Discorso
24 ottobre 2011

Intervento di D'Alema alla presentazione del volume "Al Wasit" di Abrah Malik


Innanzitutto vorrei ringraziarvi per l'invito a presentare un'opera che trovo di grande valore. Non essendo uno specialista, non sono in grado di valutare questo volume nella sua specificità, cioè dal punto di vista della sua efficacia pedagogica come strumento di conoscenza della lingua italiana per gli arabofoni. Tuttavia, sono ben in grado di apprezzare il significato che essa assume quale  strumento fondamentale per quanti – e non sono pochi – vengono nel nostro Paese per vivere e lavorare.
Proprio in questi giorni abbiamo visto molti cittadini tunisini, residenti in Italia, partecipare alle elezioni che si sono svolte in Tunisia: parliamo di oltre 120000 persone che hanno eletto 3 parlamentari. Dobbiamo sapere che, con l'affermarsi della democrazia nella sponda sud del Mediterraneo, il rapporto, anche politico, che si costruirà tra le comunità che vivono qui e i loro Paesi di origine sarà un elemento di arricchimento per l'Italia.
In questo senso, Al Wasit può rappresentare uno strumento importante per i giovani che dal mondo arabo, in particolare dal Maghreb, vengono a vivere da noi, per conoscere e apprendere la lingua italiana, ma anche per poterla diffondere nei loro Paesi di origine. Non c’è dubbio, infatti, che la nostra lingua non sia molto conosciuta: il mondo arabo che abbiamo di fronte a noi è sostanzialmente francofono verso Occidente e in gran parte anglofono verso Oriente, con l’eccezione della Libia, dove, però, per molte ragioni, la conoscenza della lingua e della cultura italiana è rimasta a lungo limitata alle generazioni più anziane.
La diffusione dell’italiano in quell'area risponde, quindi, certamente a un grande interesse del nostro Paese, oltre a rappresentare un fattore di allargamento della nostra influenza, delle nostre relazioni politiche, economiche e culturali.
Inoltre, al di là della sua indubbia utilità pratica, Al Wasit è un libro di cui non sfugge il significato culturale, il valore. A mio giudizio, nel promuovere questa iniziativa, l’associazione culturale “Il campo”, presieduta da Pino Soriero, ha offerto una manifestazione interessante di ciò che dovrebbe fare il Mezzogiorno d’Italia, rilanciandone il ruolo. Da una sorta di appendice cieca dell’Europa, abbandonata nel Mediterraneo e animata di rancore rivendicativo nei confronti di Bruxelles, a ponte tra civiltà diverse, tanto più in una fase nuova come quella che si sta aprendo.
Un Mezzogiorno che ripensa se stesso come Nord del Mediterraneo, in una relazione che ne valorizzi la presenza in chiave culturale, politica e anche in termini di nuove opportunità economiche.
Inoltre, considero un fatto positivo che l’iniziativa di oggi nasca nella ricerca di un rapporto con l’Iraq. Un rapporto che in passato abbiamo vissuto in termini drammatici. La scelta dell’Italia di collocarsi a fianco degli americani nella  “Coalition of the willing”, infatti, fu molto contrastata nel nostro Paese. Quando  andammo al governo, mi trovai a gestire in prima persona il ritiro dei nostri soldati dall'Iraq, una posizione che costituiva una delle discriminanti programmatiche per il centrosinistra. E lo feci con una grande preoccupazione, ossia  che il ritiro dei nostri soldati non apparisse come un segno di disinteresse verso il futuro di quel Paese.
A tal fine, anzitutto, costruimmo insieme al governo iracheno un’operazione in cui il ritiro delle nostre Forze armate sarebbe avvenuto nel quadro di un passaggio di responsabilità alla provincia di Nassiriya, evitando così una “fuga precipitosa” che avrebbe creato un vuoto. Ma, soprattutto, a ciò si sarebbe accompagnato il rilancio di un programma di cooperazione. Dovevamo rendere ben chiaro che anche quella parte dell’Italia che non aveva condiviso la guerra ed era contraria all’intervento, era comunque attenta al destino dell’Iraq e intendeva continuare a contribuire al suo sviluppo in forme diverse, quali la collaborazione economica e culturale.
Tale modalità di gestione del ritiro fu apprezzata da tutti, in primis dalle autorità irachene. Tutto sommato, credo che quella operazione ci abbia consentito di mettere in campo la nostra volontà politica, quella di coloro che ci avevano voluto al governo, senza creare traumi in una fase così delicata e, al tempo stesso, senza pagare un prezzo in termini di riduzione dell’influenza italiana.
Ecco quell’iniziativa rispondeva alla stessa logica che sta alla base dell’opera che presentiamo oggi, ovvero affiancare una cooperazione culturale, oltre che economica, al processo di stabilizzazione e di crescita democratica dell'Iraq, nel quadro di una rilevante partecipazione italiana.
Oggi l’Iraq vive un passaggio molto difficile, è giunto alla vigilia del ritiro delle Forze armate americane, è uscito dal tunnel della guerra civile, dello scontro, tuttavia  si contano ancora le vittime di nuovi attacchi terroristici. E’ un Paese che ha bisogno di essere aiutato a trovare un proprio equilibrio. Non va dimenticato, infatti, che l’Iraq è, sì, un Paese di frontiera, cruciale per la stabilità dell’intera regione, ma è anche un Paese che si trova a gestire delicati problemi interni, conflittualità di natura etnico-religiosa. Un Paese, insomma, dai molti volti.
Ricordo, ad esempio, che andai a Sulaymaniyah per negoziare il nostro ritiro con il presidente iracheno, Jalal Talabani, e sembrava di stare in Svizzera, non certo nel deserto tra le montagne del Kurdistan, vi si respirava un’aria del tutto diversa rispetto al resto del Paese.
Ora, il punto su cui vorrei mettere l’accento è che, al di là di quanto possano fare oggi l’Italia e il Mezzogiorno, è evidente che siamo di fronte a un mutamento radicale dello scenario. Per molti aspetti si tratta davvero di un’occasione storica perché nel Mediterraneo possano essere realizzate nuove forme di collaborazione. Quello che potrà determinarsi negli anni che verranno sarà molto più che non un semplice rapporto tra Stati.
D'altra parte, fino a un passato recente, l’Europa ha intrattenuto relazioni con i dittatori del mondo arabo anche perché questi rispondevano a determinate esigenze di sicurezza per il nostro continente: sicurezza energetica, contenimento dell’immigrazione e dell'islamismo. Apparso, quest'ultimo, come un pericolo mostruoso, spesso confuso con il fondamentalismo e il terrorismo. In ogni caso, si trattava di un rapporto tra Stati, o, se volete, tra potenze europee e regimi funzionali agli interessi di queste, molto più che dei propri stessi popoli.
Oggi la situazione sta cambiando, sia pure attraverso un conflitto drammatico, in cui le stesse “Primavere arabe” sono messe a dura prova. Quello che è avvenuto in Libia, ad esempio, se da una parte porta con sé il sollievo di una guerra civile che finisce, per altri versi suscita pesanti interrogativi, e c’è da sperare che prevalgano principi e criteri di rispetto dei diritti umani. Gheddafi è stato sconfitto, ma intorno a lui non c’era un gruppo ristretto, c’erano migliaia di persone che oggi rappresentano altrettanti prigionieri di guerra. Concordo, pertanto, con l’ONU, che ha lanciato un monito perché siano rispettati i diritti fondamentali e gli standard internazionali.
Tuttavia, sebbene attraverso conflitti, in alcuni casi anche sanguinosi, quello che viene avanti è un grande processo democratico. Non a caso i giovani che ne sono stati protagonisti si sono rivolti all’Europa: “Noi ci stiamo battendo per gli stessi valori che voi condividete: la democrazia e la libertà”. Davvero, credo che dovremmo guardare a questa evoluzione senza timori, come a un’occasione storica.
Naturalmente ciò comporta anche una revisione del modo di pensare degli europei. In particolare, è evidente che in un mondo arabo democratico i movimenti di ispirazione islamica avranno un ruolo molto importante e noi non possiamo soggiacere a una rozza visione islamofobica che accetta l’equiparazione tra l'Islam e il fondamentalismo o il terrorismo.
In Tunisia, il Movimento Ennahda (Harakat al-Nahda ???? ??????) si avvia a vincere le elezioni: non avrà la maggioranza assoluta, ma avrà comunque un peso prevalente nell’Assemblea Costituente. Recentemente ho avuto occasione di incontrarne il leader, Rached Ghannouchi (????? ????????), che si trovava in Italia per la campagna elettorale, è stato un incontro estremamente interessante e posso assicurare che il suo modello non è la Repubblica Islamica. Certo, giudicheremo il partito alla prova dei fatti, ma va detto che esso ha una visione pluralistica di fondo, in cui l’ispirazione islamica non contrasta con il pluralismo politico, a dispetto delle opinioni degli altri.
In questa fase, poi, vediamo crescere il ruolo della Turchia, anzitutto perché è una grande potenza e inevitabilmente gioca un ruolo importante in tutta la regione, ma anche perché rappresenta un modello di islamismo democratico di governo, che non si oppone alla modernizzazione del Paese. Inoltre, la Turchia, la cui richiesta di adesione è stata respinta dall’Europa con una scelta, a mio giudizio, gravemente sbagliata da parte della leadership tedesca e francese, sembra oggi tendere verso una visione neo-ottomana del proprio ruolo nel Mediterraneo.
E’ un’ambizione legittima, ma ci pone anche dei problemi. Bisogna che l'Europa si attivi, se vogliamo evitare che un mondo arabo, e, più in generale, un mondo islamico che prende coscienza di sé, si libera di vecchi regimi e punta a giocare un ruolo di protagonista sulla scena internazionale, si tramuti in un blocco tendenzialmente non ostile, ma competitivo nei confronti dell’Europa. Per questo è necessario far percepire un cambio di passo su diversi aspetti.
Intanto bisogna sostenere con convinzione e coerenza i movimenti democratici. Naturalmente ciò non significa che in tutti i casi sarà necessario un intervento militare: la Libia è stato un caso estremo. Nella vicenda siriana, invece, occorre molta fermezza nell’isolare e nel condannare una repressione che ha fatto già migliaia di morti e che sembra essere sorda rispetto a una legittima domanda di libertà. 
Il secondo punto riguarda la capacità dell’Europa di giocare con maggiore costanza il ruolo di onesto mediatore in quello che, molto più che in passato, sarà il vero banco di prova delle relazioni tra mondo arabo-islamico e Occidente: il conflitto israelo-palestinese. Questa fase, a mio giudizio, potrebbe essere una grande opportunità anche per Israele, che a lungo è stata l’unica democrazia della regione. Tuttavia, c’è il rischio che Israele, con le nuove democrazie che nasceranno, abbia un rapporto persino più difficile di quello che aveva con i dittatori. Essi, infatti, erano molto meno sensibili alla causa palestinese e non avevano nessun reale interesse a cercare una soluzione del conflitto, anzi, esso rappresentava un puntello per i regimi. Le democrazie arabe, invece, avranno tutt’altro atteggiamento e la questione palestinese diventerà sempre di più una issue delle politiche interne di quei Paesi. Per fare un esempio, non ci si può presentare alle elezioni in Egitto senza una piattaforma programmatica riguardo alla situazione di Gaza.
Se non si rilancia un processo di pace, il pericolo è che si tenda verso un aumento della tensione, come sta avvenendo in Turchia. Naturalmente, ciò richiede un’offerta negoziale che sia accettabile da parte palestinese. È difficile, infatti, che un leader palestinese possa chiedere per il suo popolo meno di ciò che Obama ha definito legittimo chiedere.
Infine, credo che l’Europa debba ridefinire la propria offerta politica verso quel mondo e, in particolare, verso il Mediterraneo. Per un certo periodo ci siamo mossi nel quadro del Processo di Barcellona, che aveva grandi ambizioni ma ha prodotto pochissimi risultati. In seguito, abbiamo avuto l’esperienza dell’Unione per il Mediterraneo, voluta soprattutto dal presidente francese Nicolas Sarkozy. Un’iniziativa sostanzialmente fallimentare, anche tecnicamente, nel senso che non è riuscita neppure a convocare un vertice di capi di Stato e di governo. E devo dire, col senno di poi, che è stato un bene, perché, se si fosse tenuto, avremmo avuto una foto di famiglia dei leader europei con tutti i dittatori del mondo arabo, proprio alla vigilia della loro cacciata. In proposito, l’Europa è attualmente priva di una proposta. Nell’ultimo documento della Commissione sulla politica di vicinato, si legge che di fronte alla Primavera Araba bisogna rilanciare l’Unione per il Mediterraneo. Un’affermazione che mi pare improponibile.
C’è una proposta, avanzata dal Movimento federalista europeo, che mi sembra più interessante, volta a promuovere una comunità euromediterranea basata sui nostri principi fondanti, cioè aperta soltanto ai Paesi che scelgono la democrazia. In tal modo si introdurrebbero democrazia e rispetto dei diritti umani come discriminanti nelle nostre relazioni con la sponda sud del Mediterraneo.
Di fronte alla grande rivoluzione che, con l’abbattimento dei regimi comunisti, portò l’Europa Centrale e Orientale verso la democrazia, l’Europa mise in campo una politica efficace, che fu chiamata “dell’Allargamento”, anche se in realtà si trattava piuttosto della riunificazione del continente. Per quei Paesi e per quei popoli, l’ingresso nell’Unione sancì la conquista della democrazia.
Con questo non intendiamo promettere al Maghreb di diventare Europa, perché non avrebbe senso, ma possiamo lanciare l’idea che si formi una comunità tra i Paesi democratici dell’una e dell’altra sponda del Mediterraneo, facendone un obiettivo dell'Europa, qualcosa che vada oltre la politica di vicinato e che configuri una vera e propria collaborazione politica ed economica. 
Finora, davanti agli sconvolgimenti in atto, l’Europa è apparsa un interlocutore debole. In fondo, anche in Libia l’iniziativa della Comunità internazionale ha avuto piuttosto il segno di un’azione anglofrancese che non di una vera e propria iniziativa dell’Unione europea, anche in quel caso divisa, a causa delle resistenze di Paesi come la Germania. Ciò, a mio avviso, costituisce uno dei principali problemi.
In questo quadro, un Paese come l’Italia, che ha un interesse vitale a un rafforzamento dell’integrazione e dei legami tra il nostro continente e l’altra sponda del Mediterraneo, dovrebbe spingere con convinzione l’Europa nella direzione di una nuova politica.
Qui, davvero, sono in gioco interessi fondamentali. L’Italia è stata storicamente percepita come un Paese amico del mondo arabo e, d’altro canto, le nostre relazioni hanno radici profonde, tuttavia non sempre siamo stati coerenti. I momenti migliori della politica estera italiana, come la presidenza dell’Unione al Consiglio europeo di Venezia, che segnò una svolta della politica europea verso il Medio Oriente, invece, sono avvenuti nel solco di una vocazione mediterranea.
In definitiva, credo che l’Italia debba recuperare quell’ispirazione con una proposta forte di innovazione delle politiche europee verso l’altra sponda del Mediterraneo.  Tra l’altro, se lo faremo, ci saranno molti arabi interessati ad apprendere la nostra lingua con questo libro.
Grazie.          
                 

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