Intervista
16 febbraio 2011

IN VIAGGIO A DAKAR CON D’ALEMA: IO, BERLUSCONI E IL MIO PIU’ GRANDE ERRORE <br>

Intervista di Alessandro Penna - OGGI


105714929_img.jpg
I cronisti li chiama «iene dattilografe». A una iena che gli chiedeva: «Posso farle una domanda?», ha risposto: «Me l’ha già fatta». Massimo D’Alema ha fama di mangia-giornalisti ed è, il suo, uno strano cannibalismo. Perché, alla dogana di Dakar, sul modulo d’ingresso in Senegal, alla voce «professione» scrive: giornalista. Andare insieme al World Social Forum, e pedinarlo in tutti i suoi spostamenti, comportava due rischi. Per lui: scoprirsi troppo. Per noi, essere coperti (di insulti). Con il senno di poi, il secondo era preoccupazione inutile, ansia infondata. Il viaggio comincia all’aeroporto di Parigi, dove D’Alema fa una cosa di sinistra (si sorbisce venti minuti di coda non dovuta) e una di destra (viaggia in business, ma ha un alibi di ferro: è invitato). La prima domanda non è esattamente di quelle che aiutano a rompere il giaccio: «Va in Africa per togliersi dalla coscienza i viaggetti a Sankt Moritz?». La replica è una smorfia che sta tra il fulmine e un sorriso. Più fulmine che sorriso.
A bordo, l’uomo che colleziona presidenze (del Copasir, della Fondazione per gli studi progressisti europei, della Fondazione ItalianiEuropei) è una calamita di affetto. Una signora piuttosto in carne gli infligge un abbraccio che è un’imitazione, credibilissima, della morsa del boa costrictor. Dalle retrovie arriva un pensionato di Reggio Emilia. Spiana l’iPhone e una «dedica» acidula: «Posso fare una foto con lei? È uno dei pochi politici dei quali non mi vergogno». Coi tempi che corrono, un complimento. Lui lo incassa con la smorfia di prima: più sorriso che fulmine, stavolta. Poi stringe altre mani, posa per altre foto, rassicura chi lo supplica «di cacciare Berlusconi». Quando l’Airbus prende quota, apre un romanzo: Il Fuggitivo di Olav Hergel, Iperborea, «una casa editrice che fa uno straordinario lavoro di scoperta di autori scandinavi». Noi stiamo cinque file dietro. Ci raggiunge dopo mezz’ora, facendo lo slalom tra i colossi della nazionale senegalese di calcio. «Devo preparare un discorso sulle migrazioni, non mi fermo molto», premette. Resterà due ore.

Mi dispiace, ma dobbiamo partire da Berlusconi.
«Ah, lei è un nostalgico».
Un nostalgico?
«Vuole cominciare dal passato. Berlusconi è il passato. Un passato che non vuole uscire di scena, ma pur sempre un passato».
Eppure sembra molto presente. Sia nel tempo che nello spazio.
«Perché ingombra e confonde: continua a fare promesse, ma dovrebbe fare bilanci. Ha fallito e, anche a voler tralasciare il curriculum giudiziario, che riempirebbe l’Enciclopedia Britannica, va detto che ha fallito nei suoi due campi: quello di imprenditore e di uomo immagine. Da imprenditore ha inflitto al Paese tre piaghe: la crescita zero, l’aumento delle tasse, l’impennata della spesa pubblica. Quanto all’immagine… Lo sa che Time ha messo “bunga bunga” tra le dieci parole dell’anno? All’estero, mi chiedono angosciati: “Ma com’è possibile che ve lo teniate ancora?”».
E lei cosa risponde?
«Che intorno a lui c’è un consenso e degli interessi sociali e poi pesa un’intossicazione mediatica. Che il controllo sistematico dell’informazione è stato ed è tale che per molti italiani anche la vicenda Ruby, che è chiarissima, resta avvolta nella nebbia».
Sul controllo dell’informazione le devo fare una domanda sgradevole.
«Me la faccia dopo, che sta arrivando da bere».

Da una tendina sbucano uno steward francese e il carrello dei vini. Il primo ha, per D’Alema, una predilezione epidermica e vistosa, quasi «sospetta». L’ex presidente dei Ds chiede un bicchiere di Borgogna. Quello va in solluchero: «Il mio vino preferito», dice in una slavina di «erre» mosce. D’Alema ci fa, all’orecchio: «Ho letto un saggio dell’ex presidente della Sorbona: Borgogna e Bordeaux, due passioni rivali. Potrei tenere al signore una conferenza sul tema: lo conquisterei definitivamente».

Se fossi un demagogo, le direi: lei dovrebbe bere Tavernello, non Borgogna.
«Se fossi un populista, risponderei: bevo solo Tavernello. Ma un politico non è quel che beve: è quel che dice, è quel che fa e che fa fare».
Torniamo al premier. C’è, ormai, quasi una difficoltà a definirlo. Cos’è, Berlusconi? Uno statista in declino, uno sfruttatore di prostitute, un uomo «malato», un perseguitato?
«“Perseguitato” faccio finta di non averlo sentito. Di tutte le altre definizioni, quella di “statista” è la più lontana dal vero. Berlusconi è un uomo che ha la morale sotto i tacchi. Ma non è lui a farmi paura: è un formidabile combattente, cerca di resistere. Sono quelli che gli danno retta a lasciarmi senza fiato».
Parla degli elettori o degli eletti?
«Parlo dei 315 deputati della Repubblica che hanno votato un documento in cui c’è scritto che il premier, nella sua veste di Capo del Governo, ha dovuto intervenire per evitare un incidente diplomatico perché la nipote di Mubarak era ostaggio della Questura di Milano. Quella votazione è il punto più basso della storia del Parlamento italiano. Quei 315 mi fanno paura perché hanno perso il rispetto di sé. Tra l’altro, rendono un pessimo servizio a Berlusconi: lo fanno passare per un credulone oltre ogni limite».
L’alternativa era passare per utilizzatore finale di una minorenne marocchina.
«In entrambi i casi, è bene che se ne vada».
Molti italiani pensano: Berlusconi è un male, ma il centrosinistra è peggio. Non fa niente perché dura poco. E dura poco perché si fa la guerra da solo.
«E questa è una nostra grave, gravissima responsabilità. Abbiamo dato un’immagine di formazione precaria e litigiosa. E le polemiche hanno oscurato le cose buone che abbiamo fatto: l’euro, il contenimento del debito pubblico… Ma l’esperienza ci ha ammaestrato: niente più autosabotaggi».
Per le eventuali elezioni anticipate, lei propone una Grosse Koalition che include anche il Terzo Polo, mischia Vendola e Fini. Le sembra credibile?
«Sì, perché nascerebbe con due “collanti” fondamentali: chiudere la pagina del berlusconismo, aprire una fase nuova. Siamo in una situazione simile a quella del dopoguerra, quando l’Italia scelse tra monarchia e repubblica».
E chi potrebbe guidarlo, quell’organismo mastodontico ed eterogeneo?
«Io propongo un patto costituente e il leader sarà deciso da tutti quelli che vorranno farne parte. Non lo posso, ovviamente, indicare io».
Le indico io qualche nome. Pierluigi Bersani.
Sbuffa, ma concede: «Uomo serio, con una sana cultura riformista, che sa tenere insieme le diverse anime della sinistra».
Nichi Vendola…
«Nichi è brillante, molto evocativo, lo conosco dal 1977. In lui, trovo discutibile solo questo mascherarsi da uomo nuovo. Nel 1977 era “nuovo”, ora è un veterano».
Gianfranco Fini?
«E’ il leader di una destra moderna ed europea. E’ una persona per bene che si è accorta che doveva cambiare strada».
Ci sarebbe la questione della casa di Montecarlo…
« Non pare ci siano reati e danni al bene pubblico».
La casa apparteneva al partito…
«Resta una questione minuscola, a cui è stata data una rilevanza enorme. Come nel caso della mia passeggiata a Sankt Moritz [paparazzata da Chi, strumentalizzata da Berlusconi, che ha definito D’Alema «un comunista in cachemire», ndr]. Viviamo in uno strano Paese, dove uno che cammina tutto intabarrato, con la propria moglie, in un paese di montagna, diventa oggetto di una campagna scandalistica, mentre uno che, assai poco intabarrato, fa le cose che fa Berlusconi magari risulta pure simpatico. Vuol sapere cos’è Chi?».
Cos’è?
«La prosecuzione della politica con altri mezzucci. Ma Signorini è un dipendente, esegue degli ordini. Berlusconi si chiama fuori, ma io so per certo che è lui che indica chi colpire, come colpirlo, quando colpirlo».
E D’Alema non potrebbe guidarlo, il governo costituente?
«Qualcuno me l’ha proposto, ed è persona intelligente, di qualità [ride, ndr]. Ma io suscito troppi contrasti, e ora c’è bisogno del massimo della convergenza. Posso dare il mio contributo senza essere il numero uno: non ho di questi complessi».
Roberto Saviano?
«E’ uno scrittore di grande intensità, un testimone dei tempi, lo stimo, ma non mi pare che voglia trasformarsi in un capo politico».
Mario Draghi.
«Ma questa non è più un’intervista, è una rassegna di nomi. Che vuole fare, Wikipedia?».
Giuro: è l’ultimo.
«Draghi è candidato a presiedere la Banca centrale europea, e sarebbe una gran cosa per l’Italia. È un uomo straordinario, capacissimo. Il suo profilo è quello giusto: non viene dalla politica, sarebbe il punto di sintesi di uno schieramento ampio. Ma non è il mio candidato. Il nome ce l’ho, non glielo faccio, altrimenti lo “brucio”».
Tutti i cognomi dei papabili mostrano però una cosa: la vecchia sinistra non ha lasciato eredi.
«Un po’ è vero. E’ anche colpa della fragilità dei partiti, che non formano più le nuove leve. Però giovani di valore ci sono».
Tipo?
«Matteo Renzi, di cui si parla tanto, sta facendo molto bene come sindaco e questo è importante. E ci sono diversi altri giovani, nei governi locali, meno celebrati dai giornali, che sono altrettanto capaci e innovativi».
Qualcuno ha suggerito, come leader, un «mostro» che incroci la simpatia di Veltroni e la preparazione di D’Alema. E «copra» l’impalpabilità del primo e la spigolosità del secondo.
«Questi sono stereotipi. Veltroni ha più spessore di quanto si creda ed io, naturalmente, sono meno antipatico di come appaio, ma il mio è un giudizio di parte».
Mettiamo che la sua super-coalizione vinca le elezioni. Cosa deve fare, dopo?
«Tre cose. Stabilire, magari tramite un referendum elettorale, se vogliamo un presidenzialismo alla francese, che non demonizzo, o un parlamentarismo alla tedesca, che preferisco. Poi va fatta una legge sul conflitto d’interessi, perché in un bipolarismo sano la competizione dev’essere fair».
Dev’essere cosa?
«Fair, corretta».
La poteva fare lei, la legge sul conflitto d’interessi. Ne ha avuto più volte l’opportunità. Molti pensano: se Berlusconi è ancora in sella, la colpa è di D’Alema.
«Io ci ho provato intensamente a scioglierlo, quel nodo. Mi accusano di una cosa che, se è una colpa, e in parte lo è, è di tutto il centrosinistra. Ma, nel centrosinistra, quello che si è impegnato di più per fare la legge sul conflitto d’interessi sono io: fu anche approvata al Senato, poi mi dimisi da premier e non se ne fece nulla. È paradossale».
Cosa?
«I miei compagni di schieramento, quando si parla di conflitto di interesse, fanno finta di nulla, ci manca solo che si mettano a fischiettare. E io passo per unico responsabile. Detto questo, Berlusconi è stato un grande fenomeno politico e culturale: non lo si cancellava con una leggina».
La «leggina» ne avrebbe forse limitato lo strapotere mediatico.
«Non si vince una battaglia politica con una legge che elimina il proprio concorrente. Se questo ha il consenso del Paese, la leggina gli fa un baffo: trova il modo di aggirarla, e passa pure per vittima».
Ultima domanda sul premier, almeno per oggi: la Chiesa è stata troppo morbida con lui?
«La Chiesa delle gerarchie sì, quella di «strada», dei preti davvero vicini alla gente, ha fatto sentire chiaro il suo dissenso».
Manca la terza missione del suo governo costituente.
«Serve un patto sociale per la crescita e per dare una speranza ai giovani, che sono quelli che pagano di più l’immobilismo del Paese. E va riordinata in profondità la Pubblica Amministrazione, perché Brunetta ha abbaiato senza mordere».
Nel centrodestra, si parla di una successione in famiglia: Marina Berlusconi. Può funzionare?
«Deve chiederlo ai cortigiani del padre. Il fatto che si parli di Marina dimostra però che Berlusconi non è il leader del centrodestra: è il suo proprietario».

Il giorno dopo l’appuntamento è all’Università di Dakar, in un’aula che è una tenda azzurra e blu piena di squarci, di spifferi. D’Alema tiene, in francese, una conferenza sull’immigrazione. Applausi, foto ricordo, invito (accolto) a partecipare a un incontro tra sindacalisti italiani e senegalesi. Incollata all’ex segretario del Pds c’è Yolanda, una ragazza della Fondazione per gli studi progressisti europei che gli fa da guida e addetta stampa. Lo chiama Massimo, ride spesso, dice: «Gli ho dato subito del “tu”, qualcuno mi ha sgridato, ma con lui viene difficile essere formali: è affettuoso, divertente, si comporta come se fosse mio zio. La verità? È il politico più alla mano che abbia mai conosciuto».
In una pausa del dibattito, rinfrancati dalla «recensione» di Yolanda, lo prendiamo da parte e gli proponiamo un gioco.
«Un gioco?».
Io le sottopongo una frase celebre, lei mi dice chi l’ha detta, e me la commenta.
«Posso rifiutare?».
Non sarebbe fair.
«Cominci, allora».
«Vada a farsi fottere». È la citazione, non un invito.
«L’ho detta io, al direttore del Giornale Sallusti. Mi dispiace di aver trasceso: per i telespettatori, s’intende».
«D’Alema dì qualcosa di sinistra».
«È di Nanni Moretti. Lo ammiro, ma quella era una critica sbagliata. Non dovevo dire qualcosa di sinistra, ma qualcosa di convincente, e lo feci. Quel dibattito con Berlusconi fu l’inizio di una campagna elettorale che vincemmo. C’è una sinistra cui dispiace vincere le elezioni perché ritiene che la sua missione sia essere la minoranza incazzata di un Paese cattivo».
«D’Alema ha tre luoghi comuni. Ha i baffi, ha la barca, è intelligente».
«Questa è di Roberto Benigni. Siamo amici, è stato troppo buono. Però, la citazione va precisata: la barca è in comproprietà. E pure i baffi, nel senso che li tengo fin quando mia moglie mi autorizza a farlo».
«Vai, facci sognare».
«È la mia famosa telefonata a Consorte, durante la scalata di Unipol a Bnl. Era una presa in giro, ma non sono pentito. Che le cooperative diventassero proprietarie di una grande banca italiana mi sembrava, e continua a sembrarmi, un fatto positivo: avrebbe cambiato il panorama economico italiano, un panorama dove il potere è in mano sempre agli stessi. E comunque: meglio le cooperative dei francesi, che alla fine si sono presi la Bnl. Se poi, durante quell’operazione, sono state compiute delle irregolarità, saranno i giudici a stabilirlo [c’è un processo in corso, ndr]».
«Umanamente, Berlusconi mi è proprio simpatico».
«L’ho detta io. È una frase che, dopo gli ultimi avvenimenti, sottoporrei a una seria revisione critica. Ne ho dette, di bischerate, nella mia carriera!».
«C’è la zoccola, la sudamericana che non parla l’italiano, quella un po’ più seria».
«Questa è dell’igienista dentale del premier, il consigliere regionale».
Nicole Minetti. Lei cosa pensa delle ragazze di Arcore?
«Io ho un grandissimo rispetto per le donne, anche per quelle che si prostituiscono, soprattutto se minorenni, perché tendo a considerarle non responsabili. In questa storia, sono gli uomini che mi fanno schifo».
«D’Alema e Berlusconi si piacciono, solo che le famiglie non vogliono…».
Ci pensa. Poi si arrende: «Chi l’ha detta?».
Emilio Fede.
«Emilio Fede».
Lui.
«È una frase che fotografava un passaggio, quello della Bicamerale, che è preistoria».
«La magistratura è il più grande pericolo per la democrazia italiana». Le do un aiuto: l’hanno detta in due.
«Uno è Berlusconi, è una specie di mantra, per lui, quello dei giudici sovversivi. Specie ora, anche se è palese che ha compiuto due reati gravi e odiosi, con pene che lui ha stesso ha voluto inasprire».
L’altro è lei: sta scritto in uno dei dispacci di Wikileaks.
«Si sbaglia, l’altro è Ronald Spogli, l’ambasciatore americano che ha travisato le mie parole. Io ho detto, e lo penso, che la magistratura a volte sbaglia, e fa errori gravi. Ma mi sono sempre battuto per la sua autonomia».

La sera, nei giardini del municipio, c’è una festa organizzata dalla Fondazione per gli studi progressisti europei. Tartine, musica wolof, vino francese (niente Borgogna). A D’Alema avevano chiesto di fare un discorso, ma lui guarda gli invitati, che ondeggiano al ritmo dei tamburi e del Bordeaux, e dice: «La gente balla e mangia: se mi metto a parlare, rompo le scatole a tutti. Facciamo così: visto che l’ho preparato, il discorso, ci mettiamo lì, io, lei e il fotografo, e ve lo recito. Vi dico anche quando applaudire». Attacca, ispirato: «Mes chers amis, mes camarades». Poi si ferma e ride.

Posso recitarle un testo anch’io? Ho qui una lista di cose che ha fatto, e di cui magari si è pentito.
«Un altro dei suoi giochi? Ma sì, giochiamo».
I due passi indietro del 2006, quando si ritirò dalla corsa per la presidenza della Camera (che andò a Bertinotti) e da quella per il Quirinale (su cui salì Napolitano).
«Nessun rimorso. Specie per la seconda rinuncia: Napolitano sta facendo un lavoro formidabile. Senza di lui, la barbarie sarebbe completa. Più che dei passi indietro, mi pento di un passo in avanti».
Quale?
«Aver lasciato la testa del partito per fare il premier. Il problema dell’Italia era costruire una grande forza politica riformista e quello sarebbe dovuto essere il mio posto e la mia responsabilità. Forse le cose sarebbero andate diversamente».
La passeggiata con il deputato di Hezbollah Hussein Haji Hassan, quando lei era ministro degli Esteri, anno 2006.
«La definizione “passeggiata” mi sconcerta. Ascolti bene. Mi portano a Beirut sud, i bombardamenti erano finiti da un’ora. C’è gente che grida, scava tra le macerie. Anche per proteggermi, due signori mi prendono sotto braccio: uno era Hassan, che non è un terrorista, ma un deputato di un partito di un Paese democratico. Noti che la settimana prima ero stato in Israele per incontrare i familiari dei soldati rapiti da Hezbollah. Noti che la sera stessa della “passeggiata” di Beirut scrissi una lettera privata allo scrittore israeliano David Grossman, che aveva appena perso il figlio, ucciso in combattimento. Chi vuole la pace deve stare vicino agli uni e agli altri».
Aver accettato una casa dell’Inpdap, con affitto a equo canone.
«Venne montata una campagna di stampa vergognosa. I giornali di destra pubblicarono l’indirizzo, la foto del portone, che venne sfondato, e dell’androne, su cui comparvero scritte che minacciavano me e ingiuriavano mia moglie. Anche dopo che avevo traslocato, il quotidiano della famiglia Berlusconi pubblicò bugie e inviti a colpirci. Scrisse: “D’Alema ha fatto blindare le finestre, ma è una blindatura leggera: se si spara con una calibro 9, il vetro cede“. Squadrismo puro. Sa di cosa mi pento?».
Di avere, unico tra di i protagonisti di Affittopoli, lasciato quella casa?
«No, perché ho colto l’occasione di realizzare con un mutuo il sogno di tutti gli italiani: lasciare una casa ai propri figli. A volte mi pento dell’eccesso di bontà che mi spinse, una volta premier, a ritirare tutte le querele contro il Giornale. Pensai: “Il capo del governo non può avere contenziosi aperti col Giornale”. Capito? Il cattivissimo D’Alema…».
…il cattivissimo D’Alema appoggiò i bombardamenti in Kosovo nel 1999.
«Non li appoggiammo, partecipammo alla guerra. Clinton mi disse: “Mi rendo conto che siete in una situazione delicata, potete limitarvi a “prestarci” le basi aeree”. Gli risposi: “Non siamo un Paese di serie B, ho dei dubbi che i bombardamenti possano essere efficaci, ma se la Nato decide di attaccare, faremo appieno il nostro dovere”. È stata la decisione più drammatica e sofferta della mia vita politica, ma non c’era alternativa».

Il terzo giorno lo «blocchiamo» sul battello per l’isola di Gorée, per quattro secoli punto di raccolta e smistamento degli schiavi dell’Africa occidentale.

Mi toglie una curiosità?
«Gliela tolgo».
Il 15 giugno del 2009, in un’intervista a Lucia Annunziata, lei disse: «L’opposizione si tenga pronta, ci saranno scosse nel centrodestra». Due giorni dopo, nella «sua» Puglia, esplose il caso D’Addario. Dica la verità: lei sapeva tutto.
«No, perché non ho una particolare inclinazione per la pornografia. Intuii che il declino di Berlusconi stava entrando in una fase critica, feci un’analisi politica per la quale, di solito, ci si complimenta. Invece mi diedero del complottardo».
Al mercatino di Gorée viene preso d’assalto da una mezza dozzina di venditrici di souvenir. Accontenta tutte. Compra stoffe, tovaglie, sciarpe, tappeti. Paga in euro, in dollari, in franchi senegalesi.
È una messinscena a favore di fotografo e giornalista?
«Macché. Muovo l’economia dell’isola e poi una delle signore mi ha detto che, se non avessi comprato nulla, mi avrebbe fatto il voodoo. Ha l’aria di una che mantiene le promesse e allora…».

Durante la traversata di ritorno, D’Alema riceve una telefonata. È il figlio Francesco, si lamenta perché gli hanno fissato un esame proprio il giorno di Roma-Shakhtar, partita di Champions League. L’appiglio perfetto per una digressione calcistica («La Roma ha un grande attacco, ma manca di nerbo a centrocampo») e familiare.
«Francesco fa scienze politiche, nonostante gliel’abbia vivamente sconsigliato. È attivo, milita nei Giovani democratici, studia. Viene su bene».
Mi dicono che lei sia in balia di sua figlia Giulia. Le concede tutto, è un papà di burro.
«Ora non esageriamo: di burro, no. Con le femmine, noi padri abbiamo un rapporto speciale. Giulia, come Francesco, è il mio orgoglio: si laurea in economia il 17 febbraio, poi andrà a New York per uno stage».
Che «suocero» è, D’Alema?
«Solidale con i “generi”: li ho sempre “protetti” perché le ragazze, e mia figlia non fa eccezione, sono molto più determinate dei ragazzi. Ora siamo in una fase di interregno, nessun fidanzato in vista».
Sua moglie Linda ha detto recentemente di aver sconfitto, anche grazie a lei, una brutta malattia.
«Si è battuta come un leone, io ho fatto solo quel che fa un marito innamorato: le sono stato vicino, ho cercato di darle energia e sicurezze. È una donna fantastica, anche nel lavoro: insegna in università, ha una “testa” piena di idee, di rigore. Insomma, siamo una famiglia di intellettuali [ride, ndr], quello con più senso pratico è il sottoscritto: e infatti cucino io, specialità pesce».

L’ultimo atto è il viaggio in taxi verso l’aeroporto. Si parla d’Africa, «un continente in cui noi siamo arrivati in clamoroso ritardo: è l’Asia di vent’anni fa, in bilico tra opportunità e fallimento» e di Mubarak, che «ha esaurito il suo compito e fatto bene a lasciare».

Lo sa che, visto da vicino, lei è più simpatico di Mastella?
«Non so come prenderlo, quest’accostamento».
Si gira verso il fotografo e gli fa: «È un complimento? O devo sottoporre il suo collega al trattamento-Sallusti?».

stampa