Discorso
5 novembre 2010

NEXT LEFT, "Renewing Social Democracy", intervento di Massimo D'Alema<br>

Roma, Hotel Majestic


Vorrei ringraziare quanti hanno contribuito a questa interessante discussione. Questo seminario ha dato un importante contributo alla ricerca sui temi del rinnovamento della sinistra e della socialdemocrazia, su cui Next Left sta lavorando da tempo, producendo idee molto stimolanti.
Cercherò di entrare nel merito della discussione, anche interloquendo con alcune delle affermazioni e delle tesi che sono state qui esposte.
Indubbiamente, ci troviamo di fronte a una crisi della socialdemocrazia e delle forze socialdemocratiche in Europa. Nei sistemi bipolari c’è un fisiologico alternarsi al governo, come ha detto Luciano Cafagna. Oggi, però, siamo in un momento in cui la fisiologia è particolarmente negativa e in alcuni Paesi lo è in modo persistente.
In questa alternanza fisiologica anche la sinistra ha avuto, naturalmente, il suo ciclo positivo, in particolare nel corso degli anni ’90, che per alcuni Paesi si è prolungato anche al di là di quel decennio. Successivamente, però, siamo entrati in una fase che presenta alcune novità, perché non siamo più di fronte al tradizionale avvicendamento tra forze politiche di diversa matrice. Non si tratta più del semplice alternarsi tra forze conservatrici, di matrice popolare, democristiana, e governi socialdemocratici. Siamo piuttosto davanti a una crisi della socialdemocrazia che è parte di una crisi dei sistemi politici democratici in Europa.
Dunque è un fenomeno che si inserisce nel quadro di una crisi europea, che vede emergere, accanto a quelle forze tipiche populiste e localiste, tensioni e conflitti nelle società dei Paesi del vecchio continente. dunque si tratta di qualcosa
Naturalmente, la nostra discussione non intende soffermarsi soltanto sulla crisi, ma vuole porre l’accento sulla possibilità di costruire una nuova prospettiva.
La destra europea ha un primato culturale, mostra una grande capacità di interpretare gli umori e i sentimenti più profondi della società, di cavalcarne le paure. Un tema, quello della paura, molto importante per capire gli spostamenti dell’opinione pubblica europea. Tuttavia, la destra non appare altrettanto in grado di dare risposte. Anzi, appare particolarmente fragile proprio sul piano del governo della crisi e della costruzione di soluzioni efficaci.
A dimostrazione di quanto deboli siamo le basi del dominio della destra in Europa, basti pensare agli ultimi sondaggi: la signora Merkel è in minoranza, la maggioranza degli italiani, pur con una pluralità di orientamenti politici, non sostiene più il governo attuale, che va perdendo credibilità e consensi. In Francia, la situazione di Sarkozy non è certo migliore. Tuttavia, in nessuno di questi Paesi, a fronte delle difficoltà dei governi conservatori, emerge con forza un’alternativa socialdemocratica. Una situazione che riguarda anche il centrosinistra italiano e, in particolare, il Partito democratico.
Di fronte a tutto questo, è lecito porsi un interrogativo: dato che certamente un nuovo ciclo politico è possibile, anche per la fragilità dei governi di destra, su quali basi politiche e programmatiche verrà avanti una nuova stagione progressista europea? Un nuovo ciclo progressista sarà socialdemocratico, intendendo quella socialdemocrazia che ha saputo dare un un’impronta culturale, ideologica, di società al progressismo europeo?
Ecco, su questo punto nutro molti dubbi e, a mio parere, occorre affrontare apertamente tale questione, soprattutto perché a tornare al governo saranno coalizioni, non nel senso di partiti, ma in senso più profondo: culturale e sociale. Il problema, dunque, non è ravvivare la socialdemocrazia, quanto piuttosto pensare al contributo che il socialismo europeo può dare a una coalizione progressista e democratica, di cui inevitabilmente costituirà solo una componente.
Sono convinto che noi non possiamo indulgere a una analisi consolatoria della crisi. Essa, infatti, ha dato forza a una lettura in parte giusta, ma solo parziale. In fondo la crisi ripropone l’attualità dei nostri valori e noi siamo stati sconfitti perché, all’insegna della “terza via”, li abbiamo abbandonati. Sembrerebbe, oggi, che la chiave per tornare a vincere sia una sorta di ritorno all’ortodossia, accantonando le esperienze di rinnovamento del socialismo europeo maturate negli anni ’90.
Personalmente ritengo che gran parte della riflessione critica sull’esperienza della “terza via” sia fondata. In particolare, il suo limite fu quello di avere una subalternità culturale al neoliberismo e a una visione apologetica della globalizzazione. Tuttavia, penso che vi sia anche un lascito positivo. A questo proposito, Angela Merkel ha svolto una bellissima analisi che condivido pienamente e a cui rinvio. Inoltre, non possiamo dimenticare che la “terza via” fu la risposta a una crisi del modello tradizionale socialdemocratico. In realtà, nel corso degli ultimi anni, abbiamo assistito alla sconfitta di entrambe le esperienze: la sconfitta di quella componente del socialismo europeo che aderì in modo acritico alle “magnifiche sorti e progressive” della globalizzazione, ma anche di quelle componenti che si illusero che si potesse proteggere il welfare nazionale davanti alle sfide poste dal mondo globalizzato.
Io ricordo le discussioni con Blair, con Jospin, addirittura quelle con Schröder e Lafontaine. Badate, non si può certo dire che chi ha difeso in modo intransigente i nostri valori tradizionali abbia vinto, mentre chi li ha traditi nel nome della “terza via” sia stato sconfitto.
La sconfitta, invero, è stata più complessiva, perché se la “terza via” ha rappresentato una risposta inadeguata alla crisi del modello socialdemocratico, è vero anche che le premesse di quel modello erano venute meno. Infatti, era tramontata una certa idea della crescita economica in Europa, della centralità del lavoro fordista, del primato dello Stato e della dimensione nazionale che l’internazionalismo presupponeva. La globalizzazione, invece, è un’altra cosa, che va oltre la dimensione internazionale.
Occorre quindi interrogarsi seriamente su come gettare le basi di un nuovo ciclo progressista, che non si identificherà più con il modello socialdemocratico classico, perché lo stesso riferimento al movimento socialista appare legato in modo indissolubile all’esperienza politica del Novecento e dell’Europa. Un’Europa che vede ridursi progressivamente il suo ruolo internazionale.
Oggi, infatti, l’Europa rappresenta circa il 24% del PIL mondiale, nei prossimi 30 anni passerà al 6%. Un ridimensionamento che inevitabilmente varrà anche sul piano politico.
Nel nuovo scenario mondiale, al governo dei grandi Paesi emergenti non c’è un solo partito progressista che si chiami socialista o che abbia qualcosa a che vedere con la nostra tradizione. Eppure si tratta interlocutori essenziali se vogliamo costruire una risposta progressista alla crisi mondiale. Guardiamo a quello che è successo in Brasile. Lì vi è stata una drammatica battaglia elettorale in Brasile dove si chiamava socialdemocratico il candidato della destra. È la prova che il nostro stesso orizzonte terminologico è europeo e novecentesco, proprio quando l’Europa conta sempre meno.
D’altra parte, noi siamo alla vigilia di una riunione dell’Internazionale socialista che, nonostante tutti gli sforzi compiuti, continua a essere un organismo fondamentalmente europeo, con qualche appendice sudamericana. Un consesso diretto da un presidente europeo, cui partecipano, in veste di osservatori marginali, rappresentanti di Paesi in cui vivono miliardi di persone e che hanno un tasso di crescita tra l’8 e il 10%. Vengono come osservatori... Per quanto mi riguarda, ritengo che un movimento progressista internazionale degno di questo nome dovrebbe rovesciare le parti. Forse spetterebbe ad altri introdurre le riunioni e noi dovremmo passare dalla parte degli osservatori, se vogliamo stare al passo con un mutamento impetuoso del mondo. Dico questo perché ho l’impressione che siamo chiamati a innovazioni molto più radicali di quelle di cui discutiamo.
Una premessa, questa, un po’ provocatoria, ma non c’è dubbio che le grandi questioni che possono costituire i punti di un nuovo programma progressista sono quelle qui affrontate con estrema forza e chiarezza.
Innanzitutto, sono d’accordo con Salvatore Biasco quando afferma come fosse un’illusione pensare che la crisi mettesse in campo un altro progetto. Così, infatti, non è successo: in realtà non c’è una risposta politica e continua a essere dominante una visione neoliberista. Semmai c’è l’illusione che basti mettere qualche pezza a spese dei contribuenti, attingendo alle casse dei tanto vituperati Stati nazionali, affinché il meccanismo possa rimettersi in movimento.
All’indomani della crisi è mancata un’azione politica forte, su scala internazionale, che gettasse le basi di una fase nuova e affrontasse i problemi veri. In parte ci ha provato il presidente degli Stati Uniti Obama, ma è stato lasciato solo, in particolare dall’Europa. Proprio nel momento in cui egli ha cercato di rilanciare una nuova stagione di crescita, l’Europa si è arroccata in una visione di tipo monetaristico: stabilità monetaria e tagli.
Non solo, perché in un passaggio così delicato, è mancata anche un’azione forte dei progressisti europei. L’unica istituzione comunitaria con una certa vivacità di confronto è il Parlamento, ma bisogna riconoscere che una presenza forte di stampo progressista europeo, in grado di mettere in campo una piattaforma alternativa all’egemonia della signora Merkel, non si è vista. E c’è sempre più bisogno di un progetto alternativo che sappia affrontare le questioni di fondo messe in evidenza della crisi.
Innanzitutto, lo sviluppo globale, con l’asimmetria tra il potere dei grandi gruppi della finanza globalizzata e gli strumenti dell’azione politica pubblica, hanno posto una prima importante questione: quella democratica. D’altronde di fronte alla globalizzazione, il concetto di democrazia è meno banale di come poteva sembrare nella stagione matura degli Stati nazionali, tornando ad essere un campo vero di conflitto. Per risolvere questo problema democratico è evidente che occorre riprendere il controllo dello sviluppo, sottraendolo ai grandi gruppi finanziari internazionali. Oggi, però, ciò comporta oggi una visione della statualità che va oltre la dimensione nazionale.
E qui il tema europeo diventa essenziale.
La nostra grande sconfitta degli anni ’90 è stata questa. Quando noi facevamo i Consigli europei, che sembravano la riunione del Presidium dell’Internazionale socialista, non abbiamo affrontato il tema vero, quello della forza politica dell’Europa. Allora avevamo la forza per farlo. Invece, abbiamo accettato l’idea di un allargamento che non fosse preceduto da una riforma delle istituzioni europee, di un euro che non fosse accompagnato da una governance economica europea, accontentandoci di quello straordinario manifesto che è stato il Consiglio di Lisbona. Manifesto di un profeta disarmato, perché non c’erano gli strumenti e le risorse, destinato a rimanere solo un bellissimo programma del riformismo europeo. Maastricht, al contrario, non era un manifesto, bensì un insieme di regole, punizioni, vincoli.
Proprio qui si è giocata la partita tra un’impostazione monetarista, neoliberista e un’idea riformista dell’Europa. Insomma, mentre l’idea riformista dell’Europa è rimasta un bel manifesto, gli altri hanno concluso un trattato che ha spostato i poteri verso la Banca centrale europea e che ha condizionato lo sviluppo dell’Unione.
Quindi, se la crisi ci pone un grande problema democratico, dobbiamo rilanciare in questa chiave l’idea dell’Europa e, attraverso di essa, il tema di una governance globale. Ora, non intendo riprendere qui il dibattito sugli organismi internazionali dopo Bretton Woods e su come riequilibrare il rapporto di forze al loro interno, ma è evidente che si tratta di una questione fondamentale, che non possiamo pensare di risolvere in una dimensione meramente nazionale.
L’altra grande questione è quella della riduzione delle disuguaglianze, che in parte comporta politiche nazionali, ma può essere risolta solo sul piano internazionale. Pensiamo, ad esempio, alla financial transaction tax. E’ chiaro che il disequilibrio che ha visto spostare il peso fiscale sul lavoro e sull’impresa nella logica di una sconsiderata competizione fiscale per attrarre i capitali, è una questione che non può essere risolta all’interno di ciascuno Stato.
In questo momento è necessario rilanciare il nostro programma, la nostra idea del futuro, perché siamo chiamati a proporre un’identità. Per la destra, questo, è più semplice: il richiamo ai valori tradizionali, alla terra, al sangue e a quell’idea protettiva dell’Europa, che è rassicurante, almeno nel breve periodo, ma che a mio parere è largamente illusoria. Per noi il compito è più difficile: la nostra parte è chiamata a mettere in campo l’idea di una società giusta che, come è stato detto in questa sede, non si identifica strettamente con il modello che abbiamo conosciuto nel dopoguerra.
Ecco, ritengo che perseguire tale idea richieda una certa flessibilità degli strumenti. Una società giusta significa certamente lotta alla povertà, meriti ma non privilegi. Si tratta si un discrimine delicato, che comporta una rivalutazione dell’azione pubblica, che a volte è stata essa stessa costitutiva di privilegi non giustificati. In questo senso, sono d’accordo con Claudio De Vincenti: liberalizzare i mercati e aprire uno spazio alle forze vive della società può essere un modo di promuovere i meriti e rimuovere i privilegi.
Come dicevo prima, occorre una grande flessibilità degli strumenti, oltre a una visione molto chiara di ciò che vogliamo: una società più giusta, meno diseguale e quindi più felice. Ci viene spiegato anche da alcuni pensatori contemporanei che, sulla scorta di Amartya Sen, tornano a proporre una visione meno economicistica dell’equilibrio sociale e della piena realizzazione di quello sviluppo umano al quale ci riferiamo, ossia non esclusivamente legata alla crescita del PIL.
Ora, ciò comporta una correzione robusta del capitalismo, dall’alto e dal basso, attraverso gli strumenti dell’azione pubblica, ma anche attraverso la valorizzazione dei movimenti della società, dei fenomeni comunitari.
Tutto questo va oltre l’orizzonte classico della socialdemocrazia e richiede molto più di un confronto con culture ambientaliste, con sentimenti religiosi, ma un’operazione più complessa di sincretismo culturale, che non si riduca a un semplice patchwork. E’ questa, senza dubbio, l’unica via ragionevolmente percorribile se vogliamo gettare le basi di una nuova stagione.
Il punto più delicato, anche dal punto di vista elettorale, è come possiamo tornare a dare rappresentanza al lavoro. E’ un’altra grande differenza rispetto alla stagione del secolo scorso, quando la condizione sociale era il principale discrimine delle scelte elettorali. Oggi non è più così, il discrimine è un altro. Il centrosinistra raccoglie i voti degli strati più acculturati della popolazione, una minoranza più partecipe delle nostre società, mentre si sono spostati verso destra non soltanto i tradizionali ceti imprenditoriali, ma un vero e proprio blocco delle forze produttive. Nel Nord del Paese votano a destra, nello stesso modo, imprenditori e operai. Ciò vuol dire che la rappresentanza degli interessi si è spostata dall’altra parte, nel momento in cui noi appariamo come la rappresentanza di buoni sentimenti, degli strati sociali più acculturati e informati. Accettare questa deriva è esiziale.
Per ricostruire una nostra capacità di rappresentare gli interessi dobbiamo scomporre e ricomporre la grande discriminante che la crisi ci propone: quella tra lavoro e rendita finanziaria. Non si tratta della vecchia discriminante tra lavoro dipendente, tra operai e padroni, ma è lo sforzo di rappresentare le forze produttive nel loro complesso rispetto al peso della rendita.
La rappresentanza del lavoro non è un dato sociologico, ma politico-culturale e il centrosinistra, i progressisti, devono rimettere radici negli interessi in quel mondo e nel lavoro, ricostruendo un rapporto.
Ciò significa fare i conti anche con i limiti delle forme tradizionali della rappresentanza, perché, com’è noto, i sindacati rappresentano oggi in gran parte quella forma del lavoro che oramai sempre più appare residuale, cioè il lavoro tradizionale, fordista. Viceversa, il lavoro precario, incerto, flessibile, non ha rappresentanza neppure sociale, figuriamoci rappresentanza politica. Questo, a mio parere, per noi rappresenta davvero una grande sfida a cui varrebbe la pena dedicare un lavoro di analisi, una riflessione specifica, che mi sembrano decisivi.
Detto questo, voglio sottolineare che non mi abbandono alla ideologia del declino. Anzi, vedo molti segnali di una possibile ripresa di fronte alla debolezza della destra nella crisi europea. Sono convinto, però, che questa ripresa debba avvenire su basi nuove e che il socialismo europeo ne sarà soltanto una parte. Se noi avremo consapevolezza di tutto ciò allora saremo utili a una nuova stagione progressista.
Grazie.

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