Discorso
17 ottobre 2010

ECOSY YOUTH EMPLOYMENT CONFERENCE - Il lavoro nel mondo nuovo,<br>una strada per i diritti del lavoro nel 21° secolo- Intervento di Massimo D'Alema<br><br><br><br><br>

Roma, Palazzo Rospigliosi


Non è mio compito chiudere la vostra conferenza, che è stata conclusa dalla dichiarazione che avete presentato. Un testo che sostengo e che sarà la base di una iniziativa, di cui l’Europa ha enormemente bisogno. Occorrono lotte come queste se vogliamo cambiare rotta, se vogliamo che l’opinione pubblica, le nuove generazioni siano in grado di condizionare le decisioni dei Consigli europei, a cominciare dal prossimo, chiamato ad assumere decisioni così importanti non solo per l’economia, ma per la vita dei cittadini.
La dimensione europea appare lontana, mentre deve diventare sempre più il luogo di una lotta politica. Questo comporta un impegno molto serio da parte dei progressisti anche quando sono al governo, non solo quando sono all’opposizione. Lo dico in modo autocritico, perché quando siamo stati al governo spesso abbiamo accettato cultura e impostazioni neoliberali. Quando siamo all’opposizione è più facile essere combattivi, e più difficile esserlo, e questo poi crea problemi.
È evidente a qualsiasi persona di buon senso che il problema del lavoro è la questione centrale che il mondo ha di fronte a sé. La crisi ci ha portato a una situazione nella quale vi sono 210 milioni di disoccupati e nei prossimi 10 anni, se si vorrà dare una risposta al bisogno di lavoro delle nuove generazioni, si dovranno creare 440 milioni di nuovi posti di lavoro. Altrimenti, dal punto di vista del suo rapporto con il lavoro, una intera generazione sarà perduta.
Questo ci dà le dimensioni della drammaticità della sfida che abbiamo di fronte a noi. Una sfida che non è soltanto europea in un mondo che cambia. Certo, l’espressione “il lavoro nel mondo nuovo” non vuol dire che bisogna aspettare un altro mondo per avere lavoro. Vuol dire che noi vogliamo lavoro nel mondo in cui viviamo oggi, sapendo che è un mondo in continua, tumultuosa trasformazione.
Da questo punto di vista, ad esempio, sta cambiando la collocazione dell’Europa, anche se forse gli europei non ne sono ancora consapevoli, pensando di poter mantenere certi privilegi. Per dare un’idea di quanto sta accadendo, cito alcuni numeri importanti per capire. Oggi l’Europa rappresenta circa un quarto della ricchezza mondiale. Di qui a trent’anni – ed è una data vicina, perché parliamo del 2040 – l’Europa rappresenterà poco più del 5%. Questo fa una differenza enorme, non solo quantitativa, ma politica e di qualità.
Come vivere questo grande cambiamento? come ripensare il ruolo dell’Europa in un mondo che sta così rapidamente sconvolgendo i tradizionali rapporti di forza? Queste sono le domande che ci dobbiamo porre e queste sono le prove che abbiamo di fronte.
La destra non ha una riposta, tuttavia utilizza la paura e l’insicurezza che gli europei vivono proprio a causa di questa trasformazione, eccitando questi sentimenti in chiave populista. Così facendo, essa determina l’illusione che sia possibile fermare il corso della storia, che noi possiamo difenderci dalla competizione cinese attraverso i dazi, dagli immigrati attraverso le motovedette che sparano sui barconi dei disperati e altre brutalità o sciocchezze di questo tipo.
Si tratta di politiche illusorie, non cambieranno il corso della storia del mondo, ma in questo modo noi rischiamo di perdere anche ciò che abbiamo di più prezioso: un patrimonio di valori e di civiltà che appartengono all’Europa, e che forse, oggi, è il contributo più alto che l’Europa possa dare al mondo che cambia.
Giustamente, l’Organizzazione Internazionale per il Lavoro ha detto che per affrontare questa sfida del lavoro occorrerebbe “un patto globale per l’occupazione”, ma oggi questo tema non è al centro del dibattito su come uscire dalla crisi. Piuttosto vi sono altri problemi.
Il mondo non è unito su come superare la crisi. In alcuni Paesi sono in atto politiche di sostegno alla crescita, e non è certo il caso dell’Europa. Tanto è vero che uno dei problemi più gravi, in questo momento, è rappresentato dal fatto che Paesi come gli Stati Uniti, che hanno una politica di sviluppo, non trovano nell’Europa un valido appoggio per condurla insieme.
Insomma, l’Europa non ha una strategia di rilancio. Ha una strategia per la stabilità, abbiamo regole, vincoli, meccanismi di intervento, ma non un patto per la crescita. Ha solo documenti, auspici. Punisce i Paesi che non rispettano la stabilità di budget, ma non ha che parole verso quelli che non creano nuovo lavoro.
C’è una sostanziale asimmetria a fondamento dell’Europa. Da un lato, vi sono il mercato unico e la stabilità monetaria, con le loro regole vincolanti. Dall’altro lato, però, a tutto ciò non corrisponde alcun patto per la crescita. Da questo punto di vista, l’Europa in questo momento è la grande assente nello scenario mondiale.
Vi sono anche delle ragioni politiche alla base di quanto sta accadendo, perché in fondo, oggi, tutti i grandi protagonisti della scena mondiale sono governati da forze progressiste, tranne l’Europa. Si dice che la crisi dovrebbe spingere a sinistra, ma questo non è sempre vero. In una certa misura lo è stato per tanti Paesi del mondo: sono i progressisti che guidano gli Stati Uniti, il Brasile, il Sudafrica, l’India, alla ricerca di nuove frontiere di sviluppo. Solo in Europa, invece, prevalgono le forze conservatrici e questo, naturalmente, si riflette anche sul contenuto delle scelte politiche dell’Unione.
Ora, credo che questo debba essere il terreno fondamentale della sfida da lanciare. Ciò vuol dire che abbiamo bisogno di un programma europeo di sviluppo e investimenti, che la vecchia idea di Jacques Delors di avere dei fondi di investimento europei finanziati attraverso gli eurobond torna a essere fondamentale. Non possiamo accettare l’equazione tra spesa pubblica e investimenti, due elementi molto diversi tra loro. Qualche giorno fa con Petroula Nteledimou eravamo a Washington insieme a Joseph Stiglitz, che giustamente ci ha spiegato come investire sugli assets non sia uno spreco di denaro, ma, al contrario, significhi accumulare ricchezza. Investire sugli assets vuol dire investire in ricerca, istruzione, grandi infrastrutture moderne. E l’Europa non ha un programma di questo tipo. Ha auspici, ma non vincoli, né obiettivi, né risorse disponibili.
Credo che questo dovrebbe essere un grande obiettivo dei socialisti e dei progressisti in Europa. Anche in questo senso è importante l’iniziativa a favore della financial transaction tax o di misure di carbon tax. Da questo punto di vista non dobbiamo lasciare che siano i conservatori a presentare queste proposte come se la sinistra, i socialisti e i progressisti volessero sempre più tasse, perché questo è quello che loro dicono di noi.
In realtà il vero problema è riequilibrare la pressione fiscale. Una delle questioni più serie che abbiamo di fronte nasce proprio dal fatto che la globalizzazione ha favorito uno sbilanciamento delle politiche fiscali. Questo perché il lavoro e le imprese sono dentro i confini nazionali per loro natura, e quindi sono facilmente target per politiche di tassazione. Il capitale, invece, è transnazionale per sua natura e quindi sfugge alla tassazione. Anzi, negli anni si è innescato un meccanismo di competizione, cioè di vantaggio fiscale per attrarre capitali, il che ha determinato una pesante asimmetria.
In un Paese come il nostro, se uno guadagna un milione di euro come frutto del suo lavoro, di lavoratore dipendente o di imprenditore, paga allo Stato circa la metà di quello che guadagna in tasse, ma se la stessa cifra viene guadagnata attraverso la speculazione finanziaria, si paga tra l’8 e il 12 % , il che è palesemente un’ingiustizia.
Questo meccanismo, secondo cui la pressione fiscale colpisce il lavoro e le imprese, ma non riesce adeguatamente a premere sui guadagni derivanti da proventi finanziari, è una delle fondamentali ragioni della crescente diseguaglianza.
Negli ultimi dieci anni, nella UE, in 20 Paesi sui 27, la quota di PIL relativa al lavoro è stata decrescente. Quindi noi non vogliamo più tasse, ma un sistema fiscale più equo: un sistema di tassazione orientato a favore della creazione di lavoro, che vuol dire tassare di meno il lavoro e detassare le imprese che lo creano.
Una delle misure più efficaci che noi abbiamo mai assunto in questo Paese a favore del Mezzogiorno è stata attuata dal governo di centrosinistra che ho presieduto. Si trattava dell’introduzione di una forma di favore fiscale per le imprese che assumevano un giovane con un contratto a tempo indeterminato. Una misura grazie alla quale negli anni 1999-2001 la crescita dell’occupazione nel Sud d’Italia è stata molto più alta della media nazionale. Una misura semplice a favore delle imprese e a favore del lavoro, che si potrebbe reintrodurre subito. Sarebbe un modo di fare una politica concreta per affrontare la più grande emergenza nazionale.
A mio parere, dunque, misure come la financial transaction tax e la carbon tax non sono idee di aumento della pressione fiscale. Piuttosto, dobbiamo presentarle come lo strumento di una fiscalità più equa, orientata verso il rilancio dell’economia, il lavoro, una crescita ambientalmente sostenibile e non, viceversa, volta a favorire la speculazione finanziaria. La finanza, come ha detto – sempre a Washington – Stephanie Griffith Jones, deve cessare di essere il bad master e tornare a essere il good servant dell’economia reale, dello sviluppo, della crescita, e questo è uno dei grandi cambiamenti che noi dobbiamo introdurre dopo la crisi.
Ora vorrei parlare dell’Italia, che si trova in una condizione di particolare gravità. L’abilità del governo Berlusconi e del ministro dell’economia è stata quella di diffondere l’idea che l’Italia “sta un po’ meglio degli altri Paesi”. Questo non è vero. Ieri il ministro Tremonti ha detto che i numeri sono più importanti della politica. Personalmente, penso che la politica serva anche a cambiare i numeri, perché c’è un rapporto dialettico tra politica e numeri.
E sono proprio i numeri che condannano il governo attuale. Ci dicono, infatti, che negli ultimi dieci anni – nel corso dei quali per circa otto hanno governato loro – la crescita del Paese è stata zero, mentre la crescita della spesa pubblica corrente è stata di 5 punti di PIL. Questi sono i numeri che rappresentano il bilancio del Governo Berlusconi-Tremonti nel nostro Paese.
Adesso si presentano come i paladini del rigore europeo ed è una novità rispetto ai sentimenti fortemente antieuropei della destra italiana, alla violenta campagna contro l’introduzione dell’euro che fecero, a suo tempo. Adesso gli stessi di allora fanno appello al senso di responsabilità dell’opposizione. Ricordo che quando votammo la legge finanziaria per entrare nell’euro loro abbandonarono il Parlamento in segno di protesta, a proposito di senso di responsabilità. E si trattava sempre di Berlusconi, Tremonti, le stesse persone fisiche, non altri. Lo dico perché si capisca anche la mutevolezza di questi signori. Ora dicono che bisogna coniugare rigore e sviluppo, ma in realtà essi hanno coniugato la mancanza di rigore e la mancanza di sviluppo per molti anni e il risultato è una sorta di catastrofe nazionale.
Credo che il Paese abbia bisogno di una svolta profonda. Noi siamo il membro dell’Ue che ha la spesa più bassa per l’istruzione. Solo la Slovacchia sta peggio di noi. E se si considera la tradizione del nostro Paese questo è un numero che crea una certa impressione.
Siamo uno dei Paesi che ha il più alto tasso di disoccupazione giovanile, a differenza di quello che indicano statistiche che non sono vere. I dati reali, come ha giustamente osservato la Banca d’Italia, citandoli, sono altri. Dobbiamo infatti considerare anche coloro che ricevono la cassa integrazione. Se i dati di questi “disoccupati assistiti” si aggiungono ai dati sulla disoccupazione, ecco che si supera il 10% che è la media europea. Ma il dato strutturalmente più grave nel nostro Paese è il tasso di occupazione, perché quello di disoccupazione si misura su coloro che si iscrivono a liste di collocamento, mentre il vero problema italiano è che, soprattutto nel Mezzogiorno, una grande massa (in particolare di donne) non vi si iscrive neanche. E noi abbiamo un tasso di occupazione, in particolare femminile, tra i più bassi d’Europa.
Questa è la verità dei numeri italiani, ma il ministro Tremonti ha detto che sono ansiogeni, per cui sembra che il punto non sia quello di affrontare i problemi, ma piuttosto di non dirli, altrimenti “si crea ansia”. In questo senso noi abbiamo un ministero dell’Economia che lavora come il Min.cul.pop.: il suo obiettivo non è affrontare i problemi ma fare in modo che il Paese non si spaventi. Mi dispiace per il ministro Tremonti, ma, secondo me, se a lui venisse un po’ di ansia forse non sarebbe male, forse si darebbe da fare per affrontare i problemi reali del nostro Paese.
Ci sono altri dati che mi lasciano veramente impressionato. Se noi consideriamo i giovani dai 18 ai 24 anni in Italia, il 90% vive con i propri genitori; in Svezia il 40%. Questo dato è persino più impressionante per i maschi che per le femmine, perché queste tendono a rendersi indipendenti prima. E ancora: considerando i giovani tra i 25 e i 34 anni, in Italia oltre il 40% vive con i propri genitori; in Svezia il 3%. E’ una fotografia della società italiana che colpisce, perché evidenzia scarsa mobilità e scarsa indipendenza della nuova generazione. E consideriamo anche il fatto che è un dato che è andato peggiorando nel corso degli anni.
Parliamo quindi di una grande sfida, che va affrontata in primo luogo creando le basi materiali perché la nuova generazione abbia una propria indipendenza. Queste basi materiali si trovano anzitutto in un lavoro che abbia un certo grado di tutela e di riconoscimento di diritti.
Queste sono le battaglie che noi dobbiamo fare insieme, perché riguardano i Giovani democratici, il Partito democratico e l’insieme del Centrosinistra che devono far pesare di più il loro punto di vista.
La crisi internazionale ha suscitato un grande dibattito, e a un certo punto sembrava che davvero si dovesse cambiare tutto. A proposito di Tremonti, ricordo che una volta eravamo insieme in una assemblea di giovani imprenditori e lo ascoltai fare un discorso appassionato. Disse: “non è il denaro che crea denaro. E’ il lavoro umano”. Una bella frase che era esattamente – lui non lo sapeva – una citazione di Karl Marx. C’è stato un momento in cui tutti citavano, persino senza volerlo, i classici del socialismo. Sembrava che ci fosse una grande riscoperta dei valori del lavoro, dell’economia reale. Poi, piano piano è emersa l’illusione che si potesse tornare come prima, a un mondo dominato dagli interessi, dalla grande finanza internazionale, in cui la ripresa si costruisce sullo schiacciamento del lavoro e dei suoi diritti.
Sarebbe inaccettabile. Non si esce dalla crisi tornando come prima, ma affrontandone le cause profonde, tra cui c’è la mancanza di regole, che è anche mancanza di democrazia e assenza di capacità di governare i grandi processi del mondo. A questo proposito, vorrei sottolineare come il dibattito sulle regole sia molto faticoso, tanto che ancora non sono stati posti con forza vincoli a un sistema finanziario privo di regole e privo di etica.
Insieme al deficit di democrazia, c’è un’altra ragione di fondo della crisi: la crescente diseguaglianza. E una globalizzazione che genera diseguaglianza crea uno sviluppo squilibrato e fragile.
La crisi si è presentata come un’importante contrazione della domanda. Ma perché cade la domanda di beni? Perché le famiglie si impoveriscono, malgrado la crescita della ricchezza globale. Questo apparente paradosso nasce proprio dalla diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza.
È vero che la crisi è scoppiata anche per il carattere speculativo della finanza. Le banche di affari americane hanno trasformato il mutuo della famiglia media americana in prodotti derivati, determinando un effetto esplosivo della crisi. Questo castello di carte è crollato il giorno in cui la famiglia media americana non è stata più in grado di pagare la rata del mutuo. Non è stata in grado di pagarla perché si è impoverita, perché il livello della retribuzione del lavoro è caduto nel corso di questi anni.
Dobbiamo sapere che non si esce da questa fase senza generare processi di maggiore giustizia sociale. E non possiamo accontentarci dell’eguaglianza dei punti di partenza. Dobbiamo controllare meglio che ci sia una minore diseguaglianza dei punti di arrivo, il che significa politiche sociali e fiscali volte a garantire la dignità e la retribuzione dignitosa del lavoro.
Altra causa della crisi è, a mio parere, la debolezza dell’innovazione. Lo sviluppo fondato sui bassi salari dei Paesi emergenti non ha incentivato la ricerca, ma è evidente che una fase di crescita non può partire senza innovazione. Occorre investire sulla ricerca, sulle nuove tecnologie, sull’istruzione. Sono concetti che ci ripetiamo ma non riusciamo a compiere veri passi in avanti.
Insomma, dobbiamo avere il coraggio delle nostre idee, dei nostri valori. Cito spesso un bel libro, scritto da due studiosi inglesi, che si intitola “The spirit level”, “La misura dell’anima”. Kate Pickett e Richard Wilkinson hanno dimostrato che le persone sono più felici se la società è più giusta, e che il grado di felicità, compresa la durata e la qualità media della vita, non dipende soltanto dal livello del PIL, ma anche dall’equa distribuzione della ricchezza. Società profondamente ingiuste sono società conflittuali, dove si vive peggio.
Credo che soprattutto voi, che siete i giovani della sinistra in questo nostro vecchio continente, dovreste avere il coraggio di affermare, senza nessuna timidezza, le nostre idee fondamentali. Perché queste idee tornano a essere necessarie per tutti.
Grazie.


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