Intervista
11 aprile 2010

SULLE RIFORME TROPPI IMPROVVISATORI. LA MIA PROPOSTA SUL SISTEMA TEDESCO. PER LA RIPRESA MENO IMPOSTE IN BUSTA PAGA.

Intervista di Fabrizio Forquet - Il Sole 24 Ore


97654935_img.jpg
Presidente D'Alema, Berlusconi ieri dal convegno della Confindustria di Parma ha rilanciato le riforme istituzionali. È pronto a fare la sua parte per cercare l'intesa con la maggioranza su una riforma condivisa?
Il Pd è pronto a lanciare la sfida delle riforme. Ma la mia sensazione è che ci sia molta confusione nella maggioranza. Abbiamo sentito tutte le ipotesi possibili: presidenzialismi, semi-presidenzialismi, un'improbabile elezione diretta del capo del governo. Si è poi aperto il dibattito su chi debba negoziare, sulla regia al presidente del consiglio, sul ruolo della Lega. L'inizio è impressionante per il grado di improvvisazione.

Berlusconi ha lanciato il presidenzialismo, parlando di elezione unica, nello stesso giorno, di parlamento e capo dello Stato.
È un modello plebiscitario che non c'entra nulla con il sistema francese da lui evocato. Berlusconi, anche ieri a Parma, ha sostenuto che in Italia il potere lo hanno solo le assemblee e che l'esecutivo è di fatto impotente. In questi anni, invece, è avvenuto l'opposto: il parlamento è stato privato del potere di fare le leggi, è stato ridotto ad approvare attraverso il voto di fiducia le proposte del governo. Se il governo non ha fatto le riforme non è perché è stato impedito dal parlamento, ma perché non è stato capace di farle. Berlusconi parte da premesse false e approda a proposte inquietanti del tutto fuori dal costituzionalismo europeo.

Fini ha obiettato al premier che non si può neppure cominciare a parlare di semipresidenzialismo se non si adotta il sistema elettorale a doppio turno.
E ha ragione. Per un motivo sostanziale: noi dobbiamo muoverci sul piano del costituzionalismo europeo. In questi anni è stata percorsa una via creativa, con la tentazione dell'attuale maggioranza di fare le riforme sulla base delle proprie convenienze. Se stiamo nell'ambito del costituzionalismo europeo, la scelta è una sola: andare verso una forma di governo parlamentare, modernizzata e razionalizzata, o andare verso una forma di governo semi-presidenziale.

Come dire: modello tedesco o modello francese.
Questa è la scelta fondamentale davanti alla quale ci troviamo. Ed è evidente che un presidente della repubblica eletto dai cittadini, sul modello francese, non può essere espressione di una maggioranza relativa. C'è un problema di legittimazione democratica. Per questo serve il doppio turno, perché attraverso il doppio turno si forma una maggioranza assoluta. Se non lo si vuole ci si dimentichi il presidenzialismo. Le due cose vanno di pari passo, come è evidente e come ha detto Fini.

In cima alle sue preferenze, però, c'è il sistema del tedesco.
Perché ritengo che per il nostro paese la soluzione di tipo parlamentare o neoparlamentare sia la più adatta. Abbiamo constatato in questi anni che, rispetto alla radicalità del bipolarismo italiano, l'esistenza di un'autorità al di sopra delle parti è stata un elemento importante di equilibrio del sistema. Semmai io rafforzerei i meccanismi di garanzia: ricorrendo a maggioranze qualificate per l'elezione del capo dello Stato.

Un modo per garantire ulteriormente, in tempi di bipolarismo, il carattere super partes del capo dello Stato?
Sì, e magari in un sistema federale si può pensare a un'assemblea dei grandi elettori, con una maggiore rappresentanza delle istituzioni locali, a cominciare dai sindaci delle città capoluogo. Temo che un capo dello Stato che sia capo di una parte politica possa creare ancora di più un senso di estraneità in quella parte del paese che non si riconosce in lui e non si sente rappresentata.

Ma come dare più efficienza a governo e parlamento?
Dobbiamo avere un forte governo del primo ministro, di tipo europeo. Non è vero, come si dice da diverse parti, anche dall'interno del mio partito, che il sistema tedesco sia il ritorno alla prima repubblica, ai governi che si fanno e disfano continuamente in parlamento. Il tedesco è un sistema fondamentalmente bipolare, tranne momenti eccezionali, e produce governi di legislatura. La sfiducia costruttiva è un meccanismo fortissimo a tutela della stabilità: si potrebbe aggiungere che in caso di sfiducia costruttiva entro un anno si vota. Avremo a quel punto un presidente del consiglio eletto dal parlamento, con fiducia alla persona e non al governo, e con poteri di scegliere e cambiare i ministri, un parlamento ridotto di numero, il superamento del bicameralismo perfetto, un'assemblea federale... Il sistema tedesco mi sembra davvero un ottimo riferimento.

Può diventare la proposta del Pd?
Non lo so. Ci confronteremo e decideranno gli organismi dirigenti del partito. Io dico che questo sarebbe il sistema migliore per il nostro paese. Invenzioni come il semipresidenzialismo senza il doppio turno si adattano alle necessità di Berlusconi, non del paese. Ricordiamoci sempre, quando parliamo di riforma istituzionale, che dopo almeno un decennio di presidenzialismo di fatto, gli elettori alle ultime elezioni hanno mandato un segnale di sfiducia preoccupante verso tutto il sistema politico. Non è un caso.

Il messaggio di sfiducia c'è stato, ma per la verità sembra aver riguardato, soprattutto al Nord, più l'opposizione che la maggioranza.
Mi permetta di commentare brevemente il risultato elettorale, è la prima volta che lo faccio. Berlusconi ha detto che ha vinto, ma non è così. Il Pdl in termini assoluti ha avuto un vero tracollo sulle europee con 2 milioni e 560mila voti in meno. Ma soprattutto i partiti di governo hanno raccolto il consenso di solo il 29% dei cittadini che hanno diritto al voto. Mai nella storia repubblicana una maggioranza di governo ha avuto una base di consenso così limitata e ristretta. Certo, anche il centro-sinistra perde voti, ma in misura minore. Ciò che emerge è soprattutto la progressiva riduzione della fiducia in tutto il sistema politico. Una classe dirigente attenta al futuro dovrebbe muovere da questa preoccupazione. Anche quando ragiona di riforme istituzionali. Dopo anni di questo tipo di sistema bipolare e di un presidenzialismo di fatto nel nostro paese si è prodotto un impressionante calo della partecipazione democratica. I fatti sono questi.

Se dunque il premier insiste sulla strada del presidenzialismo per voi il discorso è chiuso?
Si potrebbe procedere su riforme più limitate e condivise, come la riforma del parlamento. Sarebbe un approccio ragionevole.

Un ritorno alla bozza Violante?
Molte delle idee contenute in quella proposta sono buone. Ma le dico di più. In questo paese servirebbe una vera riforma della politica, con una riduzione degli eletti a tutti i livelli, perché l'ipertrofia del ceto politico non giova al suo prestigio, e con norme per limitare il costo della politica. Ma serve anche una regolamentazione della vita dei partiti, attraverso l'introduzione di forme di controllo e di trasparenza, anzitutto a proposito dell'uso che fanno delle risorse pubbliche. La riforma delle istituzioni deve comprendere questo tema, anche per prevenire forme crescenti di inquinamento e corruzione.

Propone di regolare per legge i meccanismi interni di funzionamento dei partiti?
I partiti sono strumenti essenziali di partecipazione democratica e sono finanziati con fondi pubblici, è giusto perciò prevedere che abbiano meccanismi di vita interna trasparenti e controllati. E anche che ci siano regole chiare in grado di garantire al loro interno il carattere democratico delle decisioni.

Lei è stato presidente della bicamerale. Finora il dibattito sulle riforme si è sviluppato soprattutto sui giornali. Qual è il luogo più adatto a far crescere ipotesi condivise?
Questa parte del dibattito è priva di senso: chi, dove, come... Le riforme si fanno in parlamento. C'è il dovere di dialogare e di confrontarsi.

Il rischio è che una discussione così confusa sulle riforme istituzionali metta in secondo piano la vera priorità del paese: gli interventi che servono a rilanciare l'economia. La presidente di Confindustria ieri da Parma ha chiesto al governo impegni concreti per cambiare marcia.
Ha ragione Emma Marcegaglia: è tempo di fatti, non più di promesse. La destra si è presentata come una grande forza di modernizzazione del paese ormai 16 anni fa. Un tempo storico, sarebbe il tempo di fare un bilancio anziché insistere con le solite promesse. Si è seriamente ridotta in questi anni la pressione fiscale in Italia? No. Si sono realizzate la semplificazione della burocrazia e la riduzione della spesa corrente? No. Non si è fatto nulla. In 16 anni nulla. Le uniche riforme vere, anche se certamente in misura insufficiente, le abbiamo fatte noi: da quella delle pensioni alle privatizzazioni, all'entrata nell'euro, alle prime liberalizzazioni. Loro magari le hanno smontate, come avviene oggi sulle tariffe minime dei professionisti. Così i problemi da affrontare sono ancora lì: le incrostazioni corporative, la necessità di una maggiore mobilità sociale, la meritocrazia, la liberalizzazione dei mercati, la costruzione di un nuovo patto sociale più favorevole alle generazioni più giovani.
Davanti alla crisi lei avrebbe fatto di più e di diverso?
Tremonti ha avuto il merito di tenere a bada gli appetiti e le richieste che assediano normalmente il ministro dell'Economia, innanzitutto da parte dei suoi colleghi di governo, e quindi di aver tenuto sotto controllo i conti. Ciononostante l'anno prossimo saranno costretti a fare manovra abbastanza consistente. Ma il problema è che non si è contrastata la crisi economica e non si è sostenuta la ripresa del paese. Tanto è vero che noi abbiamo avuto una ripartenza, ma già per il secondo trimestre 2010 abbiamo una crescita così contenuta da essere agli ultimi posti in Europa, molto al di sotto di Francia e Germania. Bisognava, bisogna certamente fare di più.

Non le chiedo l'ennesimo ricettario per la ripresa, ma mi dica due cose prioritarie che lei farebbe se fosse al governo.
Sostegno dei redditi delle famiglie, innanzitutto. In particolare per i redditi medio-bassi. Il crollo dei consumi delle famiglie è uno dei dati più drammatici che abbiamo di fronte. È socialmente drammatico, ma anche economicamente drammatico. Con un modello tutto orientato all'export la nostra economia non reggerà. Anche perché i grandi mercati che hanno trainato la crescita in questi anni tireranno in futuro molto meno.

La seconda?
Bisogna puntare sull'innovazione e la ricerca. Con la fondazione Italianieuropei abbiamo fatto un bellissimo quaderno sull'innovazione, con proposte interessanti anche per un paese che ha scarse risorse da investire. La domanda pubblica normale di beni e servizi potrebbe, per esempio, essere orientata verso i prodotti più innovativi. È un bel quaderno, spero che il governo gli dia un'occhiata. Ci sono cose concrete, non velleitarie. Si possono fare con costi molto contenuti.

Dalle assise di Parma di Confindustria esce anche la richiesta di più concorrenza. Lei condivide?
Sì, io dico più liberalizzazioni, più concorrenza, più incentivi al merito e alla qualità. E poi penso che sia maturo il tempo per discutere un nuovo patto sociale, con il grande tema delle tutele del nuovo lavoro. In Italia abbiamo, da una parte, la tendenza a proteggere eccessivamente chi è già garantito e, dall'altra, ci incrudeliamo sui nuovi lavoratori che sono davvero privi di garanzie e tutele. Dobbiamo invece costruire un nuovo patto solidaristico universale. Questa sì che è una delle grandi riforme fondanti necessarie.

Non pensa che sulle pensioni si dovrebbe tornare a intervenire proprio nell'ottica dell'equità generazionale?
Bisogna accompagnare un processo di innalzamento per l'età pensionabile. Questo delle pensioni è uno dei temi della grande questione giovanile che la sinistra ha faticato molto a comprendere e, ancor più, ad affrontare.

Non è stato un errore, durante il governo Prodi, cancellare l'innalzamento dell'età previsto da Maroni?
Diciamo che non si è potuto evitare. Ricordiamoci che per alcuni nel governo e nella maggioranza facemmo fin troppo poco e ricordiamo anche le manifestazioni che avemmo contro.

Sulla riforma fiscale lanciata da Tremonti lei pensa sia possibile un confronto? Ne condivide le linee guida?
Più che mai su una materia come quella fiscale bisogna vedere le proposte concrete. Sulle linee guida siamo sempre tutti d'accordo. Abbiamo fatto una legge delega sul federalismo fiscale che contiene molte promesse e molti principi giusti, ma di non facile realizzazione. Ora si tratterà di vedere cosa succede nella fase attuativa. Qui tutto si farà più complicato e potremo vedere alla prova la nota creatività del ministro Tremonti.

Dubbi sull'attuazione, ma lei resta favorevole al federalismo fiscale o no?
Credo sia giusto avvicinare il fisco ai cittadini, ma bisogna fare bene attenzione a garantire uniformità dei diritti fondamentali: nella sanità, nell'istruzione, nella sicurezza. I cittadini italiani sono eguali. Anche perché le aliquote fiscali sono eguali. E i diritti non appartengono ai territori, appartengono alle persone. Se non si rispetta questo principio non c'è più l'unità nazionale.

Al di là del federalismo, le imprese, come del resto i sindacati, lamentano un sistema fiscale complesso, ingiusto, oneroso.
Ho visto che Tremonti ha annunciato un libro bianco, ma per ora in materia fiscale abbiamo avuto solo libri dei sogni. Il dato vero del paese resta il forte squilibrio della pressione fiscale sul lavoro e, quindi, indirettamente, sulle imprese. È quello che la stessa Marcegaglia ha detto a Parma. Questo è il problema vero: alleggerire la pressione fiscale sul lavoro, ristabilendo la vera progressività e colpendo l'evasione. Le dichiarazioni dei redditi degli italiani sono lì a testimoniare l'insostenibilità della situazione. Non so quindi cosa pensi di fare il ministro dell'Economia, ma siamo certamente interessati a una riforma che riteniamo essenziale.
Lei non ha mai nascosto di dialogare, tra i vari soggetti, anche con il mondo bancario. Gli ultimi mesi hanno visto intensificarsi la diplomazia del ministro Tremonti, e anche della Lega al Nord, verso le banche. La preoccupa?
Io credo che tra le riforme importanti che sono state fatte in questo paese ci siano quelle a firma Amato-Ciampi che hanno liberato il sistema bancario dal condizionamento della politica. È stato un passo decisivo per il paese, spero che non si torni indietro.

Come ha giudicato la nomina di Cesare Geronzi alla presidenza delle Generali?
Bisogna avere sempre massimo rispetto per l'autonomia di una società per azioni quotata in Borsa. Comunque non c'è dubbio che la destra, che in origine aveva grandi fervori anti-establishment, con il tempo abbia messo il doppio petto. Diciamo che ha perso slancio rivoluzionario.

Sulla vicenda Bnl pensa sempre che l'Unipol era la soluzione migliore?
Per il paese lo era certamente. Avere una grande banca legata al mondo cooperativo sarebbe stato uno sviluppo importante. Certamente meglio che venderla ai francesi, con tutto il rispetto per i francesi.

Ripensando a quella stagione di conflitti tra politica e finanza rifarebbe le cose che ha fatto o detto?
Ma io non ho fatto proprio niente. Lo hanno capito tutti: venivamo informati e ci sembrava un fatto positivo che si realizzasse quell'intesa. Poi ci fu una gigantesca montatura per mettere in difficoltà il mio partito alla quale, come poi si è appreso, non era del tutto estraneo il presidente del Consiglio.

Al di là delle montature, a distanza di anni, non le sembra che ci fossero per lo meno compagni di viaggio un po' discutibili?
Questo sì, ma per la verità io lo dissi anche all'epoca, anzi lo dissi proprio in quelle telefonate. Ma quella parte delle conversazioni non è stata mai molto pubblicizzata.

Quindici anni fa, con l'investitura di Romano Prodi a candidato premier, lei fu l'artefice di una straordinaria operazione politica. Oggi il Pd dovrà tornare a guardare al mondo dell'economia, magari proprio alle banche, per individuare un candidato competitivo?
Allora non c'era il Pd. La scelta di Prodi significava anche la creazione di un nuovo centro-sinistra, quello che si chiamò Ulivo. Oggi c'è il Partito democratico e il candidato può naturalmente venire dal proprio interno, a cominciare dal suo leader. Ma parlare di questo è prematuro. Non mi appassiona il dibattito sulla leadership. Noi dobbiamo costruire un'alternativa credibile, e di questo fa parte il contributo che vogliamo dare alle riforme economico-sociali e istituzionali. Per il candidato premier c'è tempo.

stampa