Discorso
10 marzo 2010

"La laicità nella politica" - Intervento di Massimo D'Alema - Istituto Luigi Sturzo, Roma

Questo testo è stato pubblicato dalla rivista "Reset", numero 119, maggio-giugno 2010


Il tema della laicità mi appassiona molto, me ne sono occupato in diverse circostanze, sia personalmente sia attraverso il lavoro della Fondazione Italianieuropei. Ho affrontato la questione della laicità in uno stimolante dialogo con Giulio Tremonti pubblicato da Aspenia, e in altre occasioni, anche grazie alla cortesia di personalità della Chiesa che mi hanno invitato a discutere di questi temi, come è avvenuto recentemente con il cardinale Ruini alla presentazione del libro di Marcello Pera.
È un tema appassionante e cruciale nella vita pubblica del nostro Paese. Personalmente non mi sono mai riconosciuto in un laicismo furioso. Anzi, le mie radici appartengono a quella parte della sinistra che esordì nell’Italia democratica votando l’articolo 7 della Costituzione, suscitando per questo qualche contrarietà. Una sinistra che ha sempre considerato la presenza del mondo cattolico in Italia come fondamentale, in quanto risorsa etica e anche fattore di coesione. E se pensiamo all’Italia di oggi, sappiamo bene quanto ci sia bisogno dell’una e dell’altro.
Vorrei riprendere alcuni spunti emersi negli interventi dei professori Alessandro Ferrara, Sergio Berardinelli e Rocco Buttiglione, e sottolineare quanto, in effetti, il fenomeno di rinascita religiosa sia importante. Credo che la religione non abbia mai abbandonato lo spazio pubblico ed è forte il peso che essa è venuta assumendo, non solo nell’Occidente, nell’influenzare le scelte degli Stati e dei governi. Un fenomeno del nostro tempo che dimostra come la fede religiosa non è destinata a tramontare. Religione e modernità convivono, in un rapporto che segna il mondo globale e post secolare.
Si è parlato della caduta del muro di Berlino, Giancarlo Bosetti è tornato sui temi della desertificazione, della crisi delle ideologie e delle motivazioni etiche. Tutto ciò riguarda certamente un aspetto della questione, ma non la esaurisce. C’è un secondo aspetto, infatti, che riguarda la globalizzazione. Essa, ponendoci tutti dentro un mondo e uno scenario unificati, ben lungi dal produrre un’omologazione culturale, ha sviluppato una società dominata dai valori del mercato. E a mio parere qui risiede la grande crisi degli ultimi 15 anni.
Voglio dire che l’ultima ideologia del ‘900 non è stata né la socialdemocrazia né il comunismo, ma il neoliberismo, cioè l’idea che l’unificazione del mondo, dominata dal mercato, avrebbe prodotto una drastica semplificazione dei modi di pensare e di consumare. Invece, questo fenomeno ha generato una reazione contraria, suscitando un bisogno di identità che si è espresso in forme diverse: richiamo al territorio, alle radici, alla patria, al sangue, alle religioni.
Non bisogna, però, dimenticare un altro grande aspetto della modernità, ovvero l’incrinarsi della fiducia nel progresso tecnico e scientifico, il senso di insicurezza e di paura che ha generato nelle persone la sensazione che l’uomo potesse farsi Dio e manipolare la vita umana. L’insorgere del problema di un limite etico, che ha assunto, a mio avviso, anche forme pericolosamente antiscientifiche, muove sicuramente da una preoccupazione condivisibile, anche dal punto di vista di un umanesimo non religioso come quello in cui mi riconosco.
Naturalmente, il ritorno delle religioni in questa chiave non è soltanto risorsa etica e fattore di coesione. Credo, infatti, che se allarghiamo l’orizzonte non possiamo non vedere il carattere fortemente problematico e contraddittorio di questo processo, che è anche fattore di divisioni e conflitti. In questi 15 anni abbiamo assistito al ritorno delle guerre di religione, di massacri religiosi. Tutto ciò non risparmia neanche l’Europa (penso in particolare ai Balcani). dove episodi di intolleranza tra ortodossi, cattolici e musulmani ci segnalano una crescente conflittualità tra diverse fedi e confessioni religiose.
Inoltre, la crisi di quella mediazione laica che aveva i suoi fondamenti nella cultura e nella tolleranza ha anch’essa prodotto fenomeni complessi e contraddittori, fino al rischio che dal conflitto religioso scaturiscano nuovi scontri di civiltà. Lo dico perché questo comporta un problema delicato e un rischio per il cattolicesimo che, più di ogni altra religione, è portatore di un messaggio universale. Il cattolicesimo aspira all’unità del genere umano, ma rischia così di confinarsi a religione dell’Occidente. Come tale, infatti, è stato interpretato dalla destra europea: le nostre radici, la nostra identità, in conflitto con altre religioni e altre civiltà. Se il cattolicesimo accetta di confinarsi in questo ruolo perde qualcosa di se stesso. Credo che il precedente papato ne avesse una forte percezione, non so in che misura ne abbia l’attuale.
Da presidente del Consiglio ebbi modo di incontrare Giovanni Paolo II. Un dialogo personale che per me ha rappresentato un’esperienza indimenticabile. Egli dimostrò la sua assoluta noncuranza verso tutti i temi legati alla routine del rapporto tra Stato italiano e Chiesa cattolica (ora di religione, finanziamento delle scuole ecc.), e un’appassionata preoccupazione per il futuro del mondo. Egli riteneva che la caduta del comunismo, in quanto perdita di elementi di speranza, creasse un vuoto che la Chiesa era chiamata a riempire. Non si riferiva certo al comunismo realizzato, ma all’ideale di liberazione umana che esso rappresentava. Insomma, il precedente Pontefice esprimeva una visione estremamente suggestiva e tutt’altro che confinata all’idea di un’identificazione tra cattolicità e Occidente. Un’idea, questa, che a mio giudizio è molto povera e pericolosa.
Viviamo in un mondo in cui ciascuna delle nostre società tende a divenire sempre più multireligiosa, ponendo così una nuova sfida al governo del fenomeno. Ad esempio, in Italia la comunità islamica, che non riusciamo a identificare come tale e che quindi non riesce a diventare interlocutore di un patto, rappresenta circa tre milioni di persone. Insomma ci troviamo di fronte a società, da questo punto di vista, progressivamente più complesse.
Questo quadro, di cui ho evidenziato solo alcuni aspetti, dimostra, a mio parere, che c’è un gran bisogno della politica. L’impoverirsi della mediazione politica, infatti, alimenta il rischio di quei conflitti di religione e di civiltà che abbiamo richiamato.
Tuttavia la politica non può essere autarchica, non può trovare soltanto in se stessa quella legittimazione senza la quale esaurisce il proprio ruolo. Ma non può essere intesa neanche nel senso approfondito dall’attuale Pontefice sia nel suo dialogo con Habermas che in altri interventi, laddove si ritiene che la convivenza abbia bisogno di un fondamento religioso e dunque che lo Stato democratico, privo di esso, perda la sua legittimazione etica. Non credo a questa formulazione.
Che lo spazio dei non credenti sia soltanto quello di dovere agire come se Dio vi fosse, mi pare un’offerta molto povera. Probabilmente, altrettanto povero è rispondere al credente dicendo che il patrimonio etico in cui si fonde la nostra società starebbe in piedi anche senza l’elemento religioso. Entrambe queste versioni, oggi, non sono sostenibili: non regge un’idea del fondamento della convivenza che prescinde dall’elemento religioso, così come non regge l’idea che a garantire un fondamento etico alla convivenza sia la religione, senza la quale lo Stato perde di legittimità.
La risposta è probabilmente più complessa. È la ricchezza del discorso pubblico, di un livello che non rappresenta né la vecchia dimensione privata – e d’altra parte nessuno ha mai pensato che la religione fosse esclusivamente un fatto privato – né la sfera istituzionale. È quel discorso pubblico che, per poter fondare la politica, deve essere ricco di elementi etici. Una laicità inclusiva è appunto quella che considera la religione come uno dei fondamenti del discorso pubblico. Insomma, la laicità non va intesa come qualcosa di distinto e contrapposto alla religione. Il discorso pubblico laico la include.
In un Paese come il nostro, il cattolicesimo, nelle sue diverse forme ed esperienze di azione pubblica e sociale e di convinzioni etiche, ne è un elemento fondamentale. Non vedo un discorso pubblico laico che non comprenda il cattolicesimo italiano come una delle componenti forti e imprescindibili. Tutto questo, naturalmente, purché i cattolici abbiano la pazienza di non ritenersi depositari esclusivi dell’etica. D’altro canto, la vita di ogni giorno ci dimostra che il credere in Dio non è né fondamento esclusivo e neppure certo di comportamenti etici. È importante che i credenti rinuncino alla convinzione di avere il monopolio dell’etica. C’è un umanesimo non religioso che ben può essere fondamento di comportamenti pubblici e privati virtuosi.
Quando poi la politica è costretta a misurarsi con i temi più delicati – che riguardano la vita, la morte, la bioetica e la sfera personale –, di questo discorso pubblico laico, ma eticamente responsabile e che include come elemento fondamentale il patrimonio religioso, fa certamente parte anche la cultura scientifica.
Non c’è dubbio che lo sviluppo della scienza sposti la frontiera del confronto. Ad esempio, la Chiesa a un certo punto si è resa conto che, per l’espianto degli organi, era sufficiente la morte cerebrale. E, anzi, che ciò che nel passato era ritenuto lesivo della sacralità della vita, poteva diventare prezioso proprio al fine di difenderla. La Chiesa si misura e deve misurarsi con il progresso scientifico.
Da questo punto di vista, la questione è come sia possibile trovare dei compromessi e avanzare sulla base di un reciproco riconoscimento di valori tra queste tre componenti (pensiero laico, religione e scienza). Condividendo il principio di cautela, bisogna partire da un’idea di limite della politica di fronte a tali questioni, soprattutto della politica intesa come attività istituzionale e legislativa. La legge è il rimedio estremo. In questo senso, sono tra coloro che pensano che non ci sia bisogno di nessuna legge sul “fine vita” e sul difficile rapporto tra malati, famiglie e medici. Sarebbe stato enormemente più saggio non impegnare il Parlamento in questioni così complesse. Ecco l’importanza di quel discorso pubblico, anche fuori dalle istituzioni. È lì che si forma una coscienza morale del Paese rispetto alla quale – ripeto – la legge è la risorsa estrema.
Allo stesso modo, ritengo necessaria una propensione a “de-ideologizzare” questo genere di confronto. Trovo il “richiamo alla verità” suggestivo ma inquietante. Credo, piuttosto, nella ricerca di ragionevoli intese.
A questo proposito, vorrei dire a Giancarlo Bosetti, che ha duramente attaccato i laici, che io sono persino più clericale di lui. Penso, ad esempio, che in un Paese come l’Italia non si debba fare, come è successo in California, il referendum sul matrimonio omosessuale. Nel nostro Paese, infatti, c’è un articolo della Costituzione che sancisce che il matrimonio è una società naturale in cui si uniscono un uomo e una donna. Ritengo, però, che sia altrettanto sbagliato e incivile proibire a due persone dello stesso sesso, che si amano e convivono, di poter avere una serie di diritti civili riconosciuti alle coppie eterosessuali unite in matrimonio. Allo stesso modo, giudico un’assurdità, in un Paese in cui esiste l’aborto terapeutico, proibire l’esame preimpianto degli embrioni nella fecondazione assistita in nome della difesa della vita, con il rischio che, successivamente, la donna cui è stato impiantato un embrione portatore di una malattia, debba abortire.
Dunque, ci può essere un ragionevole punto di incontro, se prevale un principio di carità verso gli altri anziché il fanatismo e l’intransigenza della verità. Siamo nei limiti del buon senso e non del laicismo furioso. Purtroppo, qualche volta questi elementi di buon senso hanno trovato rigidità dall’altra parte. E parlo del buon senso di persone che, come me, sono profondamente rispettose dei valori di cui il mondo cattolico si fa portatore. Domando allora: perché dall’altra parte non c’è sempre stata la forza del buon senso?
Il punto è ancora una volta politico. Ciò che si è enormemente indebolito, nel nostro Paese, è quella “traduzione” che una volta veniva fatta dai partiti e che ha consentito il sorgere, in Italia, di una forte mediazione tra l’esperienza religiosa, intesa nella sua potenza e autonomia, e il cattolicesimo politico come grande esperienza laica.
Si è trattato di una grande lezione di laicità. Ed è stata la crisi di questa traduzione, il venir meno di questa mediazione, garanzia straordinaria della laicità della politica, a determinare il conflitto diretto tra i diversi elementi.
Nessuno può vagheggiare che si ricostituisca la Democrazia Cristiana. Il problema è che i cattolici in politica, inevitabilmente impegnati in diversi e talora contrapposti partiti, sappiano essere loro i protagonisti di questa “traduzione” dei valori religiosi nella pratica laica dell’agire politico.
Si tratta di una questione cruciale.
Grazie.

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