Discorso
25 marzo 2011

DEMOCRAZIA, RESPONSABILITÀ E SICUREZZA DELLO STATO

LECTIO MAGISTRALIS AGLI STUDENTI DELLA FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZA DELL'UNIVERSITÀ DI CATANZARO


Vorrei ringraziarvi per l’invito a discutere con voi studenti di un tema così complesso. Devo confessare che, non essendo un giurista, sono stato piuttosto incerto circa il modo in cui affrontare la questione, ma sicuramente eviterò di tenere una lezione cattedratica che non ho titolo per fare.
Il tema è interessante perché, a mio parere, costituisce uno dei nodi più problematici del funzionamento di una democrazia moderna: nessun concetto è così carico di ambiguità come quello di sicurezza e nessun rapporto è così complicato come quello tra sicurezza, libertà delle persone e democrazia.
Si tratta di un nesso assai complesso in quanto, per un verso, la sicurezza è quella situazione in cui viene assicurato al cittadino il pacifico esercizio dei diritti di libertà che la Costituzione garantisce. E, dunque, la sicurezza è una condizione della libertà. Senza tale garanzia, infatti, è difficile, se non impossibile, esercitare quei diritti e svolgere la propria attività lecita senza essere minacciato. Dall’altra parte, certamente, un ordinato vivere civile è anche un obiettivo di uno Stato di diritto libero e democratico.
E’ evidente che, laddove non vi siano queste condizioni, sono inevitabilmente compromessi i diritti fondamentali di libertà. E penso non soltanto ai Paesi dove c’è la dittatura, ma anche a quei Paesi democratici nei quali la minaccia della criminalità organizzata limita la sicurezza dei cittadini e impedisce loro di svolgere liberamente le proprie attività, come avviene in Italia.
Consiste proprio in questo l’ambiguità del concetto di sicurezza: fondamentale condizione di libertà, ma anche interesse supremo della collettività nel nome del quale è possibile limitare, come fa la nostra Costituzione, l’esercizio di molte libertà individuali. La legge, infatti, prevede che in determinati casi un cittadino possa essere privato di alcune libertà, quali quella di espressione, riunione, libera circolazione e la libertà personale, nel momento in cui egli rappresenti una minaccia o abbia concretamente recato offesa alla sicurezza degli altri cittadini.
E, d’altro canto, andando oltre i confini dell’ordinamento costituzionale, la storia ci dimostra che il bisogno di ordine e di sicurezza ha sempre rappresentato il principale pretesto per costruire delle dittature. La dittatura, infatti, in molti casi insorge a fronte di situazioni di grande disordine: così avvenne nella storia del nostro Paese dove, senza dubbio, la vittoria del fascismo e l’instaurazione del regime furono anche frutto di una condizione di estrema e non regolata conflittualità nel periodo post-bellico.
La sicurezza, dunque, è condizione per la libertà, ma può anche essere motivazione robusta per la dittatura. Nessun altro concetto, a mio avviso, ha una tale carica di ambiguità e si presenta in modo altrettanto problematico, sia sul terreno del diritto che sul terreno della concreta vicenda storica e politica.
D’altronde – come ricordava il professor Ventura – per Hobbes “è il bisogno di sicurezza contro l’aggressione reciproca che induce gli individui a riunirsi in Stato e a sottomettersi al sovrano”. Il bisogno di sicurezza, quindi, è il fondamento dello Stato moderno: è la necessità di uscire dallo stato di natura, dal conflitto tra gli individui, che fonda la necessità dello Stato e giustifica il potere del sovrano.
Naturalmente, il costituzionalismo democratico ha affrontato questa complessa e problematica questione in un modo più raffinato, e cioè affidando al diritto il compito di regolare il rapporto tra sicurezza, esercizio dei diritti di libertà e funzionamento dello Stato. La tendenza è stata quella di definire un bilanciamento tra questi diritti che hanno sancito, almeno sulla Carta, la libertà come regola e la sicurezza come eccezione. Tuttavia, una cosa è il modo in cui è stato definito questo bilanciamento, altra cosa è il modo in cui concretamente si è realizzato.
Senza la pretesa di fare un esame comparato delle diverse realtà, vorrei parlare dell’esperienza storica del nostro Paese, nelle concrete condizioni della vita della Repubblica democratica italiana, che ha il suo fondamento in una Costituzione che certamente ha rappresentato, e rappresenta tuttora, uno degli esempi più innovativi al mondo. Qualcuno ha persino sostenuto che sia tra le più rivoluzionarie nel campo del costituzionalismo democratico moderno.
La Costituzione italiana – e qui richiamo alcuni pensieri che ho trovato in un conferenza di qualche giorno fa di Raniero La Valle – irrompe con grande novità in uno scenario particolare. Essa, infatti, è relativamente tardiva rispetto agli altri grandi Stati moderni, europei in particolare. Tuttavia, nasce in un momento storico di straordinario valore, all’indomani della Seconda guerra, nel clima di una grande costituente mondiale: penso, in particolare, alla Carta dell’Onu del ‘45.
La nostra Costituzione è, quindi, particolarmente avanzata, perché risente di questa temperie culturale, politica, di speranza e di libertà che, dopo la caduta della dittatura fascista e del nazismo, rappresenta il clima dominante nel mondo di allora. Essa, infatti, contiene un vero e proprio rovesciamento radicale rispetto alla storia passata, almeno sotto tre profili.
Il primo risponde alla mia sensibilità culturale e riguarda un tema cruciale per la sinistra: l’eguaglianza. D’altro canto, il concetto della diseguaglianza è alla base dello Stato moderno. Ho già citato Hobbes, secondo il quale lo Stato moderno nasce proprio quando il cittadino accetta di sottomettersi al sovrano: tale fondamento è, appunto, diseguaglianza in cambio di sicurezza. Tornando a oggi, la nostra Costituzione proclama l’eguaglianza, ma non soltanto quella formale, perché ne fa un principio programmatico dell’azione pubblica. L’articolo 3, infatti, recita: “La Repubblica rimuove gli ostacoli (…)”. La Carta, dunque, non si limita a dire che tutti gli esseri umani sono eguali. Basti pensare che prima del ‘48, a proposito di eguaglianza, le donne non avevano diritto di voto nel nostro Paese. Le diseguaglianze erano piuttosto marcate.
Il secondo elemento di rovesciamento riguarda un altro tema fondamentale: la guerra, che era stata proclamata dai filosofi come madre e principio di tutte le cose, sposa indissolubile dello Stato sovrano e persino accettata dalla Chiesa cattolica qualora ritenuta “giusta”. Ora, la nostra Costituzione ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie tra gli Stati e limita il ricorso alla forza ai casi di autorizzazione proveniente dalle istituzioni internazionali, dalle alleanze di cui fa parte il nostro Paese. L’articolo 11 è molto complesso nella sua architettura, tuttavia si apre con un principio fortissimo: il ripudio della guerra.
Infine, il terzo aspetto si trova sempre nell’articolo 11, il quale introduce un’altra novità rivoluzionaria, ossia l’accettazione di una limitazione al principio di sovranità degli Stati.
Diseguaglianza, guerra, sovranità sono stati i fondamenti dello Stato moderno che la nostra Costituzione mette, in qualche modo, in discussione. Essa li sovverte, introducendo l’idea che, nel nome di un ordine mondiale, possano esistere limitazioni al principio assoluto della sovranità statale. Anche sulla base di quest’indicazione costituzionale, è stata favorita l’integrazione dell’Italia nell’Unione europea, in una dimensione sovranazionale.
Dico questo perché nella realtà dell’Italia del Dopoguerra ha agito una vitale contraddizione: da un lato, la fecondità innovativa di una Costituzione che in parte notevole è rimasta inattuata, ma che ha agito come un seme, come un lievito della vita nazionale; dall’altro lato, le condizioni concrete in cui si è sviluppata la vita della Repubblica, che sono state a lungo quelle della guerra Fredda.
Nel mondo bipolare si è manifestata in modo fortissimo quella contraddizione nel rapporto tra sviluppo della democrazia, affermazione delle libertà ed esigenze di sicurezza che, appunto, costituisce il nodo problematico di cui ci occupiamo. E tutto questo appare particolarmente evidente se lo consideriamo dal punto di vista di una delle strutture più delicate, ossia l’intelligence. I Servizi segreti, infatti, non hanno il monopolio della sicurezza, ma ne rappresentano l’aspetto estremo, in quanto sono l’unico apparato dello Stato che ha la possibilità, entro determinati limiti previsti dalla legge, di violare la legge stessa nel nome della sicurezza. Entriamo qui in un terreno nel quale il rapporto tra libertà e sicurezza non è più regolato dal diritto, ma dalla responsabilità politica. Secondo la legge di riforma dei Servizi, tale responsabilità è accentrata nelle mani del capo del governo: è un suo potere autorizzare determinate operazioni nel nome della sicurezza del Paese e, nel caso in cui la magistratura intenda indagare su ipotesi di reati commessi da apparati dell’intelligence, solo lui può confermare l’eventuale opposizione del segreto di Stato. Uno sbarramento supremo, quest’ultimo, che opera non soltanto nei confronti dei cittadini e dei giornalisti, come accade per i documenti classificati secondo la legge 241/90, ma anche nei confronti della magistratura. E si tratta di un potere sostanzialmente insindacabile.
Insindacabilità sulla quale è tornata a esprimersi di recente la Consulta, in occasione della questione di illegittimità costituzionale sollevata dalla magistratura milanese in relazione all’inchiesta per il rapimento di Abu Omar e l’eventuale coinvolgimento dei Servizi italiani in questa operazione illegale. Ebbene, la Corte costituzionale ha respinto l’eccezione sollevata dai giudici di Milano, riconoscendo il potere insindacabile del presidente del Consiglio (in quel caso erano stati due, Berlusconi e Prodi) di opporre il segreto di Stato quando sia in gioco l’interesse supremo della sicurezza del Paese. Nel caso specifico, invero, il segreto di Stato riguardava i rapporti di collaborazione con Servizi stranieri, proprio uno dei casi considerati dalla Corte come legittimanti il ricorso al segreto stesso. Per questi motivi, i Servizi rappresentano un nodo delicatissimo del complesso rapporto tra sicurezza, libertà e democrazia, e costituiscono un osservatorio cruciale.
In una prospettiva storica, è nel periodo della guerra Fredda che questa struttura assume un rilievo particolarissimo. E lo afferma anche il professor Giuseppe De Lutiis, certamente il maggiore storico dell’intelligence italiana, nella sua opera “I Servizi segreti in Italia”, quando spiega che il periodo che va dal 12 marzo 1947 (giorno nel quale il presidente degli Stati Uniti Truman enunciò la dottrina che avrebbe preso il suo nome) al 9 novembre del 1989 (caduta del muro di Berlino) coincide con quello di massimo potere dei Servizi segreti in tutto il mondo.
Gli apparati di intelligence, infatti, furono trasformati in agenzie informative con bilanci di migliaia di dollari e alcune di esse sono diventate centri decisionali dotati di un potere immenso, in grado talora di condizionare le scelte degli stessi governi. La guerra Fredda, surrogato della terza guerra mondiale, impedita dall’equilibrio del terrore, rese i Servizi segreti protagonisti di un conflitto a bassa intensità che, particolarmente in Italia, ha spesso assunto la forma di una guerra non ortodossa. In questo quadro, il compito di difendere con ogni mezzo lo status quo internazionale ha costituito per decenni l’attività prioritaria dei Servizi.
Ora, naturalmente non dobbiamo dimenticare che nel nome della sicurezza, dall’altra parte del muro di Berlino c’era la dittatura e persino il principio della sovranità limitata degli Stati. E c’era il dominio delle polizie segrete: qualcuno di voi forse avrà visto il bellissimo film “Le vite degli altri”, dove si racconta della vita di intellettuali tedeschi sotto il controllo della Stasi, i Servizi segreti della Germania Est.
Anche nel mondo multipolare, tuttavia, questa dimensione della sicurezza ha esercitato un condizionamento fortissimo, sia sulla libertà delle persone che sul funzionamento della democrazia. Non a caso è in questo periodo che si afferma il concetto giuridico del segreto di Stato.
Il nostro Paese non è stato risparmiato da questi fattori, anzi. Non intendo certo ripercorrere in questa sede tutti gli avvenimenti, fatti acclarati su cui esistono sentenze della magistratura e una ricchissima documentazione archivistica. Basta citare, ad esempio, la recente pubblicazione di Mimmo Franzinelli sul Piano Solo. Un libro in cui viene ricostruita, attraverso fonti d’archivio estremamente interessanti, la vicenda di quello che fu un vero e proprio progetto di colpo di Stato, elaborato e mai realizzato, ma la cui minaccia ebbe sicuramente una grande influenza sugli sviluppi della vita politica italiana. Così come hanno fortemente condizionato la vita pubblica del nostro Paese fenomeni di stragismo di Stato e di terrorismo nel periodo a cavallo tra 1968 e la fine degli anni ’70.
Dal lavoro di De Lutiis emerge un altro aspetto, ovvero che l’attività dei Servizi in quegli anni è stata impropriamente definita “deviata”. In effetti, anche la lettura del saggio sul Piano Solo dimostra che il generale De Lorenzo non era l’esponente di un mondo “deviato”, ma operava nell’ambito di direttive politiche o nel quadro di quella che De Lutiis definisce la “doppia lealtà”: una lealtà verso lo Stato democratico e una lealtà verso il sistema delle alleanze occidentali guidato da potenze straniere. Parliamo di un sistema internazionale che ha fortemente inciso sul funzionamento dei nostri apparati di intelligence, rappresentando il frutto più amaro della loro subalternità.
Ancora, il volume di Franzinelli dimostra, al di là di ogni ragionevole dubbio, che a impedire la realizzazione del Piano Solo fu l’Amministrazione americana, che aveva un rapporto diretto con i nostri Servizi e nella quale prevalse, con l’avvento alla presidenza di John Fitzgerald Kennedy, un orientamento favorevole al centrosinistra e contrario a una prova di forza nel nostro Paese.
Quindi, nel concreto svolgimento della storia italiana, seppure a partire da quei principi costituzionali così fortemente innovativi, la guerra Fredda ha operato sviluppando una dimensione securitaria talmente potente e in parte connessa a centri di direzione non democratici e anche non nazionali, da condizionare notevolmente, per ragioni di sicurezza, il dispiegarsi della vita democratica. Insomma, quella “doppia lealtà” di cui parla De Lutiis.
Tutto questo, naturalmente, ha portato a una distorsione nel funzionamento degli apparati di sicurezza, i quali sono stati costituiti allo scopo di controllare la vita politica interna più che garantire la sicurezza esterna del Paese.
Intendiamoci, ciò ha avuto anche delle spiegazioni di carattere storico e politico. Perché non c’è dubbio che, per tutta un’epoca e almeno fino al 1989, il comunismo internazionale abbia rappresentato una minaccia concreta, non fittizia o inventata, ed è certo che dall’altra parte del Muro vi fossero dittatura e oppressione. Ciò non toglie, tuttavia, la grande influenza che il clima di quegli anni ha esercitato sulla storia italiana, con una dimensione ipertrofica della sicurezza che ha finito per condizionare il normale funzionamento della vita democratica, i principi costituzionali e le ragioni della libertà dei cittadini.
E non è un caso che la fine della guerra Fredda abbia coinciso con un profondo ripensamento del rapporto tra sicurezza e democrazia: sia con l’avvento della convinzione che fosse possibile sviluppare una democrazia più aperta, meno condizionata e meno vincolata, sia con l’idea di raggiungere una piena indipendenza del nostro Paese, legato pur sempre a un sistema di alleanze internazionali, ma senza quei vincoli di doppia lealtà appartenenti alla logica della contrapposizione tra blocchi.
Una nuova stagione in cui si è verificato anche un grandissimo avanzamento della democrazia. Mi riferisco a quella possibilità di ricambio delle classi dirigenti, di un’alternanza al governo del Paese che certamente ha rappresentato un grande progresso rispetto a una democrazia bloccata. D’altronde, per molti anni l’esistenza di un grande partito comunista aveva costituito un impedimento a tale ricambio e uno dei fini degli apparati di intelligence era proprio quello di mantenere in stallo la democrazia.
Questo grande processo democratico non è stato soltanto un fenomeno nazionale, ma ha avuto una straordinaria fioritura all’Est, dove la fine della guerra Fredda ha consentito l’avvento di nuove democrazie laddove c’erano regimi dittatoriali e, in generale, ha aperto una nuova stagione della vita internazionale. Penso, ad esempio, all’America Latina. Quale retrovia dell’impero americano, quel continente ha subito fortemente il peso della guerra Fredda, ma ha poi assistito al crollo delle dittature militari e alla nascita di nuove democrazie, che altro non erano se non i frutti di medio-lungo periodo della caduta del muro di Berlino.
Tuttavia, credo che siamo entrati nella nuova stagione anche sulla base di grandi illusioni. Mi riferisco, ad esempio, all’idea che la caduta del comunismo aprisse la strada a un mondo pacificato, nel quale venivano meno le minacce che avevano costituito motivazione per pesanti apparati di sicurezza. Penso anche all’illusione che, in qualche modo, questo allentarsi delle ragioni preminenti della sicurezza potesse favorire una globalizzazione all’insegna della de-statalizzazione, ossia della riduzione dell’invadenza degli Stati e, in generale, della politica. Tutto ciò si è accompagnato a un’altra illusione, quella tecnocratica: un’ideologia dell’autoregolazione del mercato e di un mondo nel quale, finalmente, la libertà economica sarebbe stata il principio guida. In sostanza, si è creduto che, una volta rimossi gli ostacoli preposti dagli apparati pubblici, il libero mercato avrebbe provveduto da solo alla più razionale allocazione delle risorse, offrendo a ciascun essere umano la possibilità di realizzare pacificamente i propri progetti di vita. In realtà non è stato così.
Concretamente la globalizzazione neocapitalistica, neoliberista, che si è fatta strada all’indomani della caduta del comunismo, non si è evoluta in questa forma irenica, non ha rimosso le ragioni dello Stato e della sicurezza. Al contrario, si è chiaramente evinto che il mercato, se privo di una regolamentazione e di una guida politica, non soltanto non crea quelle condizioni di piena e pacifica realizzazione di sé che aveva promesso, ma concretamente genera esso stesso nuove ragioni di conflitto e nuove pesanti minacce.
Innanzitutto, ha provocato grandi squilibri di carattere economico. In nessun periodo della storia dell’umanità come negli ultimi vent’anni si sono accompagnati due fenomeni apparentemente contraddittori tra loro: un’enorme crescita della ricchezza globale e un’impressionante aumento delle diseguaglianze che, al contrario, generalmente si riducevano nei periodi di crescita della ricchezza attraverso i meccanismi redistributivi. In questa fase, invece, non solo sono aumentate le diseguaglianze tra ricchi e poveri su scala globale, ma anche all’interno dei Paesi ricchi. E siamo giunti al punto di una drammatica crisi economica che, come ci hanno spiegato gli economisti, dipende dalla caduta dei consumi causata dall’impoverimento delle classi medie e delle classi lavoratrici dei Paesi avanzati. D’altra parte, la grande caduta dei consumi che ha fatto esplodere la bolla immobiliare è avvenuta negli Stati Uniti d’America e poi in Europa, non nel Bangladesh.
Ma la globalizzazione senza Stato ha prodotto anche un’accentuazione dei conflitti di carattere etnico-religioso e ideologico, perché l’idea che il mercato potesse portare a un’omologazione culturale del mondo ha finito, al contrario, per eccitare i particolarismi, facendoli degenerare in forme ostili e bellicose.
Il fondamentalismo islamico, infatti, non è residuo di una cultura antica, ma un fenomeno culturale e religioso moderno. L’Islam, per sua tradizione, è tollerante: fenomeni di estremismo nascono successivamente. Il primo testo del fondamentalismo sciita, “Occidentalite”, spiega che il ritorno all’Islam è necessario per difendersi dall’invadenza culturale dell’Occidente. Come dicevo prima, dunque, i fondamentalismi sorgono come reazione al timore di un’omologazione del mondo, il che dimostra anche che la globalizzazione non è un processo che può essere affidato al mercato, ma ha bisogno di una guida politica in grado di regolarlo per ridurre i conflitti, produrre nuovi equilibri, prevenire i rischi che porta con sé. Questo processo non regolato, invece, ha generato fenomeni che non erano stati previsti e che, dopo l’attacco alle Twin Towers dell’11 settembre, hanno assunto una particolare rilevanza nel mondo occidentale.
Ma anche americani ed europei – questi ultimi in modo persino più accentuato – hanno via via percepito la globalizzazione come il crescere di nuove minacce contro l’Occidente: minacce di carattere economico, con la competizione dei Paesi emergenti e il “pericolo” cinese o indiano; minacce di carattere demografico, con flussi migratori non controllati particolarmente inquietanti dal punto di vista europeo. Parlo di un fenomeno che riguarda soprattutto l’Europa, per la quale l’impatto culturale e sociale dell’immigrazione è estremamente più problematico da governare, mentre l’America è un Paese multietnico, multiculturale, più predisposto ad accogliere gli altri. E, infine, minacce di carattere securitario, come il fondamentalismo islamico e il terrorismo.
Insomma, in Occidente ha trovato terreno fertile quella che molti politologi e sociologi definiscono una “politica della paura”. Zygmunt Bauman, tra i più acuti sociologi contemporanei, ha parlato di un’epoca di profonde incertezze, in cui contrariamente alle promesse illuministiche, razionalistiche e tecnocratiche della globalizzazione neoliberale, tutta la vita degli individui è diventata una lotta lunga e impossibile da vincere contro l’impatto invalidante delle paure e contro i pericoli veri o presunti che viviamo. E questo crescere delle paure ha avuto un effetto rilevante dal punto di vista politico, perché si è accompagnato, non a caso, alla ricerca di ciò che alcuni studiosi hanno definito una “torsione esecutiva” nel funzionamento delle nostre democrazie. Mi riferisco al bisogno di un potere forte che spesso ha assunto un carattere populistico e plebiscitario, che ci protegga dalle minacce vere o presunte, il che ha determinato una maggior propensione verso il potere personale. E la personalizzazione della politica è un aspetto connaturato alla politica contemporanea.
Tuttavia, normalmente nei grandi sistemi democratici, l’estrema personalizzazione è bilanciata da strumenti di controllo parlamentare e di partecipazione dei cittadini. Ciò accade persino nelle democrazie in cui questo carattere è più accentuato. Si dice, ad esempio, che il presidente degli Stati Uniti sia l’uomo più potente del mondo, ma non è così, perché i suoi atti necessitano del via libera del Senato. Si tratta certamente di un sistema nel quale è molto visibile il bilanciamento tra potere di controllo collettivo – quello parlamentare – e potere personale. Così anche nel Regno Unito il Primo ministro è ritenuto da molti costituzionalisti la figura politica più forte che esista, in quanto capo di governo e capo della maggioranza parlamentare. Ma, se il suo partito decide di cambiarlo, può farlo senza dover ricorrere alle elezioni. Ne abbiamo avuto prova con la sostituzione in Parlamento di personalità del rilievo di Margaret Thatcher o Tony Blair.
Insomma, il potere personale nell’esperienza delle democrazie occidentali è sempre stato fortemente bilanciato da forme di controllo parlamentare o partitico che hanno funzionato garantendo un equilibrio. Negli anni più recenti, questo equilibrio si è in parte incrinato, soprattutto nelle democrazie più confuse dove il potere personale di tipo populistico plebiscitario ha via via preso il sopravvento. In materia, noi rappresentiamo un esempio quasi di scuola, ma si tratta di un rischio insito in tutte le democrazie occidentali.
Al fondo di queste tendenze, vi è una crescita incontrollata delle paure: come sempre è avvenuto nella storia, la deriva securitaria urta con la democrazia e il suo funzionamento, determinando una torsione esecutiva, ossia il prevalere del potere esecutivo e l’insofferenza rispetto alle forme di controllo e di partecipazione democratica.
Ecco, dunque, che le grandi speranze suscitate dalla fine della guerra Fredda appaiono oggi messe in discussione da una politica della paura. Basta pensare al dibattito che si è aperto in un Paese come gli Stati Uniti, molto attento al tema delle libertà individuali, sulle violazioni del Patriot Act, la legislazione di emergenza americana. Per non parlare della vicenda di Guantanamo, che è diventato quasi un emblema dello stato di eccezione e della violazione dei diritti umani nel nome della sicurezza.
Fino a che punto è lecito violare i diritti umani per motivi securitari? In che misura l’Occidente rischia di rinnegare i suoi valori fondamentali? Si tratta di una cruciale questione di carattere politico ed etico che oggi forse rappresenta uno dei più grandi interrogativi che sono di fronte a noi.
In queste settimane assistiamo a un grande moto democratico che sconvolge il mondo arabo e che viene accolto da una paradossale sorpresa e imbarazzo del mondo occidentale, in particolare dell’Europa. Paradossale perché, in definitiva, tali rivolte mirano ad affermare quegli stessi principi e valori che sono a fondamento delle nostre società e che sono scritti nella Carta europea dei diritti fondamentali. Ciononostante, l’Europa appare spiazzata. Meno, invece, gli Stati Uniti che, con il cambio dell’Amministrazione e l’abbandono della dottrina Bush, appaiono maggiormente in grado di mettersi in sintonia con questo movimento, anche lì non senza una certa disinvoltura. In proposito, è apparsa qualche giorno fa sull’Herald Tribune una bellissima vignetta nella quale Hillary Clinton dichiarava: “Gli Stati Uniti sostengono con fermezza le rivoluzioni contro i dittatori che abbiamo sostenuto con fermezza”. E’, grosso modo, il riassunto della posizione americana.
Ecco, l’Europa fa fatica persino a unirsi a questa fermezza, perché la sua politica verso l’altra sponda del Mediterraneo – e lo dico anche in modo autocritico – è stata dominata dalle ragioni della sicurezza e dalla convinzione che esse potessero essere garantite maggiormente da quei regimi autoritari.
In definitiva, penso che siamo ben lontani dall’aver definito un nuovo equilibrio, un nuovo bilanciamento tra le ragioni della sicurezza e le ragioni della democrazia, ma probabilmente si tratta di un processo incessante. Inoltre, perché questo equilibrio funzioni, appare evidente, oggi più che mai, la necessità di un primato del diritto. A tal fine si rende necessaria altresì la crescita di istituzioni sovranazionali in grado di assicurare tale primato, dal momento che lo Stato sembra non essere più sufficiente.
Pensiamo, ad esempio, al principio internazionale della responsabilità di proteggere le popolazioni anche nei confronti del loro stesso Stato, ossia in violazione del principio di sovranità. E’, questo, un tema estremamente delicato che non può essere trattato con semplicità. E’ una materia che chiama in causa la responsabilità della politica, che qualche volta viene messa di fronte a scelte drammatiche, come è il ricorso all’uso della forza sia sul piano politico che sul piano etico personale. Nella mia vita non avrei mai pensato di guidare un governo come quello durante il quale si decise l’intervento nei Balcani.
In questa fase di nuove minacce e nuove speranze è quindi essenziale che cresca una dimensione del diritto e istituzioni di natura internazionale in grado di far rispettare le leggi in un mondo sempre più unificato.
Tutto ciò, naturalmente, pone anche il tema della sicurezza dello Stato in una dimensione diversa, nella quale, a mio giudizio, deve prevalere la nozione di sicurezza umana. D’altra parte, nel mondo globalizzato la sicurezza delle persone diventa più importante di quella degli Stati e questi ultimi, finché ne sono in grado, devono garantirne la tutela, altrimenti devono subentrare altri strumenti, cioè, appunto, istituzioni della comunità internazionale. Oltretutto la sicurezza umana è un concetto molto più ampio che non la semplice difesa dai pericoli, perché comprende la possibilità di promuovere la personalità individuale, l’idea della sicurezza ambientale, della sicurezza del lavoro e così via. Si deve affermare una nozione di sicurezza molto più ricca, così come deve essere più articolata la relativa strumentazione istituzionale, che affidi il compito di promuoverla e garantirla non più soltanto allo Stato nazionale.
E vorrei concludere questa prima parte con una citazione di un teorico democratico, Ronald Dworkin che, in polemica con la politica della paura, ha scritto: “La prudenza del terrore è l’unica virtù che sembriamo oggi riconoscere. Ad essa sacrifichiamo il coraggio e la dignità che cedono di fronte al pregiudizio meschino e codardo che la nostra sicurezza sia l’unica cosa che conta”.
La metafora dell’equilibrio tra diritti e sicurezza non basta più. Il vero problema è il rapporto tra sicurezza, onore e dignità della persona e coerenza nella lotta per affermare i nostri valori.
Ecco, credo che qui si giochi un tratto essenziale della dignità dell’Europa. Il giorno in cui dovesse accettare nuovamente l’idea che possa essere calpestata la libertà di un essere umano nel nome della nostra sicurezza, l’Europa perderebbe se stessa, i suoi valori e, alla lunga, anche la sua sicurezza.

RISPOSTE ALLE DOMANDE:


LIBIA. Ieri il Parlamento ha discusso della partecipazione italiana alle missioni internazionali in applicazione della risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Personalmente, sono favorevole a quella decisione e penso che l'Italia debba fare ciò che è ragionevole per attuarla, ma credo che in questo caso ciò che ha mosso il Consiglio non siano state le preminenti ragioni di sicurezza. Del resto, da questo punto di vista, qualcuno penserà che Gheddafi fosse una maggiore garanzia per il nostro Paese, perché ci assicurava le forniture di petrolio, fermava gli immigrati e via dicendo.
Tuttavia, se la comunità internazionale interviene in Libia è per difendere la popolazione libica, perché quando un governo arriva a bombardare con l’aviazione le città del proprio Paese, perde ogni legittimazione. Il Consiglio di Sicurezza ha quindi riconosciuto che è responsabilità della comunità internazionale proteggere i libici e l’intervento è diretto esclusivamente a garantire la sicurezza dei cittadini e a consentire che il moto democratico in atto possa portare a una transizione pacifica.
Insomma, la responsabilità di proteggere e il diritto a intervenire in violazione della sovranità degli Stati rappresentano un principio da maneggiare con molta cura, che si presta a obiezioni di vario genere, perché da un lato si rischia un uso prevaricante, dall’altro è chiaro che è difficile applicarlo egualmente a tutti i Paesi. Pensiamo, ad esempio, a cosa vorrebbe dire intervenire per garantire i diritti dei cittadini di una grande potenza nucleare. Eppure, il fatto che non siamo nelle condizioni di intervenire sempre, non significa che non si debba intervenire mai. Se in Parlamento noi abbiamo contestato il documento presentato dalla maggioranza è perché esso mescolava le ragioni dell'intervento con il tema dell'immigrazione: due questioni che vanno tenute ben distinte.
Certo, la situazione che si è creata nel Nord Africa ha determinato un’emergenza. E non mi riferisco soltanto alla guerra in Libia, ma anche al tracollo delle istituzioni statali in altri Paesi che, dopo la caduta dei regimi, si trovano impegnati in una difficile transizione verso un nuovo assetto, come, ad esempio, la Tunisia.
In questo quadro si pone il tema della distinzione tra profughi, immigrati o clandestini, che appassiona una certa parte della politica italiana, ma che, secondo me, costituisce una differenza minima. Se da una parte non c’è dubbio che, dal punto di vista del diritto internazionale, i libici siano profughi, dall’altra parte i tunisini, che scappano da un Paese in cui non c'è la guerra ma che tuttavia sta attraversando una situazione di collasso, che siano essi profughi o immigrati, non potranno certo essere processati per il reato di immigrazione clandestina. Tutto ciò dimostra la stupidità della legge che istituisce tale reato, oltre che la sua inapplicabilità.
Detto questo, credo che il problema debba essere affrontato con saggezza e in maniera solidale, anzitutto tra italiani. E’ curioso, infatti, che invochiamo l’appoggio dell’Europa quando abbiamo faticato a dimostrare solidarietà tra noi per primi. Mi riferisco, ad esempio, all’atteggiamento tenuto durante la crisi di Lampedusa: un’isola che evidentemente non può ospitare migliaia e migliaia di immigrati, i quali devono essere trasferiti altrove, quindi le altre regioni non possono non farsene anch’esse carico.
Credo che un grande Paese come il nostro debba affrontare questioni così delicate con meno lamentele e senza strumentalizzazioni. Durante la guerra in Kosovo, quando ero a capo del governo, scapparono da quel Paese circa quattrocentomila persone: un esodo impressionante. Noi valutammo che, se non avessimo agito, sarebbero andati tutti in Albania. All’epoca era un Paese poverissimo, dunque non certo in grado di accoglierli e assisterli. Il risultato sarebbe stato che, in poco tempo, avremmo avuto un Adriatico invaso da persone dirette verso l’Italia. Affrontammo quindi il problema organizzando una grande operazione di assistenza dei profughi direttamente in Albania, al confine con il Kosovo, perché partivamo dall’idea che si trattasse di un’assistenza temporanea. In un secondo momento, infatti, avremmo accolto in Italia venticinquemila persone, senza bisogno di tendopoli. Dalla mia esperienza vi posso assicurare che un Paese di cinquanta milioni di abitanti, ricco come il nostro, è perfettamente in grado di accogliere e ospitare venticinquemila persone senza bisogno di finire nei titoli dei giornali. Anzi, un’operazione simile andrebbe svolta in modo efficace e silenzioso. Tutta questa confusione è un’evidente manifestazione di incapacità amministrativa, oltreché una vergogna.
Certo, sono del tutto favorevole al fatto che ci sia una corresponsabilità europea. Ha ragione il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, quando lamenta l’assenza di solidarietà da parte degli altri Paesi membri. Tuttavia, mi sono permesso di dirgli che tale mancanza dipende dal fatto che l’Europa è governata da partiti simili a quello che lui rappresenta in Italia. E l’ho avvertito che se l’Europa è governata dalle leghe, ce ne sarà sempre una più a Nord della Lega Nord.
Ciò non toglie che vi sia stata una grave assenza dell’Europa. Tornando al caso del Kosovo, noi riuscimmo a ottenere un sostegno internazionale anche oltre l’Europa stessa: ci costò caro, ma decidemmo persino di mandare dieci profughi in Australia, a testimonianza del livello di solidarietà che si era creato. Naturalmente, per avere solidarietà occorre anche un governo in grado di ottenerla, ma questo è un problema di diverso ordine.


GOVERNANCE GLOBALE. Il sistema di istituzioni internazionali più legittimo è certamente quello delle Nazioni Unite. D’altronde, ogni tentativo di prescindere dalla centralità dell’Onu ci porta verso organismi la cui legittimità non è pienamente riconosciuta. Pensiamo alla parabola del G7 e G8, che, nati per esigenze di razionalità, alla fine sono apparsi come club dei potenti e, come tali, invisi alla maggioranza dei popoli. Il G20, invece, ha una diversa legittimazione, ma col tempo farà la fine del G8, perché ci sarà sempre un ventunesimo Paese che si sentirà escluso. In ogni caso, se non si può certo accantonare il sistema delle Nazioni Unite, sono anche convinto che esso vada profondamente riformato e reso più efficace. In questo quadro, diventa indispensabile un sistema efficiente di istituzioni regionali, delle quali l’Unione europea è certamente l’espressione più significativa.
Accanto a ciò, c’è il grande problema di accountability degli organismi monetari e del funzionamento delle istituzioni finanziarie ed economiche internazionali. Essi non possono restare organi tecnici nelle mani dei maggiori Paesi, ma devono diventare istituzioni maggiormente rappresentative.


SEGRETO DI STATO. Riguardo al tema della durata del segreto di Stato, la legge di riforma dei Servizi segreti (l. 124/2007) è chiarissima: essa sancisce che tale segreto non possa essere prolungato oltre i trent’anni. Un principio, questo, che purtroppo è rimasto sin qui inapplicato, perché manca il regolamento attuativo della norma che lo prevede. E’ attualmente in corso una discussione impegnativa sul regolamento e il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir) ha preso posizione affinché la legge sia pienamente e letteralmente rispettata.
Altra questione delicata è l’opposizione del segreto di Stato, che chiama in causa il principio di responsabilità politica. Dal momento che esiste un potere di opposizione quasi arbitrario da parte del presidente del Consiglio, se ne deve fare un uso responsabile.
E’ un tema che solleva diverse considerazioni. Da una parte, infatti, vi sono settori della magistratura che contestano in toto lo strumento del segreto di Stato. Tanto che, in alcuni casi, i giudici hanno fatto ricorso alla Corte costituzionale, che però ha dato loro torto. Dall’altra parte, tuttavia, non mancano gli abusi. A mio giudizio, ad esempio, l’aver confermato l’opposizione del segreto ai magistrati che indagavano sulla famosa sede di via Nazionale e sull’operato di Pio Pompa, ha rappresentato un uso arbitrario del potere di opposizione. Insomma, parliamo di uno strumento estremamente delicato, che va usato in casi eccezionali, con molta saggezza e responsabilità.
In questo ambito, il controllo parlamentare è efficace soltanto se si forma una maggioranza all’interno del Comitato che, nel caso in esame, ritenga immotivata l’opposizione del segreto da parte del presidente del Consiglio. Ma qual è il punto? Per legge il Copasir è un organismo paritario, composto da cinque membri dell’opposizione e cinque della maggioranza, perciò spesso non si raggiunge un numero sufficiente per decidere.
Inoltre, la maggioranza parlamentare è espressione del governo che ha opposto il segreto, il che pone la delicata questione del rapporto tra governo e Parlamento.
In Italia, infatti, per via di una legge elettorale profondamente distorsiva e sbagliata, si crea una situazione tale da indebolire fortemente la funzione di controllo attribuita al Parlamento. Perché se il candidato premier è colui che compone le liste elettorali, è evidente che, una volta al governo, si sostanzia un vincolo che vanifica qualsiasi autonomia del gruppo parlamentare della maggioranza rispetto al capo dell’esecutivo. Si tratta di un nodo fondamentale che riguarda l’equilibrio dei poteri dello Stato, che purtroppo è stato stravolto dalla legge cosiddetta “porcellum”, che ha determinato l’affermarsi di una costituzione materiale in contrasto con quella scritta.

RAPPORTO POLITICA E MAGISTRATURA. Nel nostro Paese la situazione è senza dubbio gravemente inquinata, perché, da molti anni a questa parte, di tutto si può parlare meno che di leale collaborazione tra magistratura e politica. Un clima che, a mio parere, è urgente ripristinare. Fortunatamente, si adopera in questa direzione il nostro presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che non solo difende la Costituzione, ma rappresenta un punto di equilibrio e di saggezza. Anche nelle sue vesti di presidente del CSM, non ha mancato di avanzare critiche verso il potere giudiziario nei momenti in cui quest’ultimo è stato tentato di esercitare un ruolo direttamente politico o di censore della vita pubblica. Un ruolo che non compete alla magistratura, il cui compito è quello di perseguire i reati.
Al tempo stesso, però, la politica si mostra spesso insofferente rispetto al controllo di legalità, ritenendolo erroneamente superato dal principio democratico maggioritario e, così facendo, in qualche modo minaccia l’autonomia stessa della magistratura. Si tratta quindi di un difficile equilibrio che deve essere ricostruito, da una parte difendendo in modo intransigente l’indipendenza dei giudici, perché essa è garanzia per tutti i cittadini, dall’altra vigilando affinché la magistratura non travalichi i limiti che la Costituzione pone al suo operato.
In fondo, la politica non ammette vuoti, e quando essa diventa debole – al di là di certe esibizioni muscolari – lo spazio finisce per essere invaso da altre forze: sistema dell’informazione, magistratura, mondo economico e via dicendo. Purtroppo, quando in un sistema democratico si indebolisce la politica e cresce il sentimento antipolitico, come è avvenuto in Italia in forme persino virulente, viene minato il funzionamento della democrazia stessa.
L’idea che la democrazia possa fare a meno della politica e dei partiti si è rivelata profondamente sbagliata. Abbiamo dovuto assistere a una fase nella quale era persino motivo di vanto presentarsi alle elezioni a sindaco sulla base del motto “state tranquilli, non ho mai fatto politica”. A questo proposito vorrei citare Benedetto Croce, che ironizzava paragonando questa situazione a quella del paziente che entra in sala operatoria e viene accolto da una persona con il bisturi in mano, che lo rassicura dicendo: “Stia tranquillo, non sono un chirurgo”.
Grazie.


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