Discorso
30 ottobre 2009

"OBAMA: ONE YEAR AFTER"

convegno ISPI/Fondazione Italianieuropei - Milano, Palazzo Clerici


Nel mio intervento eviterei, come gli oratori che mi hanno preceduto, ciò che sarebbe un esercizio avaro: fare il conto dei risultati, dei successi e degli insuccessi, delle aspettative deluse del primo anno di presidenza. Certamente, l’uomo politico Obama deve fare questo calcolo: valutare il suo grado di popolarità, i sondaggi. Ma noi non siamo in questa posizione. Inoltre, credo che la grande politica debba essere votata secondo le scadenze costituzionali. Una politica che pretende di essere votata e approvata tutti i giorni e’ spesso mediocre. La ricerca del consenso day by day difficilmente può essere il criterio sulla base del quale si sviluppano grandi disegni di cambiamento.
Da questo punto di vista, credo che innanzitutto Obama non abbia tradito quella attesa di essere un game changer, cioè l’uomo che avrebbe cambiato il gioco della politica internazionale. Infatti, ha cambiato il gioco, nel senso che ha messo al centro della politica internazionale il tema della speranza anzicchè quello della paura. Lo ha cambiato in modo talmente visibile che ha mutato la percezione degli Stati Uniti nel mondo. Certo, esiste anche quel delicato problema per cui i presidenti popolari nel mondo a volte non lo sono negli Stati Uniti, però non c’è dubbio che, essendo noi nel mondo, sentiamo che la percezione del ruolo americano nel mondo è profondamente cambiata.
Obama ha messo in campo un approccio nuovo: ha posto al centro della sua azione politica il dialogo con il nemico. C’è un bel saggio, sull’ultimo numero di Foreign Affairs, intitolato “Without conditions”, nel quale si affronta proprio questo tema: il dialogo senza condizioni con il nemico, anche come sforzo di comprenderne il punto di vista. Un dialogo che non esclude la lotta al terrorismo. Obama non ha mai dichiarato che non avrebbe combattuto il terrorismo. E’ stato accusato di essere un presidente che non lo avrebbe fatto, anche se chiunque, oggi, abbia una responsabilità politica nel mondo non può rinunciare a combatterlo.
Il problema è: su quale terreno? Se si scivola sul terreno dello scontro di civiltà, allora il risultato è quello che abbiamo conosciuto durante l’amministrazione Bush, cioè che la lotta al terrorismo si accompagna ad una crescita dell’influenza del terrorismo stesso. Questo, infatti, si fa forte di uno scontro di civiltà e si presenta come una battaglia in difesa dei valori della civiltà e della religione islamica. A tale proposito avvertii Tony Blair che l’effetto della guerra in Iraq, l’effetto dell’occupazione del Califfato di Baghdad da parte di una armata cristiana (punto di vista dal quale mai i promotori della guerra considerarono il conflitto), sarebbe stato che in ogni parte del mondo islamico migliaia di giovani avrebbero aderito alla Jihad.
Non direi che Obama assume l’Islam come un valore del mondo occidentale. Direi che la vera novità è che Obama non si pone più dal punto di vista dell’Occidente, perché è il primo leader globale. In questo senso l’America, come spesso le accade, è un passo avanti rispetto agli altri. Alla globalizzazione, essa risponde mettendo in campo un leader globale. Bush, invece, è stato il capo dell’Occidente, che, in più, ha cercato di fermare un certo processo di cambiamento nel mondo, il mutamento degli equilibri e dei rapporti di forza. Lo ha fatto attraverso lo strumento più tradizionale, l’uso della forza e con una ambizione egemonica che non bisogna negare al pensiero neoconservatore: l’idea che attraverso l’uso della forza si esportava il modello della democrazia occidentale. E’ stato un estremo tentativo dell’Occidente di condizionare il mutamento del mondo.
Con Obama, a mio giudizio, cambia il punto di vista. Obama è un leader globale che parla a nome di valori universali, non meramente occidentali. Lo è persino dal punto di vista anagrafico, della sua storia personale, con la sua famiglia che ha radici in Africa, in Asia. E lo è certamente per il suo approccio. Non è un caso che, di fronte alla crisi mondiale, il realismo di Obama lo porta a smontare quella sorta di cupola dell’Occidente che è il G8, il quale si rivela, ormai, uno strumento inefficace, e ad allargare la governance in una situazione in cui l’organismo ristretto e’ il vertice bilaterale cino-americano e quello più ampio è il G20, che comprende i nuovi attori. Questo mutamento del mondo e della politica americana interroga l’Europa, il grande protagonista assente su questa scena, incapace di prendere le decisioni in grado di ricollocarla all’altezza delle sue potenzialità.
Al di là dei risultati specifici sui singoli drammatici dossier che Obama - non dimentichiamolo - ha ereditato, il mutamento di ottica, di scenario, delle categorie, di clima della politica internazionale è straordinario. Mai nessun leader, da questo punto di vista, ha avuto una forza innovativa di questa portata.
Non voglio entrare nel campo dell’economia, dove comunque, anche qui, il mutamento è profondo. Obama, infatti, appare consapevole che la crisi non è un incidente di percorso, ma mette in luce le contraddizioni di fondo di una globalizzazione selvaggia, senza regole: le drammatiche diseguaglianze che ha prodotto. La crisi, certo, e’ provocata dalla caduta dei consumi, ma i consumi cadono per un fenomeno di impoverimento delle famiglie e del lavoro, che ha investito tutto il mondo sviluppato. Il ciclo dello sviluppo che abbiamo alle spalle, proprio perché è sostenuto dai bassi salari, soprattutto dei Paesi emergenti, si e’ fondato poco sull’innovazione. Di fronte a tutto questo Obama sposta l’accento delle politiche economiche sull’azione pubblica a sostegno di una redistribuzione dei redditi e delle opportunità e a sostegno dell’innovazione. A me sembrano le grandi scelte strategiche, rispetto alle quali mi pare che l’Europa sia molto indietro, con il rischio di una ripresa più lenta e faticosa.
Ma torniamo al campo della politica internazionale. Qui Obama incontra difficoltà che si riferiscono ai conflitti lungo l’arco della crisi mondiale che va dal Pakistan, all’Afghanistan, attraverso l’Iran, il Medio Oriente, fino al Maghreb. Su questo fronte credo che ancora un vero cambiamento d’approccio non c’è stato. La mia personale opinione è che il vero cambiamento sarebbe riconoscere che in realtà questa crisi si svolge su un unico scenario. Averla affrontata come se si trattasse di problemi distinti e’ stato un errore. C’è una connessione strettissima tra l’esplodere dell’islamismo tra Pakistan e Afghanistan e la questione iraniana. Anche perché senza coinvolgere l’Iran nella ricerca delle soluzioni credo sia molto difficile stabilizzare l’Afghanistan. E c’è un impatto simbolico/ideologico della questione mediorientale su tutto il conflitto con il mondo islamico che non può essere sottovalutato. Non c’è dubbio, infatti, che il punto su cui gli americani sono attesi da tutto il mondo islamico è l’offerta di una soluzione equa alla questione palestinese, da sempre è considerata come il test di quel double standard dell’Occidente che rappresenta una delle ragioni della ferita tra mondo occidentale e Islam.
Qual è la debolezza? Che il multilateralismo americano è una grande e positiva novità, ma noi siamo di fronte ad una dichiarazioni unilaterale di multilateralismo. Al multilateralismo americano, infatti, mancano gli altri lati. In questo momento, Obama agisce sulla scena internazionale alla ricerca di un multilateralismo che non trova i partners in grado di assumersi le proprie responsabilità. E questo davvero chiama in causa, innanzitutto, l’Europa. L’America parla il nostro linguaggio, ma non trova nell’Europa un partner in grado di assumersi le proprie responsabilità. il multilateralismo funziona se ci sono gli interlocutori , i partners, altrimenti –ripeto- rischiamo di avere quella che paradossalmente definirei una sorta di dichiarazione unilaterale di multilateralismo.
Obama, purtroppo, ha perduto le elezioni in Iran. Obama, purtroppo, ha perduto le elezioni in Israele. E’ arrivato troppo tardi: gli effetti della politica di Bush hanno rafforzato le classi dirigenti più aggressive. Questa è la verità. Obama sta cercando di recuperare l’Afghanistan. Ha indotto Karzai al ballottaggio, cioè ad una rilegittimazione democratica e ad una qualche collaborazione con l’opposizione. Non so se il tentativo riuscirà, ma rappresenta una delle condizioni fondamentali per la pacificazione di quel Paese. L’errore principale, infatti, è considerare l’Afghanistan solo dal punto di vista della guerra, mentre è una operazione politico-militare, dove l’elemento politico è cruciale. Se non c’è un potere democraticamente legittimato, da costruire, da sostenere, la guerra non potrà mai essere vinta.
Insomma, vedo la debolezza politica, sia perchè la stagione di Bush ha rafforzato le leadership più aggressive e quindi meno disponibili al dialogo (e questa è una eredità negativa con la quale Obama si deve misurare), sia perché credo che il mutamento di strategia deve essere portato avanti con molta coerenza in tutti gli scenari, a cominciare- come dicevo - da quello medio orientale, dove in realtà in questo momento assistiamo ad un rischio drammatico di caduta della leadership moderata palestinese per mancanza di risultato. Il che sarebbe un colpo molto serio a tutta la strategia americana.
Il cambiamento, dunque, c’è stato ed e’ stato, a mio giudizio, di grandissima portata. Non se ne possono misurare i risultati in dieci mesi, perché è un cambiamento d’epoca e ci vorranno anni per analizzare e valutarne gli effetti. E le difficoltà ci sono: in gran parte rappresentate dall’eredità della stagione di Bush e dalla debolezza per la mancanza di partners in grado di assumersi le proprie responsabilità a fianco degli Stati Uniti. Tra questi, l’Europa, che sin qui è stata alle prese con le sue crisi economiche nazionali, con i suoi tormenti sul Trattato di Lisbona. Povero presidente degli Stati Uniti! Noi siamo qui a giudicare i suoi risultati, mentre dovrebbe essere “de te fabula narratur”, continente europeo ... Il multilateralismo attende che i più grandi teorici del multilateralismo si mettano in grado di prendere le proprie responsabilità. Questo è il problema: se Obama chiama in campo nuovi protagonisti, bisogna che essi ci siano. Si prendano le loro responsabilità e concorrano a cambiare il mondo lungo la strada che lui ha indicato, secondo me con grandissima forza e già con dei risultati, perché avere cambiato il clima del dibattito mondiale è già un risultato. Adesso bisogna lavorare sui singoli dossier nello spirito di una cooperazione a cui davvero l’Europa non può sottrarsi.
Grazie

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