Discorso
13 novembre 2009

Il senso più alto dell’impegno politico - Commemorazione di Benigno Zaccagnini

Intervento in occasione del convegno "Riflettere su Zaccagnini" - Ravenna, Teatro Rasi


Ringrazio molto per essere stato invitato a partecipare a questo convegno così ricco di toccanti testimonianze. E desidero rivolgere anch’ io il mio saluto soprattutto alla signora Anna, alla famiglia Zaccagnini e alle Autorità della Città di Ravenna, della Regione e ai tantissimi presenti fra cui tanti amici e vecchi compagni.
Non credo di potere aggiungere nulla alle testimonianze personali, anche se non c’è dubbio che la storia della mia famiglia si intreccia con la storia della famiglia Zaccagnini. La mia è una famiglia di piccola borghesia meridionale, trapiantata a Ravenna nel 1915, quando mio nonno fu trasferito qui come direttore scolastico. In questa città è nato mio padre, sono cresciuti lui e i miei zii, erano vicini di casa della famiglia Zaccagnini: mio padre andava a scuola insieme a Don Pippo, che è suo coetaneo: se fosse vivo, mio padre avrebbe 92 anni, come Don Pippo oggi.
Mio padre e Zaccagnini si vedevano negli anni del fascismo. Mio padre non era cattolico, ma frequentava quegli stessi circoli della FUCI, quegli stessi ambienti dove la Chiesa ravennate alimentava un sentimento antifascista. Non in tutta l’Emilia la Chiesa fu antifascista, ma a Ravenna lo era.
Insieme entrarono nella Resistenza, con Arrigo “Bulow” Boldrini. Zaccagnini – come è stato ricordato – aveva come nome di battaglia “Tommaso Moro”, mio padre “Alberto”. In una prima fase lottarono fianco a fianco, poi, durante la Resistenza, si allontanarono: mio padre fu mandato a Ferrara, distaccato dalla ventottesima brigata, per cercare di riorganizzare la Resistenza, perché lì il vertice dell’antifascismo era stato decapitato dalla repressione nazifascista. Ma la loro fu un’amicizia che non si spezzò mai, un legame personale: persino, direi, da parte di Zaccagnini, un’affettuosa sollecitudine.
In proposito vorrei ricordare qualcosa di personale. Mio padre era funzionario del Partito Comunista, faceva parte di coloro che si erano formati nella Resistenza e che quindi venivano mandati nel Veneto, in Liguria o altrove. In occasione di tutte le sue peregrinazioni, la mia famiglia doveva fare i bagagli e partire. Ma c’era il problema di trasferire mia madre, impiegata dell’INAM. A questo provvedeva Zaccagnini, appunto con affettuosa sollecitudine.
Ho qualche lontano ricordo della signora Anna. Anch’io andai – ma ero un ragazzino – nella loro casa sull’ Appennino, che non era molto lontana da quella a Casola Valsenio dove una mia zia faceva la maestra. Insomma, anche se poi, come è naturale, l’esistenza ha portato queste due famiglie a perdersi di vista, hanno una storia comune. C’è un intrecciarsi delle nostre vite in quel momento così importante della storia d’Italia, quando si formò una generazione nell’ antifascismo e poi nella Resistenza. La generazione che, con diverse responsabilità e anche da opposte posizioni politiche, guidò tuttavia il Paese nel dopoguerra.

Dal conflitto all’incontro per le riforme

Non c’è dubbio che quel bipolarismo tra comunisti e democristiani, che fu tutt’altro che quella storia consociativa che è stata poi ricostruita, si sviluppò in un contesto aspro, segnato dalle diversità e dai conflitti che attraversavano il mondo al tempo della guerra fredda. Quel bipolarismo, tuttavia, fu temperato dal fatto che coloro che lo impersonavano si riconoscevano nei valori e nei principi costituzionali. La forza della Costituzione, infatti, sta proprio in questo: la Carta tradusse in valori e in principi una comune esperienza politica e umana, una comune passione per la libertà formatasi nel tempo dell’antifascismo e della Resistenza.
Le democrazie mature conoscono una conflittualità politica che spesso è molto aspra, ma che non mette mai in discussione il bene comune, perché si fonda su valori e principi condivisi. La fragilità del bipolarismo che vediamo oggi consiste nell’assenza di questa base di valori e principi, per cui, certo, ha ragione Bruno Tabacci quando dice: «Bisogna aggrapparsi alla Costituzione come fondamento della convivenza tra gli italiani. Se ne possono certamente mettere in discussione aspetti di natura funzionale, organizzativa, ma non i principi fondamentali».
Nel corso della mia lunga vicenda politica mi ritrovai, con responsabilità ovviamente del tutto diverse e minori, ad incrociare la vita e l’esperienza di Zaccagnini nel cruciale periodo che va dal ‘75 fino al ’79. Zaccagnini divenne Segretario di una Democrazia Cristiana al momento del suo improvviso oscurarsi, all’indomani della sconfitta elettorale del ’75. Ma in realtà non si può parlare neanche di un evento improvviso, perché era il frutto di una vicenda che aveva sconvolto la società italiana a partire dal ‘68. Nell’emergenza determinata dall’esito di quelle elezioni amministrative, Zaccagnini fu chiamato alla segreteria. E in quello stesso anno, per una coincidenza, divenni Segretario dei giovani comunisti, partecipe, quindi, della vicenda politica italiana. Il Segretario dei giovani comunisti prendeva parte alla direzione del partito…Ma non era come ora. Ci misi sei mesi a trovare il coraggio di prendere la parola in un contesto dove sedevano non più di venticinque persone, alcune delle quali sono un pezzo della storia del Paese: Terracini, Amendola…Sia pure con le timidezze del tempo, fui testimone e partecipe, per certi aspetti, di una stagione straordinaria e drammatica della vita politica italiana.
Penso infatti che quello sia stato il momento ultimo in cui la Repubblica dei partiti ha dato i suoi frutti. Successivamente, è come se si fosse esaurita la spinta propulsiva di quella stagione democratica e comincia un periodo in cui le strutture si corrodono, fino alla grande crisi degli inizi degli anni ‘90.
Quella stagione, segnata tragicamente dal rapimento e dall’assassinio di Moro, fu insieme – lo ripeto – drammatica e straordinaria. Noi, con la Fondazione che presiedo, lo abbiamo fatto qualche tempo fa, ma le grandi riforme del 1978 si ricordano molto poco. Pensiamo, ad esempio, a cosa rappresenta la riforma sanitaria in quegli anni che vengono chiamati “di piombo”. Certo, lo furono, ma fu anche un periodo in cui l’incontro tra le grandi forze democratiche produsse riforme fondamentali per il nostro Paese.

Al timone nella tempesta del caso Moro

Ricordo quella mattina in cui Moro fu rapito. So – e vi sono testimonianze di questo – che anche Zaccagnini era molto deluso per la composizione del Governo che doveva segnare una svolta nella “solidarietà nazionale”, e so per certo che era fra quanti speravano che si potesse fare un passo in avanti, più coraggioso, magari aprendo l’esecutivo alla partecipazione di tecnici rappresentativi, in qualche modo, di un maggior impegno del Partito comunista. E qui, nel gruppo dirigente del Partito comunista, erano fortissime le perplessità su quel passaggio. Alla fine, anche Moro e Andreotti vollero optare per una soluzione che garantisse innanzitutto l’unità della Democrazia Cristiana.
Ma quella discussione non ci fu, perché il rapimento di Moro impresse una svolta drammatica alla vita politica. Rammento l’intervento di Giorgio Amendola alla direzione del Partito comunista. Parlò pochissimi minuti e disse: «Io vi avrei proposto di non votare la fiducia a questo governo, ma adesso dobbiamo votare subito» e soggiunse: «Si porrà un problema drammatico: se lo Stato democratico possa o no trattare con le Brigate Rosse».
Lo disse allora, era la mattina del rapimento.
Poi seguirono quei lunghi giorni e tutti sanno come Zaccagnini visse la vicenda in modo umanamente lacerante. Credo che oggi possiamo rendere giustizia alla memoria di questi uomini. In un bellissimo libro, un giovane storico, Miguel Gotor, non solo ci ha dato l’edizione autentica – a mio giudizio, di straordinario rilievo filologico – delle lettere dalla prigionia di Moro, ma ha anche scritto un saggio che fa giustizia di molte discussioni, nel quale si capisce benissimo, attraverso la ricostruzione attenta di quei fatti, come in realtà le Brigate Rosse non abbiano mai avuto la volontà di fare seriamente una trattativa e, d’altra parte, si capisce anche che tutto ciò che era ragionevole tentare fu tentato.
Zaccagnini fu tutt’altro che uno spettatore passivo di quella vicenda. Egli si sforzò in tutti i momenti di contemperare l’esigenza della difesa dello Stato democratico con lo sforzo di fare tutto ciò che era possibile fare, umanamente e politicamente, per salvare la vita di Moro.
Questa è la verità, e lo dico perché molte polemiche successive ebbero un carattere strumentale. D’altro canto Zaccagnini non esitò neppure, di fronte alla necessità, di esplorare le vie indicate dalla segreteria del Partito Socialista ma che, in realtà, non avevano quella consistenza che si voleva far credere che avessero.
Credo che il fatto che la Solidarietà nazionale non abbia saputo aprire quella terza fase a cui pensava Moro, l’esaurirsi di quella stagione con un ripiegamento moderato della Democrazia Cristiana e con un arroccamento del Partito Comunista, abbia posto fine al tentativo coraggioso di una collaborazione tra le grandi forze democratiche (allo scopo di ricercare nei principi e nella rappresentanza sociale le ragioni di una forza). E credo che abbia chiuso una stagione politica, avviando un processo che poi, nel corso degli anni, porterà a quel collasso della democrazia dei partiti, a quell’irrompere dell’antipolitica da cui prende origine la stagione che stiamo vivendo.

La DC non è il polo moderato»

Se riflettiamo e guardiamo in modo non strumentale l’insegnamento di quella stagione e di quegli uomini, in particolare, oggi, di Benigno Zaccagnini, noi ritroviamo messaggi la cui validità oggi ci appare, per certi aspetti, persino rafforzata.
Rileggendo alcuni scritti di Zaccagnini, in particolare il discorso che egli fece al Consiglio nazionale della Democrazia Cristiana nel ‘75, disegnando il ruolo, la funzione della Democrazia Cristiana, trovo straordinari due passaggi. Innanzitutto, laddove egli respinge l’idea che in una democrazia bipolare la Democrazia Cristiana possa accettare di essere puramente e semplicemente il polo moderato dello schieramento politico italiano. Affrontando esplicitamente il tema di un’evoluzione verso il bipartitismo, egli difende il carattere popolare della Democrazia Cristiana, la sua apertura alle istanze di rinnovamento sociale, respingendo una Democrazia Cristiana intesa, appunto, come forza moderata e conservatrice, e, citando Don Primo Mazzolari, afferma: «Non possiamo accontentarci, in politica, di essere cristiani solo quel poco che ci verrà concesso dagli interessi e dai pregiudizi dei nostri protettori borghesi».
Ora si capisce come un partito che avesse questa complessa natura non poteva reggere la semplificazione del bipolarismo, perché portava in sé, inevitabilmente, i germi del lato moderato e del lato progressista dello schieramento politico. In esso Zaccagnini, in modo, direi, esplicito, rappresenta certamente l’anima della Democrazia Cristiana predisposta a diventare parte di una componente progressista della società italiana. E’ vero che egli riaffermò sempre, con grande correttezza, l’idea della diversità e del confronto con i comunisti, il rifiuto della prospettiva del compromesso storico. Tuttavia, se questa diversità era basata indubitabilmente sul rifiuto del Marxismo e sulla chiara consapevolezza della diversa visione del mondo, non lo era, invece, su una diversa visione di natura sociale e programmatica. Anzi, sotto questo aspetto la sua apertura verso le idee e gli apporti dell’opposizione era assai forte e più volte dichiarata.

I cattolici nella laicità dello Stato

Il secondo punto che mi sembra di straordinaria attualità è l’orgogliosa riaffermazione della laicità dello Stato, del carattere laico dell’impegno dei cattolici nella vita politica, il rifiuto di ogni riproposizione dell’idea di un partito cattolico, che già i popolari avevano respinto e che, a maggior ragione – eravamo negli anni ’70 – deve essere rifiutata nella modernità.
La laicità non è intesa come rinuncia ai valori, anzi. Infatti dice: «Penso che la società italiana di questi anni abbia bisogno, forse più di ieri, dell’opera politica di cattolici di fermi principi democratici. Cattolici educati alla lezione di Maritain, cattolici che fanno della democrazia il loro valore di riferimento» .
Questo incontro tra tradizione cattolica e fede democratica non è stato semplice, ma certamente Zaccagnini è parte di quel mondo intellettuale, politico e cattolico, che ha fatto della fede democratica un principio cardine del proprio impegno politico.
Questa riflessione si muove in parallelo con quella di Moro. A questo proposito, c’è un suo straordinario discorso, all’indomani del referendum sul divorzio, al Consiglio Nazionale della Democrazia Cristiana, nel quale la laicità dello Stato si accompagna a una rivendicazione orgogliosa del ruolo dei cattolici nella vita politica.
Moro disse – cito a memoria – che lo spirito del tempo consigliava i cristiani a testimoniare i loro valori con la forza dell’esempio, più che a pretendere di imporli con la forza della legge. E la Democrazia Cristiana – siamo nel 1978, Zaccagnini è Segretario – affrontò il dibattito sulla legge 194 con grande sofferenza, accettando di essere minoranza in Parlamento. Parliamo del partito cardine del Governo del Paese. Fu un ministro democristiano a promulgare quella legge: Tina Anselmi. Tutto questo rappresenta la testimonianza di una concezione laica della politica anche di fronte a una sfera così delicata e difficile per la coscienza cattolica più alta. Lo dico perché viviamo un tempo in cui tutto sembra essere rovesciato, in particolare per quanto attiene alla testimonianza dei valori. Testimoniando disvalori, si pensa di recuperare il rapporto con la gerarchia, magari negoziando su qualche legge. La lezione di chi difendeva la laicità dello Stato, invece, riaffermava orgogliosamente la necessità di politici cattolici in grado di testimoniare i propri valori. Mi pare una lezione di non piccola attualità, nel tempo in cui viviamo.
Però non vorrei adesso, come fa Tabacci, abbandonarmi alla nostalgia, anche se, qualche volta, la tentazione è forte. Credo che ripensare oggi a personalità come Benigno Zaccagnini dovrebbe quanto meno aiutarci a liberarci di quello che è stato, secondo me, un peccato originale della stagione che stiamo vivendo, anche sul piano culturale. Mi riferisco a quella retorica del nuovo inizio, a quella damnatio memoriae, a quella rilettura rozza della stagione che abbiamo alle spalle come segnata dalla corruzione, dal consociativismo. Ora non intendo passare all’eccesso opposto della nostalgia, però ritrovare un equilibrio, riallacciare i fili della memoria, questo sì.
A questo proposito vorrei rubare a Bersani la parola d’ordine “Dare un senso a questa storia”, cercare, cioè, anche di reimpiantare questi partiti nuovi nel solco della tradizione italiana. E’ una necessità del Paese. Un Paese che non ricostruisca il senso della sua vicenda storica, che non sappia ritrovare quel patrimonio di testimonianza, di valori e di idee che in modo così ricco sono presenti nella storia democratica dell’Italia repubblicana, un Paese, insomma, senza memoria, è un Paese senza futuro ed è un Paese senza valori.
Noi oggi avvertiamo qualche volta questo rischio.
E io credo che riandare con la memoria a personalità come Benigno Zaccagnini ci aiuti ad evitare questo rischio e a ritrovare il senso più alto dell’impegno politico.
Grazie

stampa