Discorso
6 luglio 2012

I nuovi volti del populismo, l’antipolitica, i movimenti, i pirati all’assalto della cittadella della democrazia dei partiti - Bozza della relazione di Massimo D'Alema

Seminario a porte chiuse organizzato da Italianieuropei, Crs, Feps - Roma, Fondazione Italianieuropei, Piazza Farnese 101


Vorrei parlare della crisi dei partiti, che è l’altra faccia dell’insorgere del populismo nelle società europee, e del modo in cui essa è stata vissuta, in particolare a partire dagli anni ’80. E vorrei individuare linee di ricerca che si potrebbero suggerire per costruire una risposta efficace alla crisi dei partiti. Ora, è noto -lo dico con pudore di fronte a studiosi che hanno indagato con ben altra profondità queste tematiche- che il declino dei partiti, soprattutto nell’esperienza europea, è venuto imponendosi anche in relazione ai mutamenti nella composizione della società, all’incrinarsi di quel compromesso sociale, il welfare state, che è stato un elemento costitutivo dell’esperienza dei partiti nel Dopoguerra, e non solo di quelli operai di matrice socialdemocratica. Abbiamo vissuto quel declino del partito di massa, ideologico, che ha caratterizzato la vicenda europea in quest’ultimo trentennio, in modi diversi. In alcuni Paesi, come nel nostro, questo declino ha portato a vere e proprie crisi di sistema, rotture drammatiche come quella dell’inizio degli anni ’90, e a tentativi più o meno precari di rifondazione del sistema politico.

E’ evidente che le tradizionali linee di frattura intorno a cui si sono formati i partiti in età moderna hanno via via esaurito la loro carica vitale. O, perlomeno, queste linee di frattura hanno perduto la capacità di essere chiavi di interpretazione della società. Mi riferisco ai conflitti tra Stato-Chiesa, centro-periferia, e poi soprattutto ai grandi conflitti sociali e, nel nostro tempo, al conflitto operai-capitale.

Abbiamo assistito a un processo di trasformazione che potrebbe intitolarsi, in modo generico, “americanizzazione della vita politica europea”, con la crescita della personalizzazione, del peso dei media e di quello dei poteri economici-finanziari, con la perdita di autonomia dei partiti e la loro progressiva permeabilità a blocchi di interessi che premono sui sistemi politici. E tutto questo è avvenuto nel contesto di un processo di globalizzazione economica che ha portato a uno svuotamento della politica nazionale.

Voglio dire che la crisi dei partiti non è interpretabile al di fuori di quella perdita di potere, quindi di forza, che ha caratterizzato la politica nazionale, lo Stato-nazione, nell’ultimo trentennio. Né è possibile comprenderla appieno senza quell’affermarsi di un dominio dell’economia sulla politica che ha portato a un indebolimento e a una mutazione dei partiti, a una riduzione della loro base organizzata, dei loro legami sociali e della loro identificabilità.

Pensate che solo negli anni ’80 è stato calcolato che in Germania, Inghilterra e Italia la forza organizzata dei partiti si è complessivamente dimezzata. E ha portato a quella tumultuosa trasformazione, a quell’inseguimento dei mutamenti sociali che ha visto i partiti trasformarsi progressivamente in partiti pigliatutto, partiti-cartello elettorale, fino al partito personale su cui Mauro Calise ci ha intrattenuto con ricerche e analisi di grandissimo interesse.

In sostanza, quello che si è logorato è il ruolo dei partiti come ponte tra società e Stato, quel carattere anfibio dell’istituzione-partito che l’ha resa particolarmente vitale. Si è avuta, quindi, una sorta di progressiva statalizzazione dei partiti, cioè una loro separazione dalla società, con il formarsi di un ceto politico a parte, indistinto, trasformato in un puro ceto amministrativo, sussunto dentro la dimensione statuale. Un fenomeno, questo, che ha rappresentato una delle condizioni per il sorgere della mobilitazione populista che fa, appunto, appello al demos contro l’èlite-ceto politico.

L’altra faccia del populismo è stata lo spostamento del potere reale verso luoghi sempre più opachi e inaccessibili, con il dominio della razionalità economica, di quello che è stato chiamato il “pensiero unico”. Questo ha progressivamente ridotto gli spazi di libertà, di libertà della politica, dell’esercizio della politica inteso come potere, come forza, come capacità di incidere attraverso la volontà sui processi reali dell’economia. E la politica si è presentata come uno spazio all’interno del quale non c’erano, e non ci sono, reali alternative, riducendosi così, come è stato scritto, a mera esecutrice dei compiti che l’economia le assegna.

Sul piano europeo ciò ha investito anche la forma in cui si è realizzata l’integrazione. Non è un caso, infatti, che essa sia l’altro grande bersaglio della mobilitazione populista.

Se è vero che la mobilitazione populista è appello al popolo contro le élite, all’ethnos nazionale contro la globalizzazione e l’integrazione europea, che appare la forma in cui l’Europa soggiace ai processi di globalizzazione, a livello europeo tutto questo assume la forma della separazione tra politics e policies. Una dicotomia che si potrebbe definire, gramscianamente, la contraddizione tra carattere cosmopolitico dell’economia e carattere nazionale della politica, per cui il luogo dove si decide (deliver) è sempre più lontano e incontrollabile.

La politica nazionale, dunque, diventa il luogo della narrazione sganciato dalla decisione, e il populismo diventa l’altra faccia della tecnocrazia.

Insomma, populismo e tecnocrazia sono le due facce della crisi della democrazia europea: la separazione del luogo della decisione politica (ridotta ad amministrazione, a tecnocrazia, svuotata delle alternative possibili e delle scelte reali) dal luogo della mobilitazione, provoca agitazione di carattere populistico e ideologico. E qui intendo ideologia nel senso di falsa coscienza, non nel senso di ideologia come elemento costitutivo di un movimento collettivo.

“Fare i compiti a casa”: ecco, nessuna espressione rende meno l’idea di questa frase, orribile, che sembra dominare il linguaggio politico europeo. Un’espressione che significa che la tecnocrazia europea detta gli indirizzi e la politica deve limitarsi ad eseguire le direttive che la razionalità economica dominante impone. Quindi se il problema della politica non è scegliere, ma fare i compiti a casa, questo sinceramente può essere svolto molto più efficacemente da un ceto tecnico-amministrativo che non da partiti politici.

Ora, il punto è come possono i partiti, e quindi la democrazia, uscire da questa morsa tra populismo e tecnocrazia, riguadagnando spazio vitale. Naturalmente, ciò comporta una riflessione critica sul modo in cui, nel corso di questi anni, di fronte a tali trasformazioni, i partiti hanno reagito. Hanno prevalentemente cercato di accompagnare le tendenze in atto, tentando di governare i processi di personalizzazione, di bilanciarli, ma accettandoli sostanzialmente come una deriva inevitabile, e in parte lo è. Inoltre, hanno seguito il processo di trasformazione in partiti elettorali, anche attraverso un ridimensionamento delle aspettative. Il mainstream, in questi 30 anni, è stato l’idea del partito non ideologico, programmatico, che poi è stato un modo di gestire un ridimensionamento del ruolo totalizzante del partito politico, che si deve muovere nel contesto di società molto articolate, con diverse forme di partecipazione e di mobilitazione sociale. Si tratta di un processo inevitabile, che ha anche un potenziale contenuto democratico.
Tuttavia, quando esso giunge sino alla disarticolazione e a una eliminazione di quegli elementi di collegamento tra società e Stato, il rischio è un indebolimento della democrazia, che porta a una democrazia senza qualità.

È possibile uno sforzo che vada in direzione contraria? E che tipo di ricerca e di impegno ciò richiede?Io penso a un’azione che deve essere condotta verso l’alto e verso il basso.

Verso l’alto, perché appare evidente che il partito politico europeo può tornare ad avere una funzione soltanto se, in qualche modo, si definisce in un orizzonte non meramente nazionale. La dimensione cosmopolitica europea diventa sempre più essenziale, così come il collegamento a un progetto non meramente nazionale lo è per restituire vitalità a un sistema di partiti. La nuova linea di frattura, senza negare la complessità del conflitto sociale, passa indiscutibilmente tra un capitalismo finanziario globalizzato e gli interessi sociali diffusi del cittadino lavoratore. In questo contesto, la politica non può che partire dalla capacità di costruirsi lungo tale linea di frattura.

Ma è anche chiaro che il partito politico, per tornare ad avere un senso, deve accentuare gli elementi di identità, andando dunque in una direzione completamente opposta rispetto alle tendenze degli ultimi 30 anni.

Per dirla in modo rozzo, il problema, dal nostro punto di vista, non è quello di “rimotivare la politica” in modo tale che ciò venga percepito come il tentativo di un ceto di riguadagnare una funzione sociale, dirigente. L’approccio, invece, è quello di rimotivare la sinistra. Voglio dire che la politica può rimotivarsi soltanto come conflitto, come capacità di prospettare alternative di medio-lungo periodo, come capacità di progetto e di visione.

Implicitamente, è la politica che, rimotivando se stessa come conflitto, può riguadagnare una funzione dirigente.

A mio parere, quindi, sono proprio gli elementi identitari che vanno riscoperti, rispetto a una tendenza di deideologizzazione, di riduzione alla dimensione programmatica. In realtà, questa politica con un’identità debole ha finito per cancellare le ragioni dell’appartenenza.

Questa -ripeto- è la direzione necessaria di marcia, e d’altro canto se oggi la politica in Europa riacquista un senso è proprio perché un certo conflitto destra-sinistra, a livello di istituzioni, torna ad essere visibile, dopo essere stato nascosto per molti anni. In definitiva, portare questo conflitto a livello sovranazionale è condizione anche per rimotivare la politica all’interno dei singoli Paesi.

Poi vi è un’azione che deve essere condotta verso il basso, avendo come obiettivo quello di ritessere un rapporto con la società, che naturalmente richiede una capacità di agire su più fronti, considerando diverse forme e strumenti della partecipazione, della codecisione, ma senza mitizzazioni. Mi riferisco alla capacità, che non c’è stata sin qui, dei grandi partiti tradizionali di fare della rete uno strumento di partecipazione e dialogo, evitando di scadere nella esaltazione della rete come nuova forma di assemblearismo, di democrazia diretta. Sappiamo bene, per esperienza, come questo tipo di ideologizzazioni abbia sempre un forte contenuto antidemocratico. L’abbiamo vissuto negli anni ’70 e stiamo vivendo tutt’oggi il carattere antidemocratico di questa mitizzazione. Ciò non toglie, però, che l’incapacità dei partiti, persino la loro impreparazione tecnica, nel valorizzare e agire tutte le forme di comunicazione sociale, di coinvolgimento, di codecisione, sia un elemento di arretratezza culturale.

I partiti sono alla ricerca di modelli di interazione con la società che assumono anche il carattere di forme di legittimazione. Pensiamo all’esperienza delle primarie che, dopo il caso italiano, in modi diversi, tende a contagiare altre realtà europee. In Francia, ad esempio, le primarie hanno indubbiamente avuto un ruolo di mobilitazione sociale intorno alla candidatura socialista.

Naturalmente, è una ricerca vitale, perché penso, da questo punto di vista, che i partiti, in particolare quelli che ci interessano di più, debbano saper assumere gli elementi di verità insiti nel populismo: l’appello al cittadino comune contro le élite, la protesta contro il carattere oligarchico del potere. In questo, infatti, la mobilitazione populista può assumere anche contenuti innovativi che non possiamo rigettare.

La questione cruciale, tuttavia, è che nel rapporto con la società non deve essere smarrita l’autonomia della politica, ovvero l’elemento identitario e comunitario. Se la politica -come abbiamo detto- deve tornare ad essere progetto, visione del futuro a partire da un gramsciano “spirito di scissione”, allora la partecipazione non può cancellare l’elemento della militanza, dell’appartenenza.

Insomma, sperimentiamo tutte le forme di interazione, ma l’iscritto al partito deve tornare a sentirsi parte di una comunità, il che comporta diritti e doveri. Se non vogliamo che la politica si riduca a un ceto separato che comunica attraverso la rete e le primarie con la società civile, i partiti devono anche tornare ad essere una comunità che muove sulla base di convinzioni comuni, legata da uno spirito di appartenenza. Le forme diverse di partecipazione non possono annullare il carattere speciale del rapporto che un partito ha coi suoi iscritti, i quali devono avere anche qualche potere in più.

Se, viceversa, la partecipazione annulla il loro potere, perché in qualche modo il partito si rende permeabile e scalabile, offrendo le sue decisioni a una sorta di coalition of willings, una coalizione che si crea inevitabilmente sotto l’impulso dei media, ciò prende solo la forma di un’apertura democratica, perché la sostanza è di subalternità culturale, di annullamento dei tratti identitari, di rinuncia all’autonomia della politica.

Questo sforzo di ritrovare un rapporto con la società, che deve essere pensato nei modi più aperti e molteplici, non può spingersi sino a sacrificare due concetti che mi paiono essenziali: l’autonomia della politica, cioè la sua capacità di autodeterminare le scelte nel confronto con la società, e lo spirito di appartenenza, cioè la realtà del partito come comunità di iscritti. Altrimenti, come dicevo prima, il partito si condanna ad essere una élite professionale che comunica con la società attraverso diversi canali, ma che, in definitiva, rinuncia a una funzione di indirizzo.

E’ una sfida molto complessa. Calise direbbe che quello che dico è sbagliato, che bisogna prendere atto del ridimensionamento del ruolo dei partiti, che il baricentro della democrazia si sposta sulle persone e sulle istituzioni, che i partiti devono essere strutture serventi.

Forse questa tendenza è inesorabile. Ma in essa, però, io vedo un rischio molto forte: non soltanto lo svuotamento della democrazia, ma la perdita del partito come soggetto del cambiamento e di innovazione sociale, una potenzialità che è stata la ragione dei grandi partiti in età moderna e contemporanea. E’ questo il rischio che mi preoccupa di più. Il partito personale, infatti, è inevitabilmente un partito che rinuncia a un orizzonte di cambiamento, riducendo molto il fascino e il senso dei partiti.

Quindi, per quanto sia impegnativa una linea di ricerca diversa, credo che per una forza di sinistra sia una linea irrinunciabile.

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