Discorso
26 marzo 2011

Conclusioni di Massimo D’Alema alla Conferenza Nazionale del Partito democratico sull'Immigrazione, “Oltre la paura, per l’Italia della convivenza”

Roma, Hotel Radisson Blu


Vorrei ringraziare l’onorevole Livia Turco, e lo faccio nella mia qualità di immigrato di trentesima generazione. Ci sarà voluto qualche secolo perché il figlio di Halim diventasse “D’Alema”, ma non ci vuole molto a capire che questi passaggi rappresentano la natura del popolo italiano. E se dovessimo dividerci sulla base del ceppo etnico, io naturalmente starei dalla parte di Halim, di Maruan, non certo con i Longobardi e i Normanni, con i quali conviviamo da molti secoli nel nostro Paese. Dico questo per sottolineare che nessun popolo può permettersi l’aberrazione e il lusso del razzismo meno del popolo italiano, perché non esiste il ceppo etnico italiano: siamo il frutto di una mescolanza di razze e civiltà che si è venuta formando nel corso dei secoli. D’altro canto, è sufficiente guardarsi intorno per notare le diverse fisionomie e riconoscere i tratti originari dei nostri concittadini.
Dobbiamo evitare di cadere nella trappola di apparire come “quelli della solidarietà, dei buoni sentimenti” di fronte alla apparente razionalità della politica della destra. Al contrario, dobbiamo mostrare tutta l’irragionevolezza della loro politica.
Lasciatemi iniziare, però, dicendo qualcosa che va al di fuori di questo schema di ragionamento. Voglio dire, infatti, che noi abbiamo bisogno degli immigrati. È un dato di buon senso assoluto. Nei prossimi 15 anni l’Europa, se vuole mantenere un livello minimo di crescita demografica, sostenere i suoi sistemi di protezione sociale e avere un decente sviluppo economico, avrà bisogno di almeno 30 milioni di immigrati. E, dunque, avendo questa necessità, sarebbe ragionevole da parte nostra riservare loro una buona accoglienza.
Da questo punto di vista, gli immigrati sono certamente una risorsa, ancorché si tratti di una risorsa che pone diversi problemi. Badate, non è una contraddizione in termini. Ritengo che la presenza in Italia di quasi 5 milioni di cittadini di origine straniera costituisca un fattore più che positivo. Essi, infatti, portano nel nostro Paese una buona energia, un elemento di allegria, contribuiscono a far sì che per le nostre strade possiamo incontrare un maggior numero di giovani e non soltanto persone anziane. Insomma, è una presenza gradevole, anche questo lo dobbiamo dire.
Per contro, non possiamo assolutamente accettare che il discorso pubblico sia dominato dal razzismo e dalla chiusura culturale che, purtroppo, sono emersi in questi anni, rompendo anche tabù che, in ragione della forza della tradizione cattolica e di quella del movimento operaio, nel nostro Paese sembravano invincibili.
Ad esempio, oramai è lecito parlare di “razzismo”, ma non solo. Nel corso di questi ultimi anni, molti altri atteggiamenti che sembravano tabù sono diventati leciti. Con questo non voglio dire che sono a favore dei tabù, certamente, però tutto ciò ha comportato un degrado civile e culturale.
È una battaglia difficile, ma necessaria per l’avvenire del nostro Paese. E, a mio giudizio, rappresenta un tratto identitario di un partito come il nostro, una forza democratica che non rinuncia a battersi per l’affermazione dei valori civili. Una forza progressista che non smette di lottare per contrastare quel dominio della cultura e della politica della paura che rappresenta il terreno fertile per la destra. Perché negli ultimi anni è avvenuto esattamente questo: abbiamo assistito a un mutamento di scenario che non è nato soltanto da ragioni quantitative, ossia da un afflusso più consistente di immigrati. Piuttosto, a mio giudizio, hanno avuto un peso rilevante ragioni legate al cambiamento di fattori qualitativi, ossia il quadro nel quale i fenomeni migratori si sono determinati.
Paradossalmente, invero, è il contesto della globalizzazione che accentua gli elementi di paura, perché essa ha eccitato – non solo nel mondo islamico, ma anche in Occidente – sentimenti identitari, il timore di omologazione culturale e di smarrimento delle proprie radici. Tutto ciò, ripeto, è avvenuto anche in Paesi dove questo sentimento non c’era, come nella tradizione italiana. Quando si ha paura di perdere la propria identità, inevitabilmente la diffidenza e il timore verso gli altri crescono.
La globalizzazione, inoltre, ha accentuato la paura della competizione: i cinesi ci fanno paura non solo come immigrati, ma come avanguardia di una grande potenza che ci sta portando via una parte dei mercati mondiali.
Questa percezione di declino dell’Occidente, dell’Europa e del nostro Paese accresce tutti i timori. In un tale contesto, gli immigrati non appaiono più come persone sfortunate che vengono qui a cercare lavoro, ma sono visti come l’avamposto di un esercito nemico dal quale ci sentiamo minacciati nei nostri privilegi, nella nostra potenza economica, nella nostra prevalenza politica. Intendo “noi” in quanto europei.
Si tratta di un problema che riguarda tutto il mondo occidentale: questo sentimento di paura ha giocato pesantemente sullo spirito pubblico e sugli orientamenti politici dell’Europa, fino a rendere fragili le basi della nostra democrazia, rafforzando fenomeni di populismo etnocentrico, di plebiscitarismo, che non riguardano esclusivamente l’Italia, basti vedere quello che succede in tanti altri Paesi europei.
Dunque, è chiaro che, in questo scenario, il tema dell’immigrazione è diventato qualcosa di diverso rispetto alla percezione tradizionale nel nostro Paese: è diventato l’emblema visibile, la presenza percepibile di quelle minacce che sentiamo gravare sulla nostra civiltà, sui privilegi che abbiamo conquistato, sulla forza della nostra economia, sul nostro primato politico. Perciò ritengo che su questo terreno si giochi una sfida che ha un valore più generale, un carattere politico, sociale, ma anche culturale.
È evidente che un Occidente che guardi ai cambiamenti del mondo con questo spirito di chiusura è destinato a essere sconfitto, a negare le radici dei propri valori, a perdere se stesso, e non soltanto la sfida di fronte alla quale ci troviamo. Non è un caso che siano i Paesi più aperti del mondo occidentale a dimostrare di avere maggiore vitalità: tra questi gli Stati Uniti d’America, che, con tanti problemi e tante responsabilità, sono senza dubbio enormemente più vitali della vecchia Europa. In fondo il Presidente degli Stati Uniti, la cui nonna ne ha festeggiato l’elezione dal Kenya, da noi dovrebbe chiedere il permesso di soggiorno. Ma questa è una paurosa manifestazione di debolezza delle nostre società, perché così facendo sarà difficilissimo attrarre i talenti. Del resto, in un mondo in cui la mobilità è métissage – come diceva Lucien Febvre –, è la mescolanza del sangue che crea civiltà, mentre se non c’è mescolanza si ha il declino di un popolo, di un Paese,.
Se vogliamo attrarre talenti, persone che con la loro intelligenza, la loro energia possono contribuire a rivitalizzare il nostro Paese, dobbiamo mettere in atto una politica dell’accoglienza, del riconoscimento dei diritti, una politica di valorizzazione delle qualità umane. Altrimenti diventeremo inesorabilmente il Paese di un’immigrazione di disperati, di barconi, di clandestini o di persone che con le nostre ingiuste leggi costringiamo a diventare clandestine, con effetti devastanti sulla qualità dello sviluppo e sulla sicurezza.
In questo momento è in corso uno sconvolgimento del Mediterraneo. Si tratta, a mio giudizio, di un moto democratico che potrebbe rappresentare una gigantesca opportunità anche per il futuro del nostro Paese. Noi dovremmo essere l’interlocutore naturale di questa massa di giovani che diventa protagonista di una grande rivoluzione democratica, che in fondo si muove ispirata dai nostri valori e principi. Si potrebbe dire: “ecco una grande vittoria dell’Europa!”, perché, in fondo, che cosa spinge quei giovani, se non i valori e i principi che sono scritti nella Carta europea dei diritti dell’uomo?
Ebbene, noi italiani non possiamo lamentarci per il fatto che i giovani nordafricani vivano come interlocutori principali della loro rivolta i francesi, i quali a volte sembra abbiano un atteggiamento furbesco, che cancella le tracce delle loro responsabilità anche recenti. Mi riferisco, ad esempio, a chi ha dovuto rassegnare le dimissioni dal governo per i rapporti con Ben Alì e il suo regime. Tuttavia – lasciatemelo dire – è davvero spiacevole vedere che i ragazzi di Bengasi portano i colori, pur gloriosi, della rivoluzione francese, mentre percepiscono il nostro tricolore come lontano, se non persino avversario.
È una nostra colpa. In queste ore, mentre cambia il mondo, crolla un altro muro di Berlino, il nostro Paese sembra dominato dal “problema gigantesco” dell’arrivo di 25 mila persone. E questa è l’immagine dell’Italia. È come se la Germania di Kohl, al venire giù del muro di Berlino, avesse detto: “Che guaio, stanno arrivando qui con le Trabant!”, anziché festeggiare la possibilità di riunificare l’Europa intorno ai valori della democrazia e della libertà.
Ebbene, siamo di fronte a una grande possibilità: possiamo affrontare positivamente quello che è stato l’enorme rischio di questi anni, cioè che il Mediterraneo diventasse la frontiera di una guerra di civiltà, e avvertiamo la possibilità di un ponte di valori e speranze comuni, di principi condivisi.
Credo che questo dovrebbe essere il cuore della nostra politica, del nostro messaggio. Non dobbiamo rassegnarci alla sensazione che, di fronte a tutto ciò, un Paese ricco, di 60 milioni di abitanti sia dominato dall’ossessione di qualche migliaio di immigrati e dal dibattito pubblico sul dubbio se considerarli rifugiati oppure clandestini.
Noi paghiamo un prezzo alto a causa di questo governo, di questa classe dirigente, della ristrettezza di visione, della grande confusione politica. Ancora in queste ore, si ha la sensazione che l’Italia sia andata a rimorchio, all’inseguimento degli avvenimenti, anziché rendersi protagonista.
Basti vedere la sequenza delle dichiarazioni confuse e contraddittorie rese dal governo. All’inizio Berlusconi ha detto: “Ci hanno chiesto le basi e abbiamo dovuto darle”, poi il battagliero ministro La Russa ha dichiarato: “I nostri ragazzi sono pronti a colpire”, affermazione seguita dalla smentita del presidente del Consiglio secondo il quale, invece, non avremmo sparato neanche un colpo. Soltanto tre giorni dopo l’inizio della missione, hanno scoperto che occorreva un coordinamento sul piano militare con la NATO. Non si capisce bene di che cosa abbiano discusso e, soprattutto, che cosa abbia detto il presidente del Consiglio quando, alla vigilia delle operazioni, i leader europei si sono riuniti a Parigi. Quello che voleva Sarkozy era abbastanza chiaro, quello che volevamo noi, invece, non lo era affatto.
La mia sensazione è che l’Italia stia perdendo una grandissima opportunità: dovremmo essere al fianco di questo mondo che ci rende protagonisti. Naturalmente questo significa anche fare i conti con gli errori che, in una certa misura, hanno coinvolto l’intera classe dirigente europea, con l’illusione di poter gestire il rapporto con l’altra sponda del Mediterraneo in una visione esclusivamente securitaria, per cui i problemi principali erano la garanzia della sicurezza energetica, il controllo dei flussi migratori, il contenimento del pericolo islamico. Tutto ciò deriva da una visione rozza delle cose, che ha finito per farci guardare all’Islam intero, e non al solo estremismo, come una minaccia. E, da questo punto di vista, chi poteva garantirci meglio di quei regimi che, senza troppe preoccupazioni per il rispetto dei diritti umani, impedivano la partenza degli immigrati arrestandoli e rinchiudendoli da qualche parte?
Questa vecchia Europa, in definitiva, ha avuto due volti: quello dei principi, dei valori che proclamiamo e che sono gli stessi per i quali si battono quei ragazzi, e quello, concreto, della realpolitik degli Stati europei, che hanno trovato in quei regimi gli interlocutori più comodi per garantire le nostre sicurezze.
Occorre davvero cambiare il nostro modo di pensare: non c’è sicurezza senza democrazia, senza rispetto dei diritti umani. La dittatura e l’oppressione generano violenza ed estremismo. In questo senso, credo sia necessaria una seria riflessione anche sull’Islam. È chiaro che un processo democratico nel mondo arabo passa attraverso la crescita di un Islam politico-democratico. Ma dobbiamo fare i conti con questa realtà, e essere consapevoli che il processo democratico potrà non avvenire nelle forme occidentali, sviluppando, viceversa, forme politiche proprie che non possiamo demonizzare a priori. Detto questo, ovviamente, vi sono alcuni principi e valori universali che vanno rispettati.
Si tratta di un tema che, qualche anno fa, suscitò un certo dibattito anche nel nostro Paese, quando, con il governo Prodi, la politica estera era un po’ più dinamica…Voglio dire, ad esempio, che se ci si occupa della questione libanese, è inevitabile che si debba discutere con Hezbollāh, partito che rappresenta una parte determinante della vita politica del Libano. È inutile rivendicare, in maniera ipocrita, la democrazia. Perché la democrazia è proprio quel processo in cui il popolo sceglie i suoi rappresentanti in maniera autonoma. Se il popolo sceglie rappresentanti che a noi non piacciono, dobbiamo parlare e discutere lo stesso con loro. Un atteggiamento, questo, che vale per il Libano come per i palestinesi. L’Occidente ha loro imposto libere elezioni, pretendendo di controllarle e certificandone il regolare svolgimento. Le elezioni sono state vinte da Hamas, e allora l’Occidente ha affermato: “Non parliamo con chi ha vinto”. A mio giudizio si è trattato di un comportamento che, dal punto di vista della coerenza dei valori democratici, ha fortemente indebolito la nostra credibilità.
Dico questo perché quello che sta accadendo cambierà tutto, anche dal punto di vista delle politiche dell’immigrazione. È evidente, infatti, che dal momento in cui avremo di fronte delle democrazie, l’unica via sarà la collaborazione, mentre la scorciatoia securitaria non sarà più possibile. Il governo dovrebbe quindi prendere atto del fallimento di una certa politica e del fatto che una stagione si è chiusa, perché ne sono venute meno le premesse, e l’unica strada percorribile sarà quella della cooperazione. Suggerirei perciò – come ho già fatto – un’operazione politica: considerare le 25 mila persone giunte in questi giorni a Lampedusa come rifugiati, senza rigidità sulla loro provenienza. È chiaro, in Libia c’è la guerra, è evidente che si tratti di persone che devono godere dello status di rifugiati, ma anche la Tunisia è un Paese che vive un passaggio critico, che comporta un collasso delle strutture statali. Non è certo una situazione di normalità. È quindi opportuno accogliere i migranti temporaneamente e, semmai, negoziarne il rientro, magari anche assistito, con questi Paesi in un tempo ragionevole.
Si tratta di processi che vanno gestiti con razionalità. Noi siamo stati investiti altre due volte da ondate di questo tipo: dapprima vi fu l’Albania e poi il Kosovo e, in quest’ultimo caso, fuggirono 400 mila persone. Di essi, una parte li assistemmo in loco, organizzando una grande operazione umanitaria al di là dell’Adriatico, una parte invece giunse qui. Ne abbiamo accolti circa 25 mila ottenendo la solidarietà di tanti altri Paesi, europei e non solo.
Ebbene, oggi il governo lamenta la mancanza di solidarietà dell’Europa. Fa bene, non credo che il governo abbia torto, però dovrebbe domandarsi: che Europa c’è oggi? Un’Europa tutta governata dai loro amici. Io mi sono permesso di dire in Parlamento, ai colleghi della Lega: “Vedete, nell’Europa delle Leghe avete trovato qualche Lega più a Nord di voi”. È inevitabile che sia così. Insomma, questa destra conservatrice, che purtroppo non è al governo solo nel nostro Paese, ha spezzato un vincolo di solidarietà. Ricordo che, quando vi fu la crisi in Kosovo, alcuni dei profughi furono accolti persino dall’Australia. Certo, fu un’operazione costosa inviarli fin laggiù, ma lo abbiamo fatto comunque, per il valore simbolico che ciò rappresentava. Vi era una solidarietà internazionale per quel popolo e non soltanto per l’Italia che si trovava in prima linea.
Voglio dire che anche la solidarietà si costruisce. Naturalmente, però, un Paese come l’Italia, che non riesce a essere solidale con Lampedusa, è difficile che abbia le carte in regola per chiedere aiuto alla Finlandia, tanto per fare un esempio. Insomma, non stiamo dando una buona prova di noi stessi e il messaggio che in questo momento trasmettiamo a quei popoli non è positivo.
Quello che accade segna un tornante anche nelle politiche dell’immigrazione. A questo proposito, a me sembra che questa conferenza – e condivido pienamente le conclusioni che ha fatto Khalid Chaouki – abbia indicato con chiarezza i punti qualificanti di una nuova politica dell’immigrazione, a partire da un ripensamento profondo dei criteri di ammissione nel nostro Paese. I sistemi attuali di selezione, infatti, sono drammaticamente controproducenti.
In quegli stessi Paesi mi hanno spiegato perché. Se il giovane tunisino qualificato, che vuole venire a lavorare in Italia, si presenta al consolato e gli spiegano che potrà ottenere il visto solo a condizioni assurde, deciderà di andare in un altro Paese, più ragionevole. “E così da voi – mi dicevano – arrivano solo i barconi con i più disperati”. È vero, noi non abbiamo una politica dell’immigrazione che incoraggia a venire nel nostro Paese persone qualificate, le quali non vogliono vivere in una condizione di clandestinità, di negazione dei loro diritti,.
È necessaria, quindi, una politica dell’accoglienza molto più articolata e ragionevole. Una politica che, anche attraverso una collaborazione tra sindacati e mondo imprenditoriale, punti ad attrarre una immigrazione di qualità. È naturale che, se i canali dell’immigrazione legale non sono ostruiti, è anche più facile combattere l’immigrazione clandestina.
Quella italiana, invece, è una politica che genera clandestinità. Basti pensare che persino chi nasce in Italia da genitori stranieri rischia di diventare clandestino. Ma è anche una politica che produce insicurezza, criminalità, disperazione e marginalità. Infatti chi è costretto a vivere nascosto, legato al racket che lo ha portato qui, è evidente che sia più pericoloso di chi entra legalmente, lavora, riesce a ricostituire la propria famiglia, è riconosciuto nei suoi diritti fondamentali. Si tratta di condizioni di vita per le quali un ruolo cruciale viene svolto a livello locale. In prima linea ci sono gli enti locali, le Regioni e l’associazionismo, con le loro concrete politiche di integrazione. Una dimensione decisiva, perché sono i processi sociali reali che rimuovono le paure, che mettono le persone in comunicazione tra loro. In questo senso, dobbiamo dare una maggiore diffusione alle best practice e valorizzare al massimo il lavoro svolto, in condizioni anche difficili, da parte di tanti soggetti.
Accanto a questi aspetti fondamentali della politica dell’accoglienza, c’è il tema cruciale dei diritti politici, a cui dobbiamo dare centralità e forza, perché non c’è dubbio che il salto di qualità nel processo di integrazione si ha nel momento in cui l’immigrato diventa cittadino e acquista il diritto di voto. In quel caso viene meno lo schema della solidarietà, si entra nel mercato della politica e tutti sono chiamati a misurarsi con il problema. Se un sindaco sa che anche i senegalesi o i cinesi voteranno alle successive amministrative, ha certamente un atteggiamento diverso, in cui non c’entra più la solidarietà. È, questa, la chiave.
Credo che dovremmo affrontare questo tema anche da un punto di vista diverso, che non è soltanto quello dell’integrazione e del vantaggio che ne deriva. Sappiamo che l’integrazione innesca processi positivi dal punto di vista della sicurezza, dello sviluppo economico, della qualità sociale. Ma non possiamo tralasciare l’aspetto che riguarda direttamente la qualità stessa della democrazia, che è anche un meccanismo di regolazione dei conflitti sociali. Il sistema della rappresentanza, infatti, è il simbolo della mediazione tra diversi interessi.
La democrazia di un Paese nel quale una quota così rilevante della forza lavoro non ha diritto di voto è una democrazia dimezzata. In Italia gli immigrati producono l’11% del PIL. Se queste persone se ne andassero via domani, non sapremmo più come pagare le pensioni. Anche da ciò dobbiamo considerare quanto sia grande il loro valore. Non riconoscendo loro un tale diritto fondamentale, la nostra diventa una democrazia censitaria. Ecco perché sono convinto che sia necessario pensare alla concessione del diritto di voto amministrativo e della cittadinanza per gli italiani figli di immigrati nati in Italia, rispetto alle quali ci vorrebbe una seria accelerazione, anche dal punto di vista burocratico, e una minore arbitrarietà.
Nel nostro Paese vige una forma estrema e irragionevole dello ius sanguinis. Pur con tutto il rispetto verso gli italiani e i figli di italiani che vivono all’estero, è difficile vedere la razionalità di una legge per cui chi lavora e paga le tasse in Italia non ha il diritto di voto, mentre i figli e i discendenti di italiani, che vivono in altri Paesi del mondo e spesso non parlano la nostra lingua, votano per decidere chi deve governare l’Italia. Si tratta, inoltre, di un sistema che non rispecchia affatto la storia del nostro Paese.
Per questo sono convinto che dobbiamo fare di questo tema il centro di una grande battaglia del Partito Democratico.
Vi sono tantissime altre questioni fondamentali che interessano il campo culturale. Ad esempio, non mi piace l’espressione “multiculturalismo”, termine sul quale si è aperto un grande dibattito in Europa. Non condivido le obiezioni della Cancelliera tedesca Angela Merkel, ma è anche vero che l’espressione “multiculturalismo” dà l’idea di tante culture che stanno una accanto all’altra, mentre “interculturalità” dà più l’idea della comunicazione, dell’arricchimento reciproco. In ogni caso, al di là dei termini che si usano, sono fondamentali le pratiche che si attuano, e coinvolgono direttamente la dimensione culturale.
Abbiamo bisogno di nuovi cittadini che si sentano italiani e che aiutino anche noi stessi a sentirci maggiormente italiani, diffondendo l’unico senso ragionevole di unità nazionale: il patriottismo costituzionale che, a mio giudizio, è il vero terreno su cui ricostruire l’unità del Paese. Per questo è necessario sviluppare il senso di appartenenza dei nuovi italiani, attraverso la lingua, la conoscenza dei valori che sono alla base della nostra Costituzione. La nostra Carta fondamentale deve essere conosciuta e condivisa. La Costituzione deve essere patrimonio di tutti. Ciò non significa però tagliare le radici con i Paesi di origine o negare la possibilità a chi viene in Italia di portare con sé il proprio bagaglio culturale: un patrimonio che contribuisca a rendere questo Paese meno provinciale, più aperto, più ricco culturalmente.
Stesso discorso vale anche sul piano religioso. L’Italia è uno dei pochi Paesi al mondo che non ha una legge che garantisca la libertà di culto. È un fatto molto grave. Quando ero presidente del Consiglio, non riuscendo a promuovere questa legge, cercai di rimediare con un’operazione che però non andò mai in porto: portare alla firma tutte le intese che erano in fase di negoziazione – alcune perfino da vent’anni. L’esercizio della libertà religiosa nel nostro Paese, infatti, è regolato da intese tra lo Stato e le singole confessioni religiose. La decisione presa, apparentemente ovvia, suscitò un’enormità di problemi, che rischiarono persino di portare a una crisi di governo per la firma dell’intesa con i testimoni di Geova. Ricordo in proposito una drammatica discussione teologica in Consiglio dei ministri. Mi impuntai, e non per motivi elettorali, perché i testimoni di Geova non votano, ma perché mi sembrava un’ingiustizia che non si riconoscesse il diritto, la libertà religiosa di una comunità di quasi 300 mila italiani, che era stata anche perseguitata dal nazismo. Alla fine arrivammo alla firma, ma il Parlamento non la ratificò. Per contro, non fu possibile firmare alcunché con le comunità islamiche.
Auspico vivamente che si formi, in modo federato, un Islam italiano con il quale lo Stato possa firmare al più presto un’intesa. Ormai si tratta della seconda comunità religiosa del Paese, una realtà molto significativa, che vive, però, una situazione frammentata, e sarebbe importante che ci fosse un riconoscimento formale.
Si tratta di questioni molto rilevanti, come rilevante è la vita quotidiana delle persone. In questo senso, dobbiamo sapere che progressivamente diventerà sempre più consistente la quota di italiani che saranno figli di italiani e di immigrati, quindi ci “mescoleremo”. I confini saranno via via meno netti, e ciò rappresenterà un grande processo di avanzamento civile.
Per certi aspetti, tutto questo ricorda la storia dei meridionali che sono andati a vivere nel Nord Italia. Essi, infatti, non erano percepiti in maniera tanto diversa dagli immigrati di oggi, nemmeno dal punto di vista linguistico. Negli anni, poi, si sono mescolati.
Nella vicenda dell’immigrazione italiana, però, è stato senza dubbio decisivo il fatto che queste persone avessero diritto di voto. Ho già raccontato quando partecipai, per la prima volta, tanti anni fa, a una discussione su questo tema in una sezione del Pci toscano. Una sezione dell’entroterra: a quei tempi, con l’industrializzazione, i toscani scendevano a valle e lasciavano le campagne, dove poi arrivavano i meridionali o i pastori sardi, che prendevano il posto di contadini e mezzadri. Parliamo di una zona che aveva grandi problemi sociali. Mi trovavo dunque all’assemblea del Partito Comunista di Stibbio, frazione di San Miniato, per discutere del rapporto con queste persone. La preoccupazione principale, in quella sezione, non riguardava tanto l’aspetto della solidarietà, ma il fatto che l’84% dei voti al Pci, che era lo standard normale, si fosse leggermente ridotto. Questo mise in allarme la sezione e, per la prima volta, si posero il problema che bisognasse andare a parlare con queste persone, di cui non capivano neanche la lingua. E, alla fine, il primo passo fu quello di dar loro una Casa del popolo. “Loro”, perché non si capivano. Tuttavia, ebbero un luogo dove potersi riunire.
Con il tempo, lentamente, si è prodotta una mescolanza tra italiani che, originariamente, erano diversissimi tra loro. E sono nate nuove lingue comuni. Oggi se uno va a Torino può sentir parlare il calabro-torinese… Questa è stata la nostra storia.
Una storia di integrazione, non facile. In questo processo, a mio giudizio, un ruolo fondamentale è stato svolto dai partiti, dai sindacati, dalla politica, dall’associazionismo. Perché, in fondo, è in quei luoghi, nelle case del popolo, nelle riunioni sindacali, nelle sezioni di partito, che abbiamo imparato a parlare tra noi e a capirci. È certamente una dimensione essenziale, accanto a quella istituzionale.
Il nostro partito ha fatto molti passi in questa direzione e, in questo campo, è cresciuta una realtà significativa, che può costituire un punto di riferimento positivo per la convivenza civile del nostro Paese.
Grazie.

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