Intervista
10 ottobre 2009

Massimo D'Alema e il futuro di Berlusconi, "dovrebbe dimettersi"

Intervista di Stefano Cappellini - Il Riformista


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«In un paese normale si sarebbe già dimesso, lo avrebbe costretto il suo partito», dice Massimo D'Alema di Silvio Berlusconi. E se il Pd non ne chiede le dimissioni, spiega D'Alema, è perché «non è l'opposizione che può cambiare il capo del governo, e in un momento così delicato la priorità è limitare il danno alle istituzioni». L'ex premier consegna al Riformista la sua preoccupazione per la stagione che si apre dopo la sentenza della Consulta sul lodo Alfano, ma anche il suo ottimismo in vista delle primarie democratiche del 25 ottobre («La credibilità di Bersani è enormemente superiore a quella di Franceschini»), allontanando lo spettro di un ribaltone rispetto al responso dei circoli. «Un ruolo interessante», dice poi D'Alema della nuova figura di “ministro degli Esteri Ue”, incarico che secondo molti osservatori sarebbe in cima alle sue ambizioni future.

Onorevole D’Alema, dopo la sentenza della Consulta il paese è di nuovo precipitato in un clima da guerra civile.

Andiamo alla sostanza del problema. Abbiamo un presidente del Consiglio che ha diversi problemi con la giustizia. Per difendersi, aveva costruito un argine totalmente inappropriato. Siamo però un paese democratico e abbiamo una costituzione che sancisce un principio di eguaglianza tra i cittadini. Questo non significa che non ci possa essere un sistema di garanzie e tutele, ma dal momento in cui le abbiamo abbattute per i parlamentari con la sostanziale abrogazione dell’articolo 68 della Costituzione, diventa molto difficile costruire una tutela ad personam, anche se ingegnosamente estesa alle più alte cariche istituzionali.

Il premier parla di sentenza politica.

Berlusconi non è perseguito per reati politici o perché è un leader politico. Berlusconi era perseguito per reati comuni, semmai la politica gli ha fornito un riparo. Normalmente, in un paese democratico un leader che si trova in questa situazione viene sostituito. Agiscono degli anticorpi naturali. Innanzitutto il suo stesso partito chiede al leader di farsi da parte. Ma in questo caso il partito di Berlusconi, il Pdl, è suo in senso proprietario. Poi c’è la debolezza di tanta parte del sistema di informazione. Sembra che per una parte delle élite del paese e per i grandi giornali che le danno voce sia normale avere un presidente del Consiglio contro il quale vi sono accuse così gravi.

Berlusconi rivendica di essere l’unica carica direttamente investita dal consenso elettorale. Non conta nulla?

Chiariamo prima un punto. Berlusconi non è stato eletto dal popolo. Il nostro è un sistema parlamentare. La maggioranza degli italiani non ha votato per Berlusconi. Inoltre, è la legge elettorale che trasforma una maggioranza relativa in maggioranza assoluta in Parlamento. Infine, l’idea che il principio maggioritario possa schiacciare il principio di legalità è inaccettabile. Vi sono paesi democratici nei quali anche premier che hanno vinto le elezioni hanno dovuto dimettersi per le accuse che rivolgevano loro i magistrati. L'esempio più recente è dell'israeliano Olmert.

Ma se è così convinto che Berlusconi dovrebbe dare le dimissioni, perché lei e il Pd non le chiedete?

Non è l’opposizione che può cambiare il capo del governo. È la maggioranza che dovrebbe farlo.

Si dice che un pezzo di Pdl lavori già da tempo al dopo-Berlusconi.

Sciocchezze. Se il capo dei popolari spagnoli avesse vicende personali del tipo di quelle di Berlusconi e fosse sotto accusa in tribunale il partito gli avrebbe già detto “grazie, ti auguriamo di dimostrare la tua innocenza, ma intanto devi farti da parte”. In Italia non accade per i motivi appena detti. L'opposizione può lamentarsene, ma deve tenere conto delle condizioni concrete della lotta politica nel nostro paese. Siamo in un momento estremamente delicato, si rischia di trascinare il paese in un scontro drammatico e dobbiamo avere il buon senso di non contribuire a sfasciare l’edificio comune. Evitare cioè che Berlusconi, in questa confusa fase di crisi anche personale, possa intaccare seriamente l’impianto istituzionale e produrre un danno ancora più grave di quello attuale.

Le dimissioni del premier le chiede invece Di Pietro, che ancora una volta può accreditarsi agli occhi del vostro elettorato come l’unica vera opposizione.

Gran parte del lavoro di Di Pietro consiste nell’usare gli attacchi a Berlusconi con l'obiettivo di togliere voti a noi. Cosa che non ci fa fare un minimo passo avanti nella costruzione di un’alternativa nel paese.

Sorpreso dell’attacco a Napolitano?

Di Berlusconi non stupisce più nulla. Voleva che Napolitano premesse sulla Corte, perché lui è abituato a ragionare così. “I giudici li hai messi tu lì, rispondono a te”. In questo lui è sincero. È totalmente estraneo alla cultura delle istituzioni, ha una concezione padronale e le regole della democrazia gli sono estranee. Berlusconi è a-democratico. Continuo a pensare che non sa governare.

Gli italiani non la pensano così.

Berlusconi è un fenomeno complesso, che ha un rapporto profondo con una parte del paese, ma ha costruito la finzione di un governo efficiente sulla gestione delle emergenze, con risultati anche positivi. Senza esagerare, perché a Napoli, per esempio, il problema dei rifiuti non è stato affatto risolto. Ha aperto due discariche con l’aiuto dell’esercito, ma non essendo intervenuto sul ciclo dei rifiuti, questi cominciano a tornare nelle strade, con la differenza che ora non ne scrive più nessuno. Berlusconi non affronta i problemi del paese. Non ci fosse Bertolaso, sarebbe tutt'al più un ottimo capo della Protezione civile.

Che scenario si apre ora con un premier costretto a destreggiarsi tra Palazzo Chigi e le aule di tribunale?

Siccome il premier non mi pare in grado di dimostrare l’infondatezza delle accuse, lui e i suoi avvocati cercheranno di evitare i processi con trucchi ordinari al posto del super-trucco del lodo Alfano. Naturalmente dobbiamo sapere che questo comporterà un prezzo molto alto per il nostro paese.

Berlusconi lamenta una persecuzione giudiziaria. Il numero delle inchieste e dei processi a suo carico appare in effetti sproporzionato rispetto alla media a carico del resto del mondo politico e dell’imprenditoria.

La tesi della persecuzione giudiziaria non ha alcun fondamento serio. La correttezza di chi è a capo del governo suscita naturalmente una maggiore attenzione. Casomai il problema riguarda in generale i politici. Anche in Tangentopoli i politici furono maltrattati mentre alcuni imprenditori vennero trattati coi guanti bianchi.

Adesso molti elettori del centrosinistra saranno tentati di resuscitare la tesi della via giudiziaria al dopo-Berlusconi. I giudici, in fondo, riescono laddove la sinistra fallisce.

C’è ancora chi pensa che Berlusconi sta lì perché i magistrati non l’hanno preso o perché non s’è fatta la leggina sul conflitto di interessi…

“Non la facciamo così lo teniamo al guinzaglio”, è la frase che le viene attribuita ai tempi della Bicamerale…

È sconcertante che si possano dire bugie così clamorose. Cercare i traditori nel proprio campo è stata, a sinistra, una tragedia che oggi si ripete come farsa. Io ho provato a fare la legge sul conflitto di interessi. Vorrei ricordare che fu proprio in Bicamerale che venne approvata, e nella forma più severa, introducendo in Costituzione il principio di incompatibilità e affidando alla Consulta il compito di vigilare.

Con le chance che ha oggi la sinistra di tornare al governo quella legge non la vedremo mai.

Nulla è scritto nel libro del destino e non vedo questa sconfitta di lunga durata. La nostra via passa dal tornare a convincere la maggioranza degli italiani. Il punto di forza di Berlusconi, anche in quella parte di opinione pubblica che sulla sua presenza a Palazzo Chigi comincia a fare seriamente un calcolo del rapporto costi/benefici, è la mancanza di una forza d’alternativa credibile.

Vi siete attardati a parlare di Noemi e del sexgate molto più che incalzare il governo sulle sue lacune.

Il problema è che se si dice una mezza parola sulla D’Addario si va sui giornali. Se si parla dei problemi del paese, molto molto meno. È il filtro dell’informazione che è deformato.

Tremonti vanta di aver tenuto l’Italia al riparo dalla grande crisi economica.

Tremonti è abile e intelligente. Ma è la sua filosofia che non condivido, quella secondo cui il modello Italia, basato sulla piccola impresa e il nord industriale, è fortissimo e quindi non dobbiamo fare niente, o comunque il meno possibile, perché quando ripartirà il mercato mondiale ripartiremo anche noi, che siamo i più bravi e i più creativi. Non sottovaluto la forza di questo modello, ma comincia a essere affaticato e impaurito. E già il fatto che riguardi solo metà del paese è preoccupante. Si è spezzato il nesso duale tra sviluppo del Mezzogiorno e sviluppo dell'intero paese. E comunque Tremonti dimentica quanto decisivo sia stato il contributo del sud, che non sconta alcuna inferiorità antropologica, per la creazione del cosiddetto modello padano. In più, Tremonti non coglie la crisi come un’occasione. Tra qualche anno faremo i conti con le non scelte di questi giorni. La verità è che oggi quando le cose nel mondo vanno bene da noi vanno meno bene, e quando vanno male da noi vanno peggio.

Tremonti è candidato alla presidenza dell’Eurogruppo. Si augura che raggiunga l'obiettivo?

Sì. Mi fa un po’ sorridere che di tutti i gruppi possibili possa andare a presiedere uno che si chiama Euro. Non posso dimenticare che quando votammo la finanziaria dell’euro il centrodestra abbandonò il Parlamento. Fu un atto gravissimo. Diciamo che Tremonti e altri hanno cambiato pelle ma senza fare una seria riflessione su ciò che hanno detto e fatto in passato.

La candidatura Tremonti potrebbe affossare le chance di Draghi di andare a guidare la Bce.

Le dinamiche attraverso le quali si decidono queste nomine sono molto complesse. Ho gestito quella di Prodi alla Commissione e so come funziona. Ci vorrebbe un lavoro di regia del capo del governo. Il dibattito pubblico non aiuta.

Si dice che la sua ambizione sia diventare “ministro degli Esteri dell’Ue”, la nuova figura introdotta dal trattato di Lisbona.

Un ruolo interessante, perché unendo le funzioni di Alto rappresentante con quello di commissario alle relazioni esterne e di vicepresidente della Commissione, rappresenta l’unica figura a cavallo tra Commissione e Consiglio e incarna questa idea dell’Europa globale. L’Unione del futuro sarà spinta dalle grandi sfide internazionali: o compie ulteriori passi decisivi per rafforzare il suo ruolo nel mondo e parlare con una sola voce oppure i singoli paesi europei non potranno sedersi al tavolo dei nuovi Grandi.

Tornando in Italia, il congresso del Pd non è stato un dibattito di alto profilo. Un’occasione persa?

La drammatizzazione del congresso, questa idea che Bersani rappresenta un ritorno all’indietro, è inaccettabile. Se c’è stato nell’esperienza del centrosinistra uno che ha varato riforme liberali, oltre l'orizzonte socialdemocratico, è Bersani. La sua credibilità, in generale e come riformatore, è incommensurabile rispetto a quella di Franceschini.

Franceschini si dice convinto che alle primarie ribalterà il responso dei circoli?

L’unico rischio che corre Bersani è che alle primarie voti un campione non rappresentativo del nostro elettorato. Altrimenti l’esito è chiaro. Casomai, è Marino che può raccogliere qualche voto in più alle primarie. Marino porta nel congresso del Pd persone che forse non ci sarebbero state e appare una scelta radicalmente innovativa.

Ma se invece Franceschini dovesse farcela? Cosa racconterete agli iscritti che vedranno sconfessata la loro scelta?

Sarebbe uno scenario paradossale. Le regole sono queste. Certamente i dirigenti le rispetteranno. Gli iscritti non so. Ma adesso l'importante è che si impegnino a essere protagonisti anche alle primarie.

Si parla molto, non solo a proposito di Rutelli, di scissione del Pd verso il centro.

Che in Italia possa nascere un Grande Centro non mi pare credibile. Andiamo verso un sistema alla tedesca - che non esclude la presenza di forze intermedie tra i due maggiori partiti, ma certo non dominanti – e dobbiamo darci le regole per arrivare a questo risultato, a cominciare dal sistema elettorale. Moderato pluripartitismo, uno sbarramento serio per disincentivare la frammentazione, un ragionevole sistema di alleanze. Era quello che si doveva fare nella legislatura scorsa per frenare la deriva plebiscitaria di cui ora misuriamo tutti i danni.

E se Montezemolo scende in campo?

Un partito di Montezemolo mi pare credibile tanto quanto il Grande Centro. Invece la sua fondazione, che dà un contributo di idee e proposte al paese, è un fatto positivo.

La nascita di Pd e Pdl doveva chiudere la lunga transizione italiana. Scommetterebbe sul fatto che esisteranno ancora tra cinque anni?

La nascita di Pd e Pdl non era un approdo, doveva essere l’inizio di un cammino. Sbagliata era l’idea di un bipartitismo che si impone per legge anziché per la cultura, l’organizzazione e le classi dirigenti che un partito riesce a darsi. L’unico punto di sintesi del Pdl è Berlusconi. Fini propone un’altra idea di partito ma, anche se gode di un ampio prestigio nell'opinione pubblica, sembra abbastanza emarginato nel Pdl. Essendo nato con l’impronta incancellabile di Berlusconi, il Pdl andrebbe rifondato perché sia qualcosa di diverso. Quanto al Pd, è nato su basi fragili, come partito del leader. Una imitazione in tono minore del modello avverso, che non ha funzionato.

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