Discorso
2 marzo 2011

Conferenza “Il mediterraneo verso la democrazia” – Intervento di chiusura di Massimo D’Alema<br>

Sala Consiliare della Provincia di Roma, Gruppo Socialista e Democratico (S&D) al Parlamento Europeo insieme alla Delegazione del Partito Democratico


Vorrei ringraziare, innanzitutto, il gruppo dell’Alleanza progressista dei Socialisti e Democratici per questa importante iniziativa e Raimon Obiols per la sua convincente introduzione. Un ringraziamento particolare, inoltre, va a tutti gli amici che sono venuti qui da diversi Paesi protagonisti di questo grande moto e che hanno contribuito, con i loro interventi, ad arricchire l’analisi e a suggerire non solo proposte concrete, ma un modo diverso di guardare alla trasformazione in atto. C’è ancora, infatti, in una parte importante dell’opinione pubblica dei nostri Paesi, un atteggiamento di diffidenza verso quello che sta accadendo nel Nord Africa. Del resto, che dall’altra parte del Mediterraneo più le cose rimanevano com’erano, più ciò avrebbe garantito la tranquillità dell’Europa, era un’idea non soltanto dei governanti ma anche di una parte dell’opinione pubblica. Era un’idea sbagliata: la dittatura non garantisce neppure la stabilità. E oggi si determina una nuova grande opportunità che l’Europa deve saper cogliere.
Il mondo arabo sembrava prigioniero del suo passato, di quella gabbia di frustrazione che ha fatto scrivere al sociologo Dominique Möisi: è “il mondo del rancore”, che contrappone al “mondo della speranza” , ossia l’Asia e l’America Latina.
Ebbene, oggi quel mondo del rancore si è messo in movimento e ha mostrato lo straordinario coraggio della nuova generazione. Badate, questa emergenza giovanile è il tratto fondamentale della rivolta: società giovani e giovani che, nel tempo del villaggio globale, hanno guardato il mondo attraverso la televisione, vivendo la contraddizione profonda tra la loro condizione, la limitatezza delle loro aspettative e possibilità e quelle degli altri.
E’ un insieme di fattori diversi quello che ha concorso a questo grande moto, tra cui, certamente, un ruolo importante hanno avuto – come è stato detto – i nuovi mezzi di comunicazione. Essi hanno rappresentato un elemento di auto organizzazione della gente, della società civile, che si è dotata di strumenti di coordinamento. In questo quadro, Al-Jazeera, in presa diretta con la realtà del cambiamento del mondo arabo, è stato un fattore di moltiplicazione. Dobbiamo riconoscere che questa immagine, che rimbalzava da una piazza all’altra delle diverse rivolte, è come se avesse suscitato un fenomeno di emulazione. Per non parlare della rete che, tra l’altro, ha fatto conoscere le rivelazioni di Wikileaks. Non bisogna sottovalutare, ad esempio, l’impatto che può aver avuto la denuncia della corruzione di questi regimi attraverso le parole dei diplomatici americani, cioè il fatto che la gente potesse leggere su internet che quello era un giudizio della comunità internazionale.
Tutto ciò ha concorso a far precipitare una rivolta nella quale si combinano due fattori formidabili, quando si uniscono tra loro: il bisogno di libertà e la rivolta sociale, quella del popolo più umile, più povero come in Egitto, e quella dei giovani che hanno studiato e vivono la frustrazione rispetto alle proprie aspettative, in Tunisia. In questo Paese, infatti, la rivolta ha avuto il tratto di una certa gioventù intellettuale, di una parte della borghesia formatasi nello sviluppo degli ultimi anni, con un forte elemento di emancipazione sociale destinato ad avere un peso nel processo che si è aperto.
Ora, credo che la nostra prima responsabilità sia innanzitutto quella di sostenere la trasformazione democratica. E’ stato detto, giustamente, che la cacciata dei dittatori non vuol dire automaticamente democrazia. Stiamo assistendo a una delicatissima transizione, gestita direttamente dalle forza armate in Egitto e da un governo civile sotto la responsabilità delle forza armate in Tunisia. Prima di ogni altra cosa, è necessario che i tempi della transizione democratica siano rispettati, e che si arrivi alle elezioni in un clima di libertà e partecipazione di tutti i protagonisti, naturalmente secondo le decisioni che prenderanno i popoli.
Da parte nostra, dobbiamo accompagnare e sostenere la transizione. Le forze armate nazionali hanno giocato sicuramente un ruolo positivo in tutti e due questi casi, tuttavia non vorrei che facessimo lo stesso errore, che ci innamorassimo delle forza armate così come nel passato ci siamo innamorati dei rais. Piuttosto, dobbiamo concepire il ruolo delle forze armate come funzione di garanzia in una fase di transizione che deve muovere, assai rapidamente, verso istituzioni pienamente legittimate. Noi, come sinistra europea, abbiamo il compito di aiutare l’affermarsi delle forze progressiste che possono essere protagoniste di questo processo democratico.
Recentemente, in Italia, il Partito democratico ha ricevuto una delegazione delle forze progressiste tunisine che poi è andata a Bruxelles per incontrare il Partito socialista europeo. Ebbene, abbiamo qualcosa da farci perdonare. Leggere il comunicato con il quale l’Internazionale Socialista espulse dal suo seno il partito di Ben Ali proprio il giorno dopo che i tunisini l’avevano espulso, è stato motivo di umiliazione.
Dobbiamo dire la verità, oltre a criticare le responsabilità dei nostri governanti: anche la sinistra europea ha faticato a capire e a fare ciò che si doveva fare. Eppure era possibile, perché mentre il partito di Ben Ali era nell’Internazionale Socialista, qualche anno prima l’organizzazione giovanile era già stata espulsa dalla IUSY. Da questo punto di vista, il tema c’era e qualcuno l’aveva affrontato anche all’interno del movimento socialista internazionale. Adesso dobbiamo incoraggiare e sostenere questi processi di costruzione di forze politiche.
Vorrei parlare anche della Libia, dove si è aperta una drammatica crisi. Certo, non ci sono risposte facili e non è il caso di parlare con troppa semplicità di un concetto quale quello della responsibiliy to protect. C’è una responsabilità della comunità internazionale ed è evidente che questa deve esercitarsi sotto l’egida delle Nazioni Unite.
In Libia il rischio è gravissimo. Si tratta di un Paese dove la transizione potrebbe portare, al contrario, verso una disgregazione tribale e una guerra civile sanguinosa. Le organizzazioni non governative parlano, sino a questo momento, di circa 6000 morti nella popolazione. Ma gli scontri continuano, la forza militare di Gheddafi, che poggia sul suo clan, sulla sua tribù, è tutt’altro che irrilevante in un Paese dove non esistono forze armate, ma una milizia sostanzialmente di tipo personale. In questo dobbiamo riconoscere che Gheddafi è stato previdente.
Alle spalle abbiamo la memoria delle vicende drammatiche dei Balcani, e sappiamo bene che una no-fly zone comporta, come dicono i militari, una neutralizzazione degli impianti radar di difesa antiaerea. “Neutralizzazione” può sembrare un concetto elegante, ma significa sostanzialmente fare la guerra. Penso, però, che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e l’Unione europea debbano seguire con la massima attenzione lo sviluppo della crisi libica, perché non sarebbe neppure giusto che la comunità internazionale si limiti ad assistere a una guerra civile e alle tragiche conseguenze che essa avrebbe inevitabilmente sulla popolazione.
Intanto, c’è un dovere di assistenza umanitaria. L’Italia, da questo punto di vista ha preso la decisione giusta di istituire una missione umanitaria ai confini tra la Tunisia e la Libia. Un provvedimento apprezzabile, al di là delle critiche sull’operato del nostro governo. Infatti, sull’immagine e sul peso che il governo italiano ha sulla scena internazionale, nella situazione in cui si trova, stenderei un velo pietoso.
D’altra parte, noi ci siamo trovati in una situazione di difficoltà analoga. Quando la guerra civile balcanica ha determinato un esodo verso il nostro Paese arrivarono, in pochi giorni, circa 20 mila albanesi. E la guerra nel Kosovo avrebbe potuto portare verso le nostre sponde oltre 150 mila persone, perché la massa dei kosovari che scappavano verso l’Albania, Paese che non era in grado di accoglierli, era destinata a arrivare in l’Italia, attraverso l’Adriatico. Noi organizzammo l’accoglienza dei rifugiati che vennero qui e l’accoglienza, l’assistenza e la solidarietà dei kosovari in Albania, con una missione umanitaria che assistette 60 mila persone.
Insomma, voglio dire che si tratta di situazioni che si affrontano. Certo, è giusto chiedere all’Europa di dare un contributo, ma non in modo lagnoso. Un grande Paese come l’Italia, a mio giudizio, è perfettamente in grado di assistere 20-30 mila persone, anche se non ci aiutano gli altri Paesi europei. Credo che intanto bisogna attivarsi e poi domandare all’Europa di assumersi delle responsabilità.
Inoltre, a mio avviso, dobbiamo cercare di aiutare la popolazione in Libia, non soltanto i libici che hanno varcato il confine con la Tunisia. C’è il rischio di un’emergenza alimentare e ci sono alcune città che si sono liberate, come Bengasi, dove noi dobbiamo e possiamo arrivare con un aiuto umanitario urgente.
Ma dobbiamo guardare anche agli altri Paesi, dobbiamo incalzarli, perché siamo davanti a un fenomeno che può dilagare. Pensiamo allo Yemen, al Barhain, dove la rivolta ancora non ha rovesciato i regimi, e forse non li rovescerà, ma dove nondimeno la pressione europea per riforme democratiche e per il rispetto di chi protesta per la libertà, per il riconoscimento delle libertà civili, deve esercitarsi.
Davvero dopo quello che è accaduto non abbiamo il diritto di farci cogliere di sorpresa. Anzi, abbiamo il dovere di mettere il tema della democrazia e del rispetto dei diritti umani al centro della nostra azione politica, non soltanto rispetto ai Paesi dove la rivolta ha avuto successo, ma anche, e persino a maggior ragione, nei confronti di quei Paesi dove la protesta c’è e non ha ancora portato a un rovesciamento dei regimi, all’avvio di una transizione democratica. Da questo momento in poi non è facoltativa la coerenza nell’iniziativa europea.
Qui, badate, la riflessione critica dell’Europa rischia di essere genetica. Ho ascoltato sia le parole critiche sia la giusta difesa dell’Europa da parte di Vincent Peillon. Ma il problema, a mio avviso, è cosa intendiamo per Europa. Se, infatti, dicendo Europa intendiamo i nostri valori, i nostri principi, l’azione del Parlamento europeo, la Carta dei diritti fondamentali, bene, questa Europa certamente ha avuto un’influenza positiva. Viceversa, se intendiamo per Europa le politiche degli Stati, dei singoli governi europei, allora credo proprio di no.
Si tratta di due aspetti molto diversi. Le scelte politiche dei principali governi europei, infatti, sono state ispirate a un rapporto con l’altra sponda del Mediterraneo in cui le esigenze fondamentali sono state sicurezza energetica, petrolio e gas, controllo securitario dell’immigrazione e lotta al terrorismo. In questo ha pesato una paura dell’islam, che a volte a sfiorato la fobia, che non ci ha aiutato a capire la complessità del mondo islamico e ci ha impedito di scommettere su un islam democratico e politico, che, sono convinto, sia interlocutore essenziale.
Ricordo che quando dicevo, in solitudine tra i ministri degli Esteri europei, che in fondo con Hamas e Hezbollah era meglio discutere, altrimenti ci saremmo trovati di fronte soltanto Al Qaeda, venivo guardato come un pericoloso estremista. Io continuo a pensare che apertura democratica significa fare i conti con un islam politico e ritengo che sia molto meglio confrontarsi con un partito di ispirazione islamica, anziché con l’azione politica dei religiosi. I partiti, infatti, sono soggetti che si devono misurare con la laicità della politica. E’ meglio avere a che fare con un partito di ispirazione islamica, che non con i mullah e gli ayatollah. L’esperienza iraniana sta lì a dimostrarlo.
Penso che la trasformazione democratica avviata in questi Paesi ridurrà il peso dell’islamismo radicale, anche se, in un primo momento, forze di ispirazione islamica sorgeranno tra i protagonisti della scena politica. E’ probabile che ciò avvenga in Tunisia, dove c’è un islam moderato che ha accettato una piattaforma laica di tutte le forze di opposizione. In Egitto, i Fratelli musulmani avranno un ruolo: non sono l’80% della società egiziana, ma ne rappresentano una quota, sono una forza organizzata.
Tuttavia, credo sia molto più pericoloso l’islamismo che cresce come rancore popolare sotto il peso di una dittatura, che appare come la longa manus dell’Occidente, che non la presenza anche di un islamismo politico sulla scena di società aperte e democratiche. Insomma, ritengo che nel medio periodo la democrazia ridurrà il peso del radicalismo e dell’islamismo.
Ripeto: dobbiamo cercare di aprire il dialogo, non possiamo continuare ad essere prigionieri di una posizione islamofobica che si esprime nelle nostre società e che ha condizionato anche il nostro atteggiamento verso i Paesi arabi, sulla base dell’idea - sbagliata - che i regimi autoritari fossero la diga contro il rischio di radicalismo islamista. Non era così. Anzi, sotto quei regimi, secondo me, il radicalismo è stato più forte. Ricordo che la guerra in Iraq è stata alimentata da migliaia di volontari islamici che da tutti i Paesi arabi, in modo particolare dal Maghreb, andavano lì a combattere. Con un Maghreb democratico, però, il flusso dei volontari fanatici non ci sarebbe stato.
Ecco perché ritengo che qui ci sia qualcosa che vada cambiato nel nostro modo di pensare: l’idea che quei dittatori, in fondo, fossero l’argine contro un pericolo, ha agito molto in profondità non solo nella politica dei governi, ma anche nel modo di pensare di una parte dell’opinione pubblica europea, compresa quella progressista o democratica.
Occorre una nuova strategia che sia coerente con i valori e i principi europei, con quegli stessi valori e principi che hanno agito positivamente come un punto di riferimento. E attenzione, perché sin qui gli Stati Uniti sono stati percepiti come una potenza molto più amica della rivolta giovanile che non l’Europa, la quale è apparsa molto più vincolata e compromessa con i vecchi regimi.
Dunque, per l’Europa si pone un problema importante di immagine presso quei giovani che sono stati protagonisti della rivolta nel mondo arabo e noi dobbiamo attivarci per restaurare rapidamente la vera immagine, fondata sui nostri valori. Tutto ciò comporta politiche di sostegno, tra cui, in primo luogo, un forte impegno di carattere umanitario. Con un investimento relativamente modesto rispetto alle risorse europee, infatti, possiamo dare un contributo molto importante per affrontare l’emergenza legata alla transizione. Ci vuole una strategia, ci vogliono i volani per una politica di investimenti e bisognerà ripensare un modello di sviluppo più equilibrato dal punto di vista dell’uso delle risorse fondamentali. Questo investe direttamente le strategie di sviluppo europeo. Mi riferisco a che tipo di politica energetica vogliamo sostenere, che tipo di visione abbiamo del Mediterraneo e del suo equilibrio ambientale. E’ un aspetto che riguarda il contenuto delle nostre politiche europee e, quindi, anche la necessità di cambiare il modello di sviluppo delle nostre società, la nuova collaborazione che vogliamo instaurare con l’altra sponda del Mediterraneo.
Per quanto riguarda il problema del rapporto con la nuova generazione, credo sia il tempo di una sorta di Erasmus mediterraneo. Una parte importante delle élite giovanili di questi Paesi, infatti, ancora preferisce andare a studiare in America, perché spesso non è facile venire da noi, per lo meno non nel nostro Paese. Per fortuna vi sono Paesi europei più accoglienti di noi e, da questo punto di vista, ritengo necessaria una strategia diversa, una visione europea.
Altro capitolo riguarda l’Unione per il Mediterraneo, al cui sorgere ho assistito. E’ stato un clamoroso fallimento, perché muoveva da una visione sostanzialmente sbagliata, da un arretramento economicistico e intergovernativo della politica mediterranea, da una sorta di riedizione in sedicesimo della grandeur francese nel Mediterraneo. Si è trattato, con un modo dire italiano, di “molto fumo e niente arrosto”, dal momento che Sarkozy non è riuscito a darle sostanza. In fondo, si è pensato di intraprendere una politica mediterranea potendo aggirare il nodo mediorientale, il che era chiaramente velleitario e illusorio. Il meccanismo, infatti, si è inceppato alla prima crisi israelo-palestinese. Non è stato possibile neppure convocare la cerimonia del Summit dei capi di Stato e di governo. Direi meno male, perché a ripensarci adesso, quella foto di famiglia sarebbe stata motivo di serio imbarazzo per l’Europa.
Ecco, a mio parere, di una nuova strategia europea deve far parte anche un approccio più incisivo alla questione israelo-palestinese. Badate, mi ha molto colpito il modo in cui Israele, che è stata a lungo ed è ancora, l’unica democrazia di quella regione, ha assistito alla rivolta democratica del mondo arabo. Ha assunto un atteggiamento di preoccupazione e di malcelata ostilità, che davvero preoccupa circa l’orientamento dell’attuale leadership. Ma credo che Israele non abbia nulla da temere dalla democrazia e che un Egitto democratico – come giustamente ci è stato ribadito qui – a tutto può pensare fuorché a fargli la guerra.
Oggi si creano le condizioni per un nuovo scenario, nel quale la minaccia terroristica e la minaccia bellica possono davvero essere messe da parte. Certamente, però, si apriranno una competizione e un confronto impegnativi. Se è evidente, infatti, che un Egitto democratico non farà la guerra ad Israele, è anche difficile che esso possa accettare la violazione dei diritti umani dei palestinesi o la violazione delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
La competizione, dunque, si sposta sul terreno politico di una sfida nel rispetto dei principi del diritto internazionale. Il salto di qualità è questo: si creano le condizioni affinché davvero il rispetto della sicurezza di Israele divenga un principio condiviso, il che è una grande opportunità, e Israele possa diventare un Paese accettato, non una presenza estranea contro la quale coalizzarsi.
Tuttavia, anche dall’altra parte si richiede un salto di qualità: convivere tra le democrazie significa che tutti si devono adeguare ai principi del diritto internazionale e che le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza siano universalmente valide. Qui c’è uno spazio per l’Europa: dobbiamo fare capire a Israele che questa è una grande occasione, ma che richiede anche un’altra mentalità, un altro modo di rapportarsi al mondo arabo.
Insomma, c’è molto da fare per l’Europa. Gli americani, certamente, restano i protagonisti fondamentali, ma con una relativa prudenza, perché non credo che verranno a risolvere i nostri problemi. Anche di fronte alla crisi libica, nelle discussioni di questi giorni, ogni qual volta qualcuno ha detto che bisognava agire, gli americani hanno risposto: “è una buona idea, fatela!”. Non credo che gli Stati Uniti si ributteranno nelle crisi mediterranee. L’esperienza dell’Iraq ancora brucia e pesa. Inoltre, c’è qualcosa che tocca più direttamente la responsabilità dei grandi Paesi mediterranei dell’Europa, di cui purtroppo, in questo momento, scontiamo una debolezza. E’ vero, noi non dobbiamo contrapporre la politica verso Est alla politica verso il Mediterraneo, ma non possiamo dimenticare quanto ha pesato la leadership tedesca, nell’aprire una nuova stagione nel rapporto con i Paesi che si liberavano dall’autoritarismo comunista, e quanto poco stanno pesando i nostri Paesi nel guidare l’Europa in una nuova e coraggiosa politica mediterranea.
In conclusione, credo che questa sia la responsabilità dei progressisti europei. Bisogna andare avanti, far sì che ci sia un’eco di questo confronto nell’Assemblea dei parlamentari del Mediterraneo e bisogna, nelle prossime settimane e nei prossimi mesi, a partire dall’imminente riunione dei leaders socialisti ad Atene, che questo tema sia posto al centro del nostro ordine del giorno.
L’Europa può fare moltissimo, e credo che davvero per noi questa sia una straordinaria occasione. Ancora non ci siamo, ma spetta ai progressisti incoraggiare il nostro continente a fare sino in fondo la sua parte in questa nuova storia che è cominciata.
Grazie


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