Articolo
9 gennaio 2013

Una sfida storica. La sinistra dopo le sconfitte

Ampi stralci dell'introduzione al libro-intervista di Massimo D'Alema con Peppino Caldarola, pubblicati dall'Unità


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Una prospettiva, per l’Italia, c’è. L’idea di un’alleanza delle forze progressiste aperta ai moderati, con la leadership di Pier Luigi Bersani, appare come l’unica proposta politica in grado di rispondere all’esigenza di una ricostruzione democratica. Con il confronto delle primarie, questa prospettiva ha preso corpo e si è imposta al centro del dibattito pubblico. 
Un progetto che si presenta, oggi, come un ritorno della politica alla guida del Paese. 
Sarà all’altezza, il centrosinistra? L’interrogativo è legittimo, dopo le sconfitte e le delusioni del passato. Anche per questo, non è inutile volgere lo sguardo all’esperienza di questi ultimi venti anni.
Non ho mai apprezzato in pieno l’espressione “Seconda Repubblica”, che è carica di ambiguità e contiene, forse, un riconoscimento eccessivo al ventennio che si chiude oggi e che si aprì con la crisi dei primi anni Novanta. 
Certamente mi pare appropriato riferirsi a un periodo segnato dal ruolo e dal protagonismo di Silvio Berlusconi, dal suo stile, da un modo di fare politica, da un blocco di forze sociali e di interessi intorno a lui. 
Il successo di Berlusconi, il suo essere in grado di interpretare un ventennio di vita nazionale, nascono ben al di là delle sue personali capacità e della forza del suo potere mediatico e finanziario. Egli ha, in realtà, impersonato una sorta di rivincita del potere economico e degli spiriti animali della società civile contro la “Repubblica dei partiti”, la rivincita di un liberismo rozzo e individualista contro i vincoli che i solidarismi di matrice cattolica e socialista hanno imposto al capitalismo italiano. Un progetto di modernizzazione, quello berlusconiano, che veniva da lontano, certamente dagli anni Ottanta. E, in definitiva, una versione italiana di quella più generale egemonia di una visione neoliberista che ha visto nell’89 non solo la fine del comunismo ma anche la fine della storia e la definitiva resa dei conti con le ideologie e le grandi narrazioni del Novecento. 
Come in altri momenti delle vicende del nostro Paese, i salti di qualità più radicali avvengono sotto l’incalzare di eventi internazionali. La crisi della “Repubblica dei partiti” nasce con l’89, la caduta del comunismo e la fine della Guerra fredda. Così, la fine del berlusconismo precipita nella grande crisi che in questi anni investe il capitalismo finanziario globalizzato.
A questo appuntamento, l’Italia giunge fragile. Uno dei Paesi più esposti, anzitutto per debolezze profonde, accumulate nel tempo: il peso del debito pubblico, il divario tra Nord e Sud, la farraginosità dell’amministrazione, l’inefficienza della macchina della giustizia, la frammentazione della struttura produttiva. A ciò si aggiungono i problemi accumulati in questi anni per le debolezze di un centrosinistra che non è stato in grado di completare la sua opera riformatrice e per gli effetti devastanti degli anni di governo di Berlusconi e della Lega. Non solo sui conti pubblici, sull’economia e sulla società, ma sull’etica pubblica e sulla credibilità stessa delle istituzioni e del sistema politico-democratico. 
Il Paese era davvero giunto sull’orlo del collasso, anche se la memoria corta degli italiani rischia di rimuovere questa realtà. Mario Monti ha interpretato davvero quel ruolo di responsabilità e di salvezza nazionale cui è stato chiamato dal capo dello Stato. 
Egli ha affrontato con energia l’emergenza, attraverso misure dolorose, in parte inevitabili, anche se non sempre attente a un’esigenza di equità sociale. Ma, in definitiva, il compito del governo era di evitare il disastro e il Paese ne è uscito. Credo che il merito maggiore di Monti sia stato quello di avere restituito voce e credibilità all’Italia sulla scena europea e internazionale, dopo un periodo di marginalità o di profonda umiliazione. 
Basterebbe questo a motivare la gratitudine che tutti noi dobbiamo al presidente del Consiglio e anche, sia consentito, a chi lo ha voluto e sostenuto con lealtà, mettendo da parte la legittima richiesta di un voto immediato e la probabile conquista anticipata del governo. 
Come in altri passaggi cruciali della storia del Paese, ha prevalso a sinistra il senso del dovere verso l’Italia e credo che questa scelta legittimi ora, accanto alla forza del consenso popolare, la candidatura di Bersani alla guida del governo. 
Perché ora c’è bisogno di una svolta. E non perché il ceto politico pretenda di reinsediarsi al posto dei tecnici, come si scrive con disprezzo indicando il ritorno della politica come l’alba di una nuova stagione di corruzione e di incompetenza. Non credo debba sfuggire che questa non è solo una campagna contro la politica, è una campagna contro il diritto dei cittadini a scegliere da chi vogliono essere governati, cioè contro la democrazia e contro la sinistra. 
Certo, la crisi e la decadenza della politica sono sotto gli occhi di tutti, ma se si vuole imboccare la via di una rigenerazione anche morale e non di un ripiegamento tecnocratico, occorre vedere in profondità i motivi e le cause. 
Noi non viviamo il tempo del dominio dei partiti e della politica sulla società e sull’economia. Al contrario, ciò cui assistiamo è un declino progressivo e che parte da lontano. La decadenza del partito di massa, ideologico, ha caratterizzato tutta la storia europea degli ultimi trent’anni. 
Sarebbe impensabile negare gli effetti devastanti di perdita di credibilità del sistema politico e istituzionale, ma il problema è che le spinte dominanti nell’opinione pubblica e nel senso comune vanno nella direzione di una ulteriore destrutturazione, privatizzazione e personalizzazione della politica. Quindi verso un aggravamento dei guasti e non verso un loro risanamento. E, ciò che è persino più grave, verso un restringimento delle basi sociali dell’agire politico. Per dirla rozzamente, la politica dei partiti personali, dominata dai media, priva di sostegno e finanziamenti pubblici, è una politica per ricchi o per lo meno dominata dai ricchi. 
È possibile un’altra strada? C’è una via per la ricostruzione democratica, per uscire davvero dal berlusconismo, senza per ciò coltivare l’illusione di un ritorno al passato? 
Questa è la sfida con cui si misurerà Bersani e tutto il centrosinistra. Una sfida che oggi appare particolarmente impegnativa e complessa. 
In altri momenti di crisi, l’Italia ha avuto, nel riferimento al contesto internazionale e particolarmente all’Europa, un ancoraggio solido e anche l’indicazione di una via d’uscita. Oggi è l’Europa stessa a essere l’epicentro della crisi. È l’Europa la grande malata della globalizzazione, attraversata da spinte populiste e rischi tecnocratici, in diversi casi non meno pericolosi di quelli che hanno investito il nostro Paese. 
Il cittadino americano può scegliere tra un presidente che tagli le tasse riducendo la protezione dei più poveri e uno che tassi i ricchi per garantire l’assistenza sanitaria. Per quanto condizionata dai mercati finanziari e dalle agenzie di rating, la politica americana, come quella di altre potenze emergenti, sembra ancora in grado di decidere. In Europa, no. Il cittadino europeo sostanzialmente ha la percezione di non potere influire sulle scelte dell’Unione, che si presentano come un complesso neutro di vincoli e di obbligazioni, dovute a ragioni tecniche. Alla politica non resta che fare “i compiti a casa”, cioè eseguire le direttive che la razionalità economica dominante impone. La politica (politics), confinata entro i limiti delle realtà nazionali, ha scarsa possibilità di incidere, si riduce a narrazione. 
In questo quadro si rafforzano le spinte populiste nel nome del demos contro le élite tecnocratiche, invocando l’ethnos nazionale o localistico contro la globalizzazione e l’integrazione europea.
Così, la democrazia europea rischia di essere schiacciata tra il peso di una tecnocrazia necessariamente più attenta ai vincoli posti dai mercati finanziari e dalle stringenti compatibilità che essi impongono, e un populismo sempre più antieuropeo, il quale dà voce al malessere sociale e alle identità culturali che si sentono minacciate dalla globalizzazione. 
Può apparire paradossale, ma le due grandi tendenze politiche che hanno dominato la scena europea negli ultimi dieci anni sono ambedue espressione soprattutto della destra, o meglio di due diverse destre che nascono dalla storia d’Europa: una liberale e liberista, legata a poteri economici forti, tendenzialmente cosmopolita e favorevole alla globalizzazione; l’altra nazionalista, localista, populista, legata a valori tradizionali e a ceti colpiti o spaventati dall’apertura dei mercati e dalle sfide del mondo globale. 
La sinistra europea è apparsa spiazzata e in difficoltà. Si è divisa tra componenti innovative e neoliberali, che hanno condiviso con le élite economiche una visione sostanzialmente ottimistica della globalizzazione, e forze più tradizionali, che hanno difeso lo storico compromesso socialdemocratico e le conquiste che lo hanno caratterizzato, nell’illusione che tutto ciò avrebbe potuto essere protetto anche nei nuovi scenari della competizione mondiale. L’esito è stato quello di una duplice, dolorosa sconfitta. Se pensiamo che la Terza via di Tony Blair ha finito per accodarsi all’avventura di George Bush e dei neocon in Iraq, e che una parte del socialismo francese si è schierata per il “no” nel referendum sulla nuova Costituzione europea, possiamo misurare su entrambi i versanti i rischi di appannamento ideale e di subalternità. 
Ma questo è ciò che abbiamo alle spalle: a quella stagione politica ne è seguita un’altra, dominata dalle destre in Europa, che ora può chiudersi. E non solo in Italia. Adesso c’è una nuova stagione che si apre per i progressisti. Non si tratta solo della Francia di François Hollande, ma di un ritorno più significativo sulla scena di forze di ispirazione socialista e laburista. E non si tratta solo di questo, ma anche di alleanze di centrosinistra che vanno oltre la tradizione socialdemocratica. Quello che accadrà in Italia e in Germania potrà essere decisivo per modificare lo scenario politico europeo e scrivere finalmente una nuova pagina. Certo, le prove che abbiamo di fronte appaiono estremamente impegnative. 
Il centrosinistra italiano, da Amato, Ciampi e Prodi sino ad oggi, ha una storia di forte e coerente impegno per l’Europa. Aggiungo che la coerenza europeista è stata a lungo ed è ancora una delle discriminanti di fondo contro vecchi e nuovi populismi nella politica italiana. In questo c’è, sicuramente, la consonanza più profonda tra il Pd e Monti e l’elemento più significativo di continuità con il suo governo che il centrosinistra dovrà assicurare. 
L’opera per la ricostruzione e la rinascita dell’Italia non potrà che collegarsi al processo di rilancio europeo come due aspetti della stessa sfida che sta di fronte a una nuova classe dirigente. Anche per questo è così importante che a guidare il Paese sia una forza come il Pd che – con la sua originale identità – è parte integrante, autorevole e riconosciuta del riformismo europeo. 

Roma, 14 dicembre 2012

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