Discorso
11 maggio 2010

"Il paradosso dell’Europa: debolezza e forza nel XXI secolo" - Conferenza all’Istituto "Rio Branco", scuola di formazione del Corpo diplomatico brasiliano

ore 12, Brasilia


Vi ringrazio molto – e ringrazio il Ministro Celso Amorin in particolare – per l’invito a tenere questa conferenza alla Scuola dei diplomatici brasiliani. Come sapete, ho esercitato a mia volta le funzioni di Ministro degli esteri, in Italia. E devo dire che ho trovato nel corpo diplomatico qualità professionali straordinarie, combinate a un attaccamento profondo al proprio paese. Mi fa quindi estremo piacere potere condividere con voi alcune riflessioni sul problema che ci troviamo tutti di fronte - noi della Vecchia Europa e voi come nuovi protagonisti della globalizzazione: il problema di costruire un sistema di governance adatto alle sfide del secolo.
Ho sempre ritenuto - non da pochi anni ma da quando ho avviato la mia carriera politica - che lo sviluppo dei rapporti con l’America Latina fosse una priorità decisiva, per l’Europa. La sfida, dal mio punto di vista, è sempre stata quella di utilizzare i profondi legami umani e culturali che ci uniscono per fondare le basi di un sistema internazionale più equo, più giusto. Ne ho discusso molte volte con il Presidente Lula, un caro amico e uno dei veri protagonisti della vita internazionale di questi decenni: un uomo che è stato capace di innescare l’ascesa economica del proprio paese e al tempo stesso di interrogarsi non solo sui vantaggi ma anche sui limiti della prima fase della globalizzazione. Quella prima fase, la fase degli anni ’90, in cui si pensava che lo sviluppo di un mercato senza regole avrebbe portato soltanto dei benefici. Oggi, e tanto più dopo lo shock della crisi finanziaria, è diventato evidente che abbiamo bisogno di regole internazionali condivise e di una capacità di governo dei processi globali. In che modo l’Europa può favorire un esito del genere?
Il paradosso, come cercherò di dire, è che proprio quando il sistema internazionale sta diventando multipolare – sta assumendo, insomma, la configurazione auspicata dagli europei – l’Europa si scopre debole, invece che forte. Rischia di perdere influenza, invece che aumentarla. Perché? Cercherò di rispondere a questa domanda ma anche di spiegare che l’Europa ha ancora delle carte importanti da giocare per evitare la propria marginalità, rispetto agli equilibri che si stanno disegnando nel mondo. E vorrei sottoporvi una delle mie conclusioni: nuovi rapporti transatlantici, non solo con gli Stati Uniti ma con l’intero continente americano e con l’Africa, saranno a questo fine essenziali.


Questione di scenari
Lasciatemi partire da alcuni cenni sui nuovi equilibri globali. Non ho nessun bisogno, in una sede come questa, di approfondire i punti che tutti conosciamo e che qui ricordo solo come quadro di riferimento: rispetto al mondo di venti anni fa, il mondo di oggi è più asiatico e meno europeo, più globale e meno occidentale, più allungato verso Sud e meno centrato sul Nord.
Lo spostamento del baricentro economico verso l’Asia – la Cina, anzitutto e poi l’India – è stato rafforzato dalle conseguenze della crisi economica: comparata all’Europa ma anche agli Stati Uniti, la Cina sta uscendo dalla crisi con molta maggiore rapidità, anche grazie all’impatto di uno dei pacchetti di stimolo più sostanziali (più di 500 miliardi di dollari) e più funzionanti che siano stati adottati. Se l’Europa è ancora alle prese con una crescita piatta, dopo tre anni di recessione, la Cina sta già ponendosi il problema di evitare un riscaldamento eccessivo della propria economia. Che però si riscalda, a ritmi del 10%.
In uno scenario lineare (in assenza, cioè, di una crisi di fondo della locomotiva cinese, che oggi pare improbabile), le previsioni dell’OCSE indicano che a partire dal 2025, l’Asia produrrà circa il 40% della ricchezza mondiale. Il recupero, da parte della Cina, di quella posizione centrale che aveva perso più di due secoli fa, produrrà inevitabilmente una perdita relativa di influenza occidentale. Questa diversa distribuzione del potere mondiale sarà rafforzata dalle tendenze demografiche: entro quindici anni, prevedono ancora le statistiche, una persona su due sarà asiatica.

Sappiamo anche, tuttavia, che il meccanismo fondamentale su cui si è retta la prima fase della globalizzazione - l’interazione finanziaria e commerciale fra la Cina e gli Stati Uniti – ha prodotto squilibri di fondo. Alle origini della crisi del 2008 non stanno solo le responsabilità negative, evidenti e molto notevoli, del sistema finanziario americano. Sta anche la non sostenibilità di un meccanismo di crescita globale fondato sul nesso, in qualche modo perverso, fra eccesso di consumo (americano) ed eccesso di risparmio (cinese).
Un grande aggiustamento strutturale è insomma necessario: solo un aumento della domanda interna cinese, combinato all’aumento delle capacità di risparmio americane, modererà gli squilibri globali. Il punto è che questo aggiustamento sia governato e non produca conflitti protezionistici: la tensione esistente sui tassi di cambio del renmbimbi è indice del problema che abbiamo, con una Cina che non intende essere pressata dall’esterno (il nazionalismo è l’ideologia che sostiene il potere comunista/capitalista di Pechino) e che stenta ancora, pur essendo diventata una grande potenza economica, ad assumersi tutte le responsabilità che ne conseguono.

Parlo della moneta cinese per introdurre il punto successivo: è abbastanza indicativo, mi pare, che il problema del tasso di cambio del renmimbi sia stato posto non solo dagli Stati Uniti ma anche dall’India e dal vostro paese, il Brasile. Mentre non se ne è parlato, almeno questa la tesi ufficiale, nelle recenti riunioni del G7 e del G20.
Ciò dimostra che siamo ancora in una fase di estrema fluidità: è vero che il passaggio dal G7 al G20 fotografa lo spostamento dal mondo occidentale di ieri al mondo multipolare di oggi. E’ quindi un passaggio simbolicamente importante. Ma è vero anche che il G20 in quanto tale resta un foro di coordinamento e di consultazione, più che un foro decisionale; mentre i nuovi allineamenti internazionali sono fragili e mutevoli. Sarebbe difficile, per esempio, parlare di un asse coerente del Sud, che includa la Cina insieme all’India, al Brasile, al Sud Africa: su alcuni punti esiste una convergenza, su altri - incluso il problema monetario ma anche la riforma del Consiglio di sicurezza – la posizione cinese è distinta.
Ciò significa anche che l’obiettivo di rafforzare e riformare le istituzioni internazionali resta aperto; ma diventa cruciale. E porrà problemi specifici all’Europa, che è in genere sovra-rappresentata nel sistema di Bretton Woods.

Tornerò poi sui famosi posti a tavola dell’Europa. Lasciatemi aggiungere, ancora, che l’effetto della prima fase della globalizzazione, anch’esso potenziato dalla crisi economica recente, è stato di spazzare via l’illusione del 1989. L’illusione, cioè, che la diffusione dell’economia di mercato producesse di per sé una tendenza inevitabile anche alla democrazia; e, nella versione americana, producesse di per sé la tendenza verso un unico modello politico, economico e sociale. Così non è stato. E’ vero che le democrazie o le spinte alla democratizzazione sono aumentate, negli ultimi decenni; ma è vero anche che si sono consolidati modelli alternativi, fondati su varie forme di combinazione fra capitalismo e autoritarismo. Di nuovo, la Cina è anche un modello specifico, così come per altri versi lo è la Russia. L’ascesa di modelli socio-politici diversi da quello americano, ma economicamente competitivi sul piano globale, contribuisce a spiegare perché l’illusione unipolare del dopo guerra fredda si sia appunto rivelata questo: un’illusione. Almeno nel futuro prevedibile, le democrazie liberali si troveranno a coesistere e competere con sistemi sociali e politici differenti: la letteratura internazionale parla di “autocrazie sostenibili” o di “democrazie gestite” o ancora, nella versione russa, di “democrazie sovrane”. In ogni caso, l’esistenza di modelli alternativi, connessi dall’economia globale in un rapporto fatto di cooperazione e di competizione, complica la gestione del sistema multipolare. Perché le regole di cui avremmo bisogno non sono tipiche della vecchia politica estera ma investono anche le politiche interne: sono, in effetti, regole “intra-domestiche”, che investono interessi e valori delle rispettive società.

In queste condizioni, l’esistenza di vari centri di potere non garantisce affatto una gestione multilaterale del sistema internazionale. In altri termini: il multipolarismo non garantisce, di per sé, le basi per il multilateralismo: una fiducia eccessiva, quasi meccanica, in questo tipo di relazione è stato l’errore di prospettiva compiuto dall’Europa. Mentre il rischio vero è quello di un alto tasso di disordine: non più dominato in modo esclusivo dall’Occidente, e non ancora governato da regole condivise, il sistema multipolare potrà dimostrarsi altamente instabile. La storia insegna, ed è una lezione da non trascurare, che le fasi come queste – quando il vecchio equilibrio si modifica, come risultato dell’ascesa di nuove potenze – sono le fasi più critiche: la potenzialità di conflitti è in genere molto alta.

Per riassumere queste considerazioni: la prima fase della globalizzazione ha lasciato dietro di sé una nuova distribuzione del potere mondiale (un nuovo equilibrio di influenza, più che di potenza) e l’emergere di modelli plurali. Ancora: la prima fase della globalizzazione ha permesso un’ascesa economica straordinaria a centinaia di milioni di persone ma si è fondata su squilibri strutturali. La crisi economica esplosa nel 2008 lo ha dimostrato, segnando la fine di un’epoca. La sfida, oggi, è di concordare le regole per la gestione di una seconda fase della globalizzazione: più equilibrata dal punto di vista economico, più equa dal punto di vista sociale, e fondata, sul piano politico, su accordi multilaterali. Questo passaggio non è affatto facile, perché i trade-off necessari non attengono solo la sfera esterna dei rapporti fra gli Stati; ma investono in modo diretto la loro organizzazione interna. La posta in gioco è quanto mai rilevante: o questo passaggio riuscirà, o il rischio è un forte aumento del tasso di conflittualità e di anarchia del sistema internazionale, che sarà segnalato anzitutto da una ripresa del protezionismo.

L’amministrazione americana, con Barack Obama, ha colto che la sfida è esattamente questa, io credo. Mettendo la cosa in modo ancora più netto: Obama è la risposta americana ai cambiamenti che ho appena descritto. E’ chiaro che gli Stati Uniti restano la principale potenza di oggi, la potenza indispensabile per usare una vecchia definizione. Ma Obama ha anche capito che i limiti relativi del potere americano vengono accentuati da scelte solitarie: l’America resterà tanto più al centro del sistema internazionale, tanto più in posizione di leadership, quanto più costruirà partnership strategiche con gli altri poli del sistema.
In questa visione basata su partnership multiple, l’Europa perde la sua vecchia centralità strategica: Obama è un presidente globale, prima che atlantico. Che poi sia un presidente solo trans-pacifico, interessato esclusivamente a costruire un G-2 con la Cina, resta da vedere: l’incubo di un G-2 è soprattutto, per ora almeno, un incubo europeo. Dettato da un complesso di esclusione.
Se l’Europa vedesse il problema del proprio rapporto con l’America in modo meno emotivo e meno contingente, potrebbe anche concludere che Barack Obama, mentre supera il vecchio atlantismo, porta però il suo paese verso politiche più vicine alla vocazione europea: sul piano interno (la riforma sanitaria) e nel modo di vedere alcuni dei problemi internazionali (il multilateralismo, per quanto à la carte).




Il paradosso europeo
Ecco, il paradosso è che mentre Obama è accusato in America di essere troppo europeo (e in America è una specie di insulto, lo sapete), l’Europa diventa meno europea di un tempo. E dopo avere atteso per anni il momento multilaterale, rischia di mancare all’appuntamento. In fondo, quando parlavamo del soft power europeo parlavamo di questo: di un know how specifico – l’integrazione, appunto - per gestire le relazioni fra Stati nazionali in modo alternativo alla tradizionale competizione geopolitica. Ma se questo know-how viene messo in discussione nell’Europa stessa, e la crisi greca è un brutto campanello di allarme, diventa difficile farne una politica estera. E se il gioco europeo, nel dopo trattato di Lisbona, sembra dominato dalla ri-nazionalizzazione, l’Europa diventa poco credibile come attore internazionale.
Insomma, fino a pochi anni fa l’Europa sembrava a sua volta una potenza in ascesa: aveva appena lanciato l’euro, stava allargandosi, stava diventando il principale mercato integrato del mondo. Appena avesse approvato la riforma delle istituzioni – questa la nostra attesa - sarebbe anche diventata uno dei poli centrali del sistema internazionale. Oggi, a pochi mesi dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, domina il pessimismo – perfino eccessivo.

Per fare solo un esempio, ma è un esempio molto sintomatico, l’Europa ha vissuto una specie di shock alla Conferenza di Copenaghen sul clima: quando si è sentita marginalizzata. La lezione di quel fallimento è che l’ambizione a “lead by example” non basta, senza la capacità di costruire consenso internazionale: verso gli Stati Uniti e verso le nuove grandi economie. Senza il pieno concorso di paesi come la Cina, l’India o il Brasile, accordi globali e di quella portata non sono semplicemente realistici.

Ma i problemi essenziali sono interni all’UE: esistono spinte diffuse alla ri-nazionalizzazione delle politiche. Sotto la pressione di un sistema internazionale altamente competitivo, sotto la pressione di sfide globali, l’istinto è stato quello di fare ricorso al livello decisionale nazionale – indebolendo il grado di coesione della UE. Qui, il paradosso è particolarmente evidente: i paesi europei hanno in teoria a disposizione una struttura unica nel suo genere, disegnata appositamente per aggregare le forze e le capacità, per fare massa critica all’esterno.
Eppure, proprio nel momento in cui tutte queste caratteristiche appaiono più necessarie che mai su scala globale, ecco che l’Europa viene colta da una specie di sussulto di particolarismo, quasi da una nostalgia per il passato dei suoi Stati-nazione.
Il caso della Germania è indicativo. Siamo di fronte al perno centrale dell’Ue, che comincia però a vedere nell’integrazione europea non il modo migliore per canalizzare gli interessi nazionali tedeschi ma come un onere da sostenere. L’atteggiamento esitante di Berlino di fronte alla crisi greca può essere letto in molti modi (e contiene un giusto monito rispetto agli errori compiuti da Atene); ma sul piano simbolico ha significato questo, ha significato che la Germania non intende assumere gli oneri della leadership europea. E’ come se le riserve di solidarietà fossero esaurite. In questa situazione, è particolarmente importante ciò che è stato finalmente deciso per proteggere l’Europa e sostenere i Paesi più indebitati. Speriamo non si tratti solo di misure di emergenza, ma dell’inizio di questo nuovo corso di politica finanziaria ed economica di cui l’Europa ha bisogno.

Ha contribuito l’impatto della crisi economica, con i suoi effetti contraddittori. In una prima fase la crisi, esplosa nel cuore del sistema finanziario americano, è sembrata confermare i punti di forza del modello europeo – l’economia sociale di mercato. Un sistema di relazioni tra Stato e mercato che garantisce tutele costose ma quanto mai preziose nelle fasi di recessione. E difatti, il sistema di mercato “temperato” proprio dell’Europa continentale ha evitato che una grave crisi dell’economia si trasformasse in una catastrofe sociale. Esiste in realtà un problema in crescita di disoccupazione: ma sono convinto, come del resto molti economisti, che l’esistenza del mercato interno e dell’Euro abbia permesso alle economie europee di reggere meglio alla crisi di quanto non sarebbe avvenuto altrimenti.
In una seconda fase, tuttavia, quando si è cominciato a parlare di exit strategy e di ripresa, è emerso il tallone d’Achille europeo, ossia il tasso di crescita: l’Europa è arrivata all’appuntamento con la più grave recessione da mezzo secolo a questa parte dopo un periodo di crescita media del 2,2% l’anno tra il 2000 e il 2008 (per la UE a 27), a fronte di livelli ben più alti non soltanto in Asia e nelle altre economie emergenti ma anche negli Stati Uniti. Ha poi subito una perdita del 4,2% nel 2009, con stime di un +0,7% nel 2010. C’è quindi un problema di fondo – una crescita piatta - che precede la crisi globale. Su cui si è alla fine innestato il contraccolpo della crisi greca: rivelatore di uno squilibrio di fondo, interno all’euro-zona, fra una Germania in surplus (una sorta di Cina in Europa) e i paesi in decifit dell’area mediterranea.

Vorrei dire subito che non sono fra i pessimisti: non credo affatto che l’area dell’euro sia destinata a frantumarsi. Tensioni sono possibili; una spaccatura è improbabile perché anche i paesi più solidi traggono vantaggi da Eurolandia. Di nuovo: se è vero che la Germania ha un modello di crescita trainato dalle esportazioni, più della metà dell’export tedesco avviene all’interno dell’area euro. Penso al contrario che come molte altre volte nella sua vita, l’Europa finirà per trarre da una crisi come questa lo stimolo per una gestione più efficace dell’Unione economica e monetaria. Più efficace significa un mix migliore fra sforzi nazionali e politiche europee: la capacità di attuare riforme strutturali nei paesi in deficit, fra cui l’Italia; la capacità di aumentare la domanda interna nei paesi del cuore continentale europeo, a cominciare dalla Germania; e un certo grado di coordinamento fra le politiche fiscali. Dobbiamo attivare strumenti di stimolo, con un piano di investimenti europei e il varo di euro-bonds. Gli europei, questa la prima carta da giocare, devono usare l’Europa per favorire la crescita. Senza riattivare la crescita, l’Europa continuerà a perdere peso internazionale.

La “flat economy” riflette, d’altra parte, la struttura demografica e sociale della UE. Il vecchio continente è, in termini comparati, un continente demograficamente vecchio. Ha quindi perso una fonte essenziale del suo dinamismo e della sua capacità di innovazione. Tutti sanno che lo strumento di compensazione di un basso tasso di natalità è l’immigrazione, ma questa a sua volta pone dilemmi di non facile soluzione. L’Europa non ha una vera e propria politica di immigrazione. Per una serie di ragioni: dalla frammentazione delle legislazioni nazionali all’impatto sociale e politico di flussi comunque consistenti. Sta qui la seconda carta da giocare, o meglio la seconda sfida da raccogliere: la capacità di trovare un punto di equilibrio – condiviso a livello europeo - tra accoglienza e criteri selettivi, tra tolleranza e assimilazione, tra apertura culturale e regole formali di cittadinanza. L’Europa ha bisogno di una politica dell’immigrazione comune. Anche come antidoto rispetto alla “politica della paura”: al peso che stanno acquisendo forze populiste e localiste, il cui risultato è di indebolire sia i governi nazionali che l’Unione europea.

Terza carta, ma anch’essa decisiva: lo sviluppo – vero, non teorico -. di una politica estera e di difesa comune. E’ ormai evidente che nessuno degli Stati nazionali europei, preso singolarmente, può più sperare di restare influente sul piano globale. I cittadini ne sono consapevoli: tutti i sondaggi dimostrano che l’opinione pubblica è favorevole a questo sviluppo. Per mezzo secolo, l’Ue si è costruita sull’ integrazione interna; oggi, l’asse deve spostarsi sulla cooperazione verso l’esterno. Sembra un adattamento scontato, di fronte alle sfide globali. Non lo è, nonostante i progressi previsti dal Trattato di Lisbona: perché i meccanismi decisionali, le sensibilità geopolitiche in parte diverse fra i 27 membri dell’Unione e il tasso di resistenza che esiste comunque nelle burocrazie nazionali, funzionano da ostacolo. Questa terza carta rischia di essere giocata con troppa lentezza.


Dove fare politica estera
Vedremo. Come sapete, è in costruzione a Bruxelles il Servizio Diplomatico Esterno, la struttura comune che dovrà supportare la politica estera europea. Quando il Servizio sarà creato, si tratta di tremila diplomatici, avrà comunque un impatto: le istituzioni, questa la lezione della vicenda comunitaria, contano. Contano quando esistono le politiche. Su cui vorrei adesso concentrarmi rapidamente.
Quali sono le priorità della politica estera dell’Ue? Dove dobbiamo concentraci?
La mia tesi è che l’Unione deve anzitutto proporsi di migliorare la propria performance nella macro-regione che la circonda: essere efficace nel cosiddetto vicinato, dai Balcani al Mediterraneo, è la condizione per acquisire credibilità e stima sufficienti per fare un salto di qualità su scala globale. Ed è la premessa di una divisione del lavoro funzionante con gli Stati Uniti.

La politica europea nel vicinato ha a sua volta due poli essenziali di riferimento esterni: la Russia e la Turchia. Entrambi, in un certo senso, definiscono i “limiti” dell’Europa; entrambi hanno a che fare con questioni cruciali di sicurezza energetica; e su entrambi continuano a esistere sensibilità nazionali - o veri e propri interessi - diversi. Il che mi conduce a una prima conclusione: senza una politica energetica comune, l’Europa non avrà una vera politica estera.

Sul lato russo, il riavvicinamento fra Washington e Mosca facilita anche una maggiore convergenza delle politiche europee: la distanza fra nuovi e vecchi membri dell’Unione si è in parte ridotta. Sul lato della Turchia, il congelamento di fatto delle prospettive di adesione pone il problema di come tutelare i rapporti con un attore ormai molto attivo sul teatro medio-orientale. Guardando più a lungo termine, la proiezione geopolitica dell’Europa (o di una sua parte) verso il Mar Nero e il Mar Caspio tenderà a rafforzarsi.

Parallelamente, l’Ue deve tentare di riguadagnare un peso verso Sud, nel Mediterraneo e in Medio Oriente. L’Europa, o meglio i paesi europei – Italia e Francia in particolare - hanno giocato un loro ruolo importante nel 2006, con la decisione di schierare contingenti militari in Libano. Ma è rimasta una decisione isolata: l’Ue, sul teatro israelo-palestinese, vive oggi una sorta di eclisse. E questo proprio nel momento in cui gli Stati Uniti definiscono il problema del conflitto Israele-palestinese come una loro priorità di sicurezza nazionale, accettando così il legame che l’Europa ha sempre sottolineato: la soluzione del problema palestinese renderà meno intrattabili i conflitti aperti nel Grande Medio Oriente.

Qui un cenno è obbligato al problema nucleare iraniano, caso in cui la UE (con la formula “EU3” che ha incluso anche l’Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza) si è assunta responsabilità dirette. Come risultato degli sforzi in corso al Consiglio di sicurezza, nuove sanzioni internazionali verranno probabilmente approvate: penso sia necessario. Il vostro paese ha annunciato una posizione contraria; e so benissimo che le sanzioni potranno non essere risolutive. Ma quali sono le alternative? Io ritengo che sarebbe un errore avallare le pretese del regime degli ajatollah di dotarsi di armi nucleari. Il problema è che l’impegno internazionale in questo senso deve essere accompagnato dalla volontà di aprire un serio negoziato con l’Iran per un suo coinvolgimento nella soluzione delle principali crisi che interessano quella parte del mondo. è evidente che non può esservi pacificazione in Iraq, stabilità in Afghanistan senza riconoscere il ruolo dell’Iran e senza ottenerne la collaborazione. Ma soprattutto la questione del nucleare iraniano deve essere affrontata mentre contemporaneamente si rilancia con determinazione l’impegno per la pace in Medio Oriente. Non può esserci un doppio standard nella difesa dei principi della legalità internazionale. E questo significa che si deve chiedere anche ad Israele in materia di insediamenti, a proposito della questione di Gerusalemme Est e a proposito dei diritti fondamentali dei palestinesi di rispettare le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e le richieste della comunità internazionale.
Lasciatemi aggiungere un punto ulteriore sulla non-proliferazione. Resto convinto che l’unica strada realistica per limitare la proliferazione nucleare sia quella di un sistema efficace di fornitura e controllo delle tecnologie nucleari pacifiche ad uso esclusivamente civile. L’evoluzione del Brasile, con la rinuncia all’ozpione nucleare militare, lo conferma; e conferisce al vostro paese, io credo, un ruolo importante da svolgere in questo settore.

Infine, un punto che ritengo importante sull’Africa. Il continente africano è stato identificato fin dalla European Security Strategy del 2003 come una regione in cui la UE può e vuole esercitare una presenza costruttiva. In parte è il nostro vicinato a Sud; ma il problema è appunto di passare da un’ottica limitata alla fascia mediterranea ad un’ottica continentale. In Africa si intrecciano molte delle sfide del XXI secolo: la lotta alla povertà e alle violazioni più gravi dei diritti umani, alti tassi di crescita demografica, un grande potenziale economico, una serie di transizioni politiche incerte, e certamente i tanti focolai di conflitto e rischi di incubazione di movimenti terroristici. L’Africa contiene quasi certamente alcuni dei paesi (o delle sub-regioni) emergenti della prossima generazione, e non a caso molti attori esterni, fra cui la Cina e il Brasile, stanno attivando contatti e progetti economici.
E’ anche per questa ragione che un approccio continentale dell’Europa – che includa la dimensione mediterranea ma vada oltre – è diventata urgente. E’ qui, più che nel rapporto peraltro indispensabile con l’area asiatica del Pacifico, che l’Ue potrà fare una differenza.

Verso la visione di un bacino dell’Atlantico
L’esigenza di riflettere su questa scala, continentale, mi porta a un’ultima riflessione, che rivolgo direttamente al Brasile: al vostro paese come possibile protagonista di una relazione transatlantica adattata ai nuovi equilibri globali.
Storicamente, il legame atlantico è stato in effetti “nord-atlantico” – basti pensare all’acronimo “NATO”. Questa visione appare oggi parziale rispetto ai processi economici, politici e culturali in atto su entrambe le sponde dell’Atlantico. Va presa quindi in considerazione una prospettiva più ampia: quella dell’intero bacino atlantico, con l’inclusione della sua metà meridionale. Come suggeriscono studi recenti, esistono fattori oggettivi che spingono in questa direzione: la crescita del ruolo internazionale del Brasile è naturalmente decisiva; possiamo aggiungervi il potenziale energetico dell’Africa occidentale e l’altro polo emergente rappresentato dal Sud Africa.
Esiste una condizione favorevole di partenza: a differenza del Medio Oriente o anche della regione del Pacifico, l’Atlantico del Sud non è scosso da crisi ricorrenti e da forti fonti di instabilità. Le tensioni esistono, naturalmente: dai rapporti problematici fra Stati Uniti, Cuba e Venezuela, alla controversia fra Marocco e Algeria, guardando alla nostra sponda, sul Sahara occidentale. Ma resta che i conflitti interstatali, dalla fine della guerra delle Falkland in poi, non costituiscono un fattore centrale dello scenario mega-atlantico; mentre le sfide riguardano piuttosto la sicurezza non convenzionale, in particolare la sicurezza marittima o ambientale.
In breve: la mia tesi è che le relazioni transatlantiche, invece che essere considerate superate, vadano riconsiderate, allargandone il raggio verso Sud. Questa nuova proiezione renderebbe più utile, anche agli Stati Uniti, l’alleanza strategica sia con l’Europa che con il proprio emisfero. E al tempo stesso consentirebbe all’Europa di rafforzare le proprie relazioni con i paesi dell’America Latina. L’America Latina è oggi un continente completamente trasformato. Malgrado contraddizioni e diseguaglianze oggi non ci appare più come una terra dimenticata e vinta dalla globalizzazione ma come un continente protagonista sulla scena mondiale. Bisogna sottolineare che questo mutamento sia sotto il profilo dello sviluppo economico e sociale, sia sotto il profilo della iniziativa politica è stato fortemente determinato dalla leadership esercitata dal Brasile. È dunque interesse dell’Europa rafforzare i suoi legami con l’America Latina. Ma anche il vostro continente ha un interesse analogo; non solo per bilanciare la forza delle relazioni con gli Stati Uniti e di quelle crescenti con l’Asia; ma anche perché l’esperienza europea potrebbe aiutare l’America Latina a muovere positivamente sul piano della integrazione politica ed economica. Negli ultimi 4 anno la spesa militare è cresciuta in America Latina del 91%: un dato impressionante che è indicatore del peso che hanno nazionalismi, litigiosità e conflittualità che ancora condizionano negativamente la vita del continente. Certo dare slancio senza retorica ai processi di integrazione spetta in primo luogo alle leadership latino-americane (e noi sappiamo quanto impegno vi abbia speso il Presidente Lula). In questo senso voglio sottolineare il ruolo positivo e innovativo svolto da UNASUL, organizzazione fondata due anni fa qui a Brasilia con il compito di favorire e migliorare le relazioni internazionali nell’America del Sud. La collaborazione con l’Europa può certamente favorire e sostenere tali processi. Più in generale è importante che cresca sul piano internazionale la cooperazione anche per limitare i rischi che si creino blocchi regionali chiusi.
Più in generale, i protagonisti del nuovo “atlantismo meridionale” avranno il vantaggio di potere utilizzare le esperienze di integrazione nei nostri due continenti (dall’Ue al Mercosur) e della cooperazione nella NATO.

Debolezza e forza
Devo scusarmi con voi: sono partito dai molti motivi di debolezza dell’Europa di oggi e arrivo a proporre, attraverso la politica estera, un’Europa forte e lungimirante per domani, capace di cogliere lo spirito e le sfide dei tempi.
Questa traiettoria, d’altra parte, rispecchia esattamente il mio pensiero: l’Europa non ha ancora perso la sua partita. Può ancora giocare delle carte importanti – fra cui le carte che ho cercato di indicare.
Anzitutto bisogna che noi europei ci rendiamo conto che una maggiore unità politica del nostro continente è prima ancora che una scelta una necessità se l’Europa vuole avere un peso importante nei nuovi equilibri mondiali. Il mondo del G8, come abbiamo detto, è finito. L’orgoglio nazionalista delle vecchie potenze europee rappresenta la nostalgia di una realtà che non c’è più e non certamente una opportunità per il futuro. Occorre allora muovere coraggiosamente verso l’integrazione. Non propongo un nuovo dibattito sulla Costituzione europea, ma chiedo il coraggio di utilizzare pienamente le possibilità nuove che si presentano oggi all’indomani dell’approvazione del Trattato di Lisbona.
Guardiamo insieme a tre punti, rapidamente.
Primo: il Trattato di Lisbona consente – cioè non preclude – una migliore capacità di operare sul piano internazionale. Non la garantisce, e finora è stato utilizzato poco e male a tale fine; ma la rende possibile. Uno degli obiettivi fondamentali e condivisi del Trattato era di ridurre la eccessiva frammentazione della nostra rappresentanza esterna almeno in occasione degli incontri ai livelli più alti. Come forse saprete, le cose stanno andando in un altro modo, con il rischio di una sovrapposizione tra la presidenza della Commissione, la presidenza permanente del Consiglio, e l’Alto Rappresentante. Probabilmente, si sarebbe dovuto avere il coraggio di unificare la presidenza della Commissione e quella del Consiglio: non è stato fatto, ma una razionalizzazione di questo genere finirà per esserci imposta dai nostri interlocutori esterni.

Secondo: da anni si sostiene da più parti che la UE dovrebbe darsi una voce unitaria in tutti i consessi internazionali, e soprattutto nelle Istituzioni Finanziarie Internazionali, alla luce del peso economico dell’Europa e del grado di integrazione tra le nostre economie nazionali. Una rappresentanza unitaria conferirebbe davvero alla UE un ruolo negoziale di cui oggi è priva. Il problema, ben noto, è che all’atto pratico questo passaggio di consegne vede contrari gli Stati nazionali europei che si trovano tuttora sovra-rappresentati rispetto al proprio reale peso. La situazione, tuttavia, sarà sempre meno accettabile e giustificabile man mano che si procederà alla riforma delle IFI e dei sistemi di voto. In altri termini: volente o nolente, l’Europa arriverà a questo esito.

Terzo: giocano i vincoli di bilancio. E i vincoli sono tali che renderanno probabili sviluppi concreti verso la “Difesa europea”: Difesa che, viste le sfide di sicurezza attuali, significa soprattutto capacità comune di proiezione delle forze. La Difesa come economia di scala, quindi. Ma con degli spin-off politici molto rilevanti.
Perché è importante la Difesa europea? Perché è la condizione per mantenere un’alleanza funzionante con gli Stati Uniti. La condizione, infatti, è un’Europa in grado di assumersi le proprie responsabilità: non più dipendente dagli Stati Uniti ma meno, non più debole ma più forte.
Si aggiunge un motivo ulteriore: l’Europa funziona, da sempre, sulla base di progetti comuni. Ricorderete che il progetto di una Comunità europea di Difesa fu bocciato dall’Assemblea nazionale francese proprio agli esordi del processo di integrazione europea. Se oggi ci fossero dei progressi veri – peraltro previsti dal Trattato di Lisbona - la difesa europea diventerebbe il simbolo di un rilancio dell’Unione: del passaggio, se volete, dall’Europa regionale del secolo scorso all’Europa globale di cui abbiamo bisogno.
Infine, un passo del genere servirebbe a superare la distinzione – abbastanza artificiale, in realtà - tra soft power e hard power sul piano internazionale. Per amore del proprio soft power, l’Europa rischia di perderlo; a furia di descriversi come potenza civile, l’Ue sarà certo civile ma non sarà una potenza.

In conclusione, un’Europa forte sarebbe un vantaggio per gli europei ma anche per la gestione degli equilibri globali. L’Ue non è condannata a fallire, come attore internazionale. Tutto dipende dalla forza della politica. È stato scritto che mentre le policies si sono trasferite dai governi nazionali verso Bruxelles la politics è rimasta nelle diverse capitali europee. Sembra a me che proprio questo sia il difetto del processo di integrazione: molte politiche e anche molta burocrazia, poca leadership politica e visione. Lo si è visto anche nella recente vicenda delle nomine europee quando è apparso chiaro che i capi dei singoli governi nazionali non avevano interesse a rafforzare le nuove istituzioni dell’Unione. Senza leadership europea senza un’opinione pubblica europea e forti partiti politici europei il processo di integrazione manterrà l’immagine poco attrattiva di una grande struttura tecnico-burocratica, certamente utile e per certi aspetti indispensabile, ma priva di quella forza ideale e di quella capacità di coinvolgimento senza i quali non è possibile un grande mutamento politico. Eppure l’Europa dei nostri padri, all’indomani della tragedia della Seconda Guerra Mondiale, ebbe proprio la forza di un grande progetto, di un grande sogno condiviso. L’Europa del dopoguerra è cresciuta soprattutto come risposta alle tragedie del passato e come necessità di ricucire le ferite che avevano lacerato il nostro continente. Anche dopo il 1989 l’allargamento dell’Unione Europea è stata la grande risposta al dramma della Guerra Fredda che aveva diviso gli europei per quasi cinquant’anni. L’Europa di oggi e di domani si misurerà soprattutto per la sua capacità di rispondere alle grandi sfide globali, più che di offrire soluzioni ai suoi conflitti interni. La costruzione di un ordine di pace, la grande sfida dello sviluppo e della difesa dell’ambiente, la lotta alla povertà hanno bisogno di un’Europa forte capace di superare ogni tentazione di chiusura conservatrice, di egoismo nazionalistico. Dovrebbe essere questo l’orizzonte di una nuova forza progressista europea capace di muovere oltre l’esperienza dei riformismo nazionale del secolo scorso, capace di sconfiggere la paura che rafforza le destre in tanti paesi europei restituendo ai cittadini del nostro continente l’orgoglio del nostro patrimonio di civiltà e la capacità di guardare al futuro con speranza

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