrolio, perche’ cio’ accresce eccessivamente il potere della Russia. E’ dignitoso, invece, che l’Europa negozi tutta insieme, facendosi forte del fatto che non solo noi dipendiamo da loro, ma anche loro dipendono da noi. Senza il mercato e le tecnologie europee, infatti, il gas e il petrolio russo conterebbero molto di meno.
La parola chiave, nel rapporto con la Russia, e’ interdipendenza. Interdipendenza nel campo dell’energia, ma anche nel campo del disarmo. La stessa battaglia contro la proliferazione nucleare (penso in particolare al caso iraniano), diventerebbe molto piu’ convincente se le due grandi potenze riprendessero la strada del disarmo nucleare o, quantomeno, della riduzione degli arsenali. Sono cofirmatario, insieme a Henry Kissinger tra gli altri, di un appello alle grandi potenze per arrivare al disarmo nucleare totale. D’altra parte, mentre si chiede all’Iran di non fabbricare le bombe atomiche, se se ne eliminasse qualcuna delle migliaia e migliaia stoccate da americani e russi, si sarebbe piu’ credibili.
Interdipendenza, dunque, nel campo economico e della sicurezza. Da questo punto di vista, e’ evidente che l’approccio dell’amministrazione Bush al problema della difesa missilistica in Europa e’ stato sbagliato. Non soltanto e’ apparso alla Russia un atteggiamento ostile, ma ha persino aggirato la Nato attraverso accordi bilaterali con alcuni Paesi, la Repubblica ceca e la Polonia, creando una situazione imbarazzante anche per i principali alleati europei degli Stati Uniti. La nuova amministrazione sembra voler cambiare.
Dove, invece, noi dobbiamo essere piu’ incalzanti verso la Russia e’ sui temi delle liberta’ e dei diritti umani. Questo e’ stato il punto debole dell’amministrazione Bush, anche perche’ l’Occidente non aveva le carte in regola. Quando, durante il vertice dei ministri degli Esteri del G8 presieduto dalla Russia a Mosca, qualcuno, tra cui il sottoscritto, cerco’ di discutere della Cecenia e della violazione massiccia dei diritti umani , il ministro degli Esteri russo rispose con una certa durezza che, allora, si doveva parlare anche di Guantanamo. Il sottosegretario di Stato Rice, che pure e’ una signora molto energica, si trovo’ in una qualche difficolta’.
Penso che questo sia il punto su cui Europa e Stati Uniti si possano ritrovare insieme. E’ uno di quei grandi valori che ci sono comuni e che rappresentano una parte essenziale della nostra missione internazionale. Dobbiamo tornare ad essere noi, mondo occidentale, gli alfieri dei diritti umani, innanzitutto mettendo in regola noi stessi. E’ difficile, infatti, predicare i valori agli altri quando non si rispettano in casa propria o nelle missioni. E poi e’ necessario rilanciare una forte iniziativa internazionale. Ricordo che, in qualita’ di ministro degli Esteri, nella battaglia per la moratoria della pena di morte, mi sono trovato di fronte, come grande avversario nell’Assemblea dell’ONU, gli Stati Uniti, che in quell’occasione erano insieme alla Cina.
Auspico che i mesi che verranno consentiranno agli europei e agli americani di fare battaglie comuni per il rispetto dei diritti umani e per l’affermazione delle liberta’ umane. Questo puo’ essere davvero il tema piu’ significativo su cui l’America di Obama e l’Europa possono lavorare insieme, se, naturalmente, l’Europa sara’ all’altezza di queste possibilita’. In questo momento, mi chiedo: l’Europa sapra’ essere se stessa, con i suoi valori, con la sua tradizione? Se l’Europa sapra’ essere se stessa, credo che con questa amministrazione si potra’ voltare pagina ed riaprire un periodo creativo e fecondo di collaborazione tra Europa e Stati Uniti.
Grazie.

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