Discorso
20 gennaio 2012

IL PD SI CANDIDA A GOVERNARE L'ITALIA ANCHE IN NOME DI UNA NUOVA PROSPETTIVA EUROPEA

INTERVENTO DI MASSIMO D’ALEMA ALL’ASSEMBLEA NAZIONALE DEL PARTITO DEMOCRATICO - FIERA DI ROMA


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Innanzitutto, vorrei dire che sono grato alla presidenza per aver deciso di aprire questa nostra assemblea dedicando una sessione all’Europa. Si tratta di una discussione importante che mostra come il destino del nostro continente, le scelte che l’Europa ha di fronte, rappresentino oggi un tema essenziale dell’impegno politico di un grande partito che voglia guardare al di là del proprio naso e che intenda affrontare con serietà i problemi dell’Italia.
Siamo a un passaggio cruciale, c’è davvero il rischio che questa crisi sia aperta a esiti diversi, compresi esiti di tipo catastrofico per l’Unione e per i suoi cittadini. E’ molto importante, quindi, che l’Italia sia presente in questo momento, con un governo credibile, in grado di essere ascoltato, di esercitare un’influenza, di restituire al nostro Paese il ruolo che gli è proprio come Paese fondatore e come grande Paese europeista.
Oggi, Berlusconi, dal palco del processo Mills, ha detto che lui dovrebbe essere “richiamato in servizio”! Dopodiché ha precisato che si trattava di uno scherzo, ma non ha riso nessuno in quel passaggio, anzi, siamo stati tutti percorsi da un brivido. Ecco, penso sia importante mantenere questo ricordo, perché il nostro Paese ha una memoria corta. Dico sempre che qualsiasi momento di incertezza o di critica verso il governo attuale può essere superato se, chiudendo gli occhi, pensiamo a quelli che c’erano prima, li immaginiamo tutti lì schierati, e pensiamo a quale straordinario passo in avanti sia stato venire fuori da quella situazione. Purtroppo, ne siamo usciti dopo un anno completamente perduto, nel quale la mancanza di governo ha trascinato il Paese nel punto più basso della sua credibilità europea e internazionale.
Vedete, nella crisi degli anni ‘90, l’Europa fu un punto di riferimento. E, in definitiva, per noi che fummo tra i protagonisti di una risposta positiva dell’Italia, prima con il sostegno ai governi tecnici, la novità Ciampi, il governo Dini dopo la parentesi Berlusconi, e poi con i governi dell’Ulivo, fu semplice indicare all’opinione pubblica la prospettiva dell’Europa, la necessità che l’Italia fosse parte del gruppo dei Paesi che si dotavano di una moneta unica europea. Tutto ciò fu la stella cometa di un’azione politica e anche di un rapporto con il Paese che coinvolse i cittadini, rendendoli protagonisti attivi e convinti. Ricordate il momento della tassa per l’Euro? Fu un grande periodo di partecipazione, di impegno civico, di orgoglio nazionale. E, come è avvenuto in altri momenti nella storia italiana, alcune fragilità interne alla nostra società hanno trovato nel vincolo internazionale un punto di forza, di sostegno, una risposta. Oggi, però, la crisi è ben più grave perché l’Europa ci appare come un riferimento incerto, problematico.
Quando parliamo di Europa dobbiamo immediatamente dire quale Europa vogliamo. In questo senso, la nostra partecipazione al processo europeo deve avvenire in termini di battaglia politica, non soltanto di adeguamento del nostro Paese a standard di modernità, a criteri che l’Europa ci indica.
Siamo impegnati nel passaggio delicato del trattato. E’ stato detto molto bene da diversi oratori prima di me, Roberto Gualtieri in modo più particolare se ne sta occupando. Ebbene, a mio giudizio, questo trattato è di per sé una scelta sbagliata, imposta principalmente dalle ragioni della politica interna tedesca. Dal punto di vista giuridico, inoltre, è un oggetto strano e pericoloso: un trattato intergovernativo che si colloca dentro un quadro di norme comunitarie. E’ evidente che con norme comunitarie a 27 e un trattato intergovernativo a 26, il rischio di sovrapposizione, di confusione e di incertezza normativa è molto grande. Credo, quindi, che nel negoziato intorno a questo trattato sia importante sostenere la battaglia del Parlamento europeo per ridurre l’anomalia intergovernativa e per ricondurre l’accordo a un primato del diritto comunitario e delle istituzioni europee.
Badate, c’è un aspetto che può apparire meramente tecnico, ma è un punto politico essenziale: la governance economica europea non può ridursi a un insieme, a un coacervo di regole semiautomatiche gestite da strutture burocratiche. Questo è il contrario della politica ed è il contrario della ragionevolezza, in una crisi drammatica come quella attuale. Altra cosa sarebbe prevedere una cessione di sovranità, stabilire che ciascun Paese si debba adeguare a obiettivi e vincoli via via decisi attraverso un processo democratico e trasparente.
Si tratta di due modi molto diversi di concepire l’integrazione, e - ripeto - gli automatismi e la burocrazia sono il contrario della democrazia e alla lunga logorano il consenso.
In questa prospettiva, il trattato deve essere il più possibile ricondotto a una logica di governance comune, anche attraverso un processo di cessione di sovranità. Esso va liberato, invece, da questi aspetti burocratico-automatici che potrebbero diventare una gabbia micidiale, in particolare per un Paese come il nostro, se costretto a un tasso di rientro irragionevole e incompatibile con l’andamento della crisi economica. Perciò occorre conquistare un margine di flessibilità, ma, nello stesso tempo, cercare il più possibile di condizionare il testo del trattato a una visione effettivamente democratica ed europeista, quale quella che oggi si impone. Naturalmente tutto questo non è facile, ma il governo italiano si muove con sufficiente autorevolezza nella direzione giusta. Certo, colpisce il fatto che sul dibattito europeo piombi la decisione delle agenzie di rating, che, a seconda di come si interpretano, possono servire anche a spalleggiare le posizioni più oltranziste dei conservatori tedeschi.
Insomma, dobbiamo prestare una grande attenzione in questo passaggio e poi dare uno sguardo che si spinga oltre questo trattato. C’è bisogno di un nuovo progetto, di una nuova prospettiva, di un mutamento radicale. Innanzitutto, degli indirizzi politici.
In questo quadro, è evidente che sono in gioco anche importanti questioni di natura istituzionale. Non bisogna dismettere la prospettiva di un’integrazione più alta, di un autentico federalismo, ma intanto la sfida avviene sul terreno delle scelte politiche che si possono compiere nell’ambito degli attuali trattati. Per esempio, non è proibito all’Europa di avere una politica estera comune, anzi, l’attuale Trattato fornisce moltissimi strumenti nuovi. Ma non ce n’è traccia. E non c’è sia per la debolezza politica delle istituzioni comuni, sia per l’assenza di una volontà dei maggiori governi.
La nuova prospettiva è quella che è stata qui indicata: solidarietà. D’altra parte, è chiaro che le difficoltà dell’euro derivano dal fatto che è una moneta unica priva di istituzioni comuni, di una politica economica comune, in un ambito come quello dell’Unione europea e dell’Unione monetaria, in cui esistono radicali squilibri di produttività. Questa situazione è insostenibile senza strumenti di aggiustamento.
All’origine della crisi non ci sono “alcuni Paesi spendaccioni”, come affermano molti osservatori: è proprio il sistema che non sta in piedi, se non si dota degli ammortizzatori in grado di governare gli squilibri di competitività e di produttività presenti all’interno di una sola area monetaria.
E’ questo ciò che la Germania della signora Merkel non capisce. Fortunatamente c’è tutta una parte della Germania che lo sostiene. E lo dice con chiarezza il documento - che è stato ricordato qui da Vincenzo Visco e, prima, da Bersani - dei Verdi tedeschi e dell’Spd. Parliamo di una coalizione che oggi rappresenta la maggioranza della Germania e che spero presto governi quel Paese. Lo ha detto con molta chiarezza anche Helmut Schmidt, quando ha affermato: dobbiamo ricordare ai tedeschi che il debito di molti Paesi dell’area euro è l’altra faccia del surplus tedesco e noi abbiamo un dovere di gratitudine e di solidarietà. Perché, secondo Schmidt, all’origine di questa situazione e di questa asimmetria c’è la Germania, che ha perseguito in modo abbastanza miope un suo interesse nazionale, senza rendersi conto che questo avrebbe messo in crisi un sistema comune da cui la Germania ha avuto enormi vantaggi.
In effetti, molti di noi comprano automobili tedesche perché sono fatte molto bene, certo, ma anche perché abbiamo l’euro, mentre non abbiamo più il vantaggio competitivo della lira. Insomma, i tedeschi ci hanno guadagnato parecchio e avrebbero maggiore interesse a proteggere questo sistema che non a spingere il vantaggio competitivo fino a metterlo in crisi nel suo complesso.
Dunque, dobbiamo darci gli strumenti di una gestione solidale, il meccanismo di stabilità deve funzionare in modo adeguato. Inoltre, bisogna pensare a un grande progetto di gestione del debito. In proposito ci sono idee interessanti, anche in Germania. Penso, in primo luogo, alla proposta di convertire la quota eccedente il 60% del debito sovrano dei singoli Paesi in titoli europei, non perché non vogliamo pagare i nostri debiti, ma perché questo sarebbe un modo per abbattere i tassi di interesse, scoraggiare la speculazione, liberare risorse per la crescita.
Occorrono, dunque, scelte molto coraggiose, che richiedono una svolta politica. E ci vuole una strategia per la crescita.
Cofferati ha evocato Keynes, il presidente del Consiglio si affida, invece, a ricette più liberali, nella convinzione che la crescita della concorrenza, l’apertura di nuovi mercati possano essere fattori fondamentali. Ora, non voglio aprire un dibattito, tuttavia, ritengo che, dal punto di vista italiano, avremmo bisogno di entrambe le cose. Ma anche a livello europeo, senza dubbio, la concorrenza, l’apertura di nuovi mercati, l’eliminazione di rendite, di monopoli nazionali, può essere un fattore di crescita. Ciononostante, è urgente predisporre un grande programma europeo di investimenti. In particolare, sull’innovazione, sui mutamenti che devono essere introdotti verso una conversione ecologica dell’economia, certamente, ma anche verso un nuovo modello sociale.
Voglio insistere su un tema che potrà apparire arcaico, ma che a me sembra essenziale. Una delle ragioni che hanno bloccato la crescita europea è l’eccesso delle diseguaglianze all’interno delle nostre società, che ha determinato una caduta dei consumi. E, siccome viviamo in un mondo estremamente competitivo, tutti vogliono esportare di più, ma questo naturalmente rende la competizione molto complessa. E’ difficile, quindi, pensare che la ripresa europea possa avvenire soltanto attraverso la competitività e le esportazioni. Essa dovrà passare attraverso una ragionevole crescita dei consumi interni, di consumi sociali, collettivi, beni comuni, di consumi delle famiglie. E questo comporta un riequilibrio, un riaggiustamento, una riduzione delle diseguaglianze.
Dunque, si rendono necessarie politiche pubbliche per ridurre le diseguaglianze e per promuovere investimenti, in particolare volti ad aumentare la produttività, la competitività, attraverso l’innovazione, la ricerca, la formazione.
Insomma, tutto ciò è parte di un programma progressista che vuole sia rafforzare le istituzioni, cioè la dimensione democratica, sia mutare i contenuti delle politiche europee. Ed è molto importante la novità che si delinea in questa crisi: una coalizione progressista, uno spostamento delle forze di centrosinistra in Europa verso un comune sentire europeista che fino a poco tempo fa non c’era. E questo è stato uno dei limiti dell’esperienza di governo del passato. Perché, è vero, le debolezze di oggi hanno le loro ragioni in due grandi momenti cruciali: dapprima la nascita dell’euro, senza le istituzioni e gli strumenti di governo della moneta che erano necessari, poi l’allargamento dell’Unione, senza approntare una riforma delle istituzioni e dei meccanismi di decisione.
In questo passaggio, certo, c’è stata anche una responsabilità delle forze progressiste del socialismo europeo che erano al governo in molti Paesi. Esse, infatti, erano prigioniere o della cultura del riformismo nazionale, quindi di una sostanziale diffidenza verso la dimensione europea, convinte che gli Stati nazionali fossero i veri garanti del welfare, convinzione illusoria nel mondo della globalizzazione, oppure subalterne a una visione della terza via, una concezione ottimistica per la quale, in definitiva, sarebbe stato compito dei mercati promuovere la crescita della ricchezza. Comunque, in quel momento, anche la sinistra ha mancato un appuntamento essenziale.
Oggi, al contrario, avvertiamo la crescita di un sentimento, di una volontà politica europeista. In questo senso, l’europeismo può diventare il vero discrimine di una nuova coalizione progressista. E qui c’è anche il contributo originale che il Partito democratico può portare.
Europeismo inteso anche in termini di recupero di un certo orgoglio europeo. In proposito, vorrei citare un articolo che ho letto qualche giorno fa, firmato da Nicholas Kristof, un grande giornalista americano che si trova in aperta polemica con i repubblicani. Vedete, la destra americana si avvia alle presidenziali accusando Obama di voler europeizzare gli Stati Uniti, facendo così dell’Europa l’idolo polemico di tutta la campagna elettorale. E Kristof li prende in giro in questo bellissimo articolo che comincia con una citazione in francese: “Quelle horreur!”, saremmo costretti a mangiare i croissant la mattina invece di quelle schifezze che mangiano gli americani! E prosegue con una straordinaria esaltazione dell’Europa.
E’ singolare che sull’Herald Tribune ci debbano ricordare che l’Europa, nonostante tutto, è la parte del mondo dove la salute delle persone è tutelata meglio, dove la qualità e la lunghezza della vita sono più elevate. Pensiamo che l’Italia, l’anno scorso, ha raggiunto l’invidiabile record di essere il Paese dove si vive di più. Non solo, siamo la parte del mondo dove è maggiormente difeso l’ambiente e tutelati i consumatori. Un altro paragone: ogni cittadino americano produce annualmente più di 12 tonnellate di CO2, a parità di Pil, ogni europeo circa 7,5. Non è proprio la stessa cosa!
Voglio dire che essere europeisti significa non soltanto guardare ai problemi dell’Europa e volerli affrontare insieme, ma anche recuperare un certo orgoglio del patrimonio di civiltà, di diritti, di qualità della vita, di democrazia che si è costruito in questo continente.
E credo che dobbiamo collocare anche la prospettiva politica italiana in una visione europea. I prossimi 18 mesi saranno cruciali per l’Europa. Ci saranno elezioni in Francia, in Italia e in Germania: tre grandi Paesi chiamati alle urne, per un totale di 200 milioni di cittadini europei su 330 milioni dell’area euro e su 480 dell’Unione. È senza dubbio un passaggio essenziale e, secondo me, non potrà che essere affrontato sulla base di una visione comune e di una campagna elettorale europea, sia pure prolungata, perché è in gioco non soltanto la guida politica di questi Stati, ma il destino dell’Unione. Anche perché né i francesi, né noi, né i tedeschi, sapremo affrontare le sfide del futuro al di fuori di una visione comune e coordinata delle politiche che sono necessarie.
E’ questo il nostro progetto, e abbiamo già avviato un lavoro comune di riflessione e di analisi che si aprirà con un grande convegno a Parigi il 16-17 marzo, nel cuore della campagna elettorale francese, per continuare a Roma e Berlino, accompagnando questa lunga stagione elettorale e cercando di interpretarla come una stagione europea.
Vedete, qui c’è una delle grandi ragioni del perché noi dopo Monti, e del perché, dopo l’emergenza, deve aprirsi una stagione di profondo cambiamento politico.
Il ritorno della politica - che non se n’è mai andata, dato che questo governo è frutto di una lotta politica - e il ritorno dei partiti che riacquistano un ruolo di governo del Paese non può essere presentato agli italiani come la rivendicazione di un ceto politico che vuole comandare, se no abbiamo perso prima di cominciare. Noi crediamo che non sia la politica, ma che siano i nostri valori che devono tornare a orientare questo Paese. Siamo noi, in quanto grande forza progressista, che ci candidiamo a governare l’Italia, dopo aver sostenuto con lealtà un governo serio per affrontare l’emergenza, anche in nome di una nuova prospettiva europea, alla quale noi possiamo partecipare e siamo partecipi sin d’ora.
Grazie.

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