Discorso
4 marzo 2013

Intervento in occasione della presentazione del libro "Giorgio Napolitano. La traversata da Botteghe Oscure al Quirinale" di Paolo Franchi

Sala della Regina, Camera dei Deputati


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Signor presidente, presidente Martin Schulz, care amiche, cari amici,

non posso nascondere che partecipo alla presentazione di questo libro non solo, come è naturale, con grande interesse: è un libro che richiede un notevole impegno, perché è più che una semplice biografia. Dato il rilievo della personalità di Giorgio Napolitano, infatti, in diversi punti il libro si allarga sino a diventare, se non proprio una storia dell’Italia repubblicana, quanto meno un racconto di molti dei passaggi cruciali della vicenda storica che abbiamo alle spalle. 
Al di là dell’interesse che mi ha suscitato c’è anche, evidentemente, l’emozione con la quale si legge un libro che in determinati momenti incrocia l’esperienza, la vita del lettore. Senza dubbio, è una delle ragioni che hanno fatto di me un lettore particolarmente coinvolto, benché qualche volta critico. Nelle complesse vicende della sinistra italiana, Paolo Franchi si mostra non soltanto biografo, ma anche partigiano delle posizioni di Napolitano, con le quali in non pochi casi mi sono trovato in contrasto anche aspro. E forse alcuni passaggi meriterebbero una riflessione più neutra, meno partigiana. Ma, in fondo, i libri belli sono sempre anche libri partigiani. 
Paolo Franchi rievoca quel primo incontro, avvenuto nel 1969, in occasione di una drammatica riunione della sezione universitaria pisana del Partito comunista. Napolitano era responsabile culturale del partito, prese la parola alle 3 di notte e dopo le sue conclusioni ebbi l’ardire di replicare. Mi mandò una lettera, una delle tantissime, garbata, pignola, nella quale spiegava tutte le cose che, secondo lui, erano sbagliate in quello che avevo detto. Il messaggio sostanzialmente era questo: il movimento degli studenti non può dire soltanto dei “no”, deve proporsi degli obiettivi positivi, altrimenti non avrà un ruolo utile nella vita nazionale. 
Sono passati molti anni, ma mi permetterei di dire che l’impronta, la visione della politica, è rimasta la stessa. Ci ho messo un po’ a capire che quella sua pignoleria, di cui conservo molte testimonianze, quei suoi biglietti con la scrittura traversa, in realtà sono anche manifestazioni di rispetto, di ascolto. 
Ho conosciuto pochissimi leader del rilievo di Napolitano che abbiano sempre mantenuto l’abitudine di ascoltare i loro interlocutori, grandi o piccoli, di prenderli sul serio e, quindi, anche di replicare con precisione. Una forma di attenzione, di rispetto, una capacità di tollerare le opinioni diverse dalle sue, di valutarne il senso, senza tuttavia arrendersi a esse. 
Ora è trascorso molto tempo e questa lunga conoscenza si è tramutata non soltanto in un’amicizia affettuosa, ma anche, sotto molti aspetti, in un comune sentire. 
Certo, come ho ricordato all’inizio, non sono mancati i contrasti, anche aspri: in particolare, penso che il momento più lacerante non riguardò me come persona, ma il rapporto tra Napolitano e Enrico Berlinguer. E, in fondo, l’ostilità verso Napolitano, la diffidenza verso di lui che una certa generazione di dirigenti comunisti ebbe, nacque proprio da quel contrasto. 
Fu un passaggio drammatico della vicenda comunista. 
Napolitano colse interamente il rischio di un arretramento del Pci, di una rinuncia alla sua funzione politica, di un ripiegamento identitario. Ma Berlinguer, continuo a pensarlo, intuì le ragioni di una crisi di fondo del sistema politico-democratico e seppe anticiparne alcune delle cause. 
Insomma, in quella discussione difficile, e questa è l’unica obiezione che muovo al libro di Franchi, le ragioni non erano tutte da una parte e ciò spiega anche la profondità di un contrasto tra due persone che, tuttavia, continuarono a stimarsi e rispettarsi. 
Vedete, nella complessa vicenda di quella che è stata chiamata la prima Repubblica, questo è stato il tratto essenziale: il senso di essere classe dirigente, di non confondere mai la lotta politica, condotta anche nel modo più netto e duro, col venire meno non solo di un rispetto tra le persone, ma anche dell’idea di una comune responsabilità. 
In quel partito, in quel gruppo dirigente questo, credo, noi lo abbiamo imparato. Fu Giorgio Amendola a proporre Pietro Ingrao presidente della Camera…
Napolitano è stato un grande protagonista e lo è tuttora: dirò, a questo proposito una parola su quello che forse è il passaggio più difficile della sua biografia, quello che è ancora da scrivere.
Non c’è dubbio che il ruolo principale che egli ha avuto nella storia della sinistra italiana è l’aver contribuito più di ogni altro a sprovincializzarla, a metterla in contatto con il socialismo europeo e a creare le condizioni affinché questo rapporto si costruisse e per lei divenisse un tratto che oggi è molto forte. 
Ma non c’è solo il socialismo europeo. Forse bisognerebbe mettere ancora di più in luce un aspetto a cui si accenna nel libro, che a mio giudizio è di grandissima importanza: egli è stato il primo, nel gruppo dirigente comunista, a guardare in modo aperto e interessato alla grande democrazia americana, al mondo anglosassone. Libero da pregiudizi, credo che da questo punto di vista abbia svolto un ruolo politico e culturale di avanguardia, prezioso nel rinnovamento politico e ideale della sinistra. 
Egli è un uomo moderato.  Mino Martinazzoli tempo fa fece un’osservazione molto bella, disse che l’aggettivo “moderato”, per come lo si usa, può derivare da due diversi sostantivi: “moderazione” o “moderatismo”. Il moderatismo non è una bella cosa, la moderazione è una virtù. Ecco, Napolitano è un uomo moderato laddove moderato deriva da moderazione. E in lui questa virtù è manifesta nel suo massimo grado.
Tuttavia, egli è un europeista intransigente. E’ sul tema dell’Europa che credo emerga il suo lato visionario, qualche volta direi persino estremista. 
Del suo estremistico europeismo, del suo federalismo appassionato, lui, un uomo così prudente, credo abbia dato forse il meglio nel suo impegno nel corso di questi anni. Un impegno che si è tradotto nello sforzo di mantenere il legame tra l’Italia e l’Europa come condizione del progresso civile del nostro Paese, come condizione del successo del progetto europeo. 
Non si può affrontare la figura di Napolitano senza considerare il suo essere meridionalista, convinto difensore dell’unità nazionale. Ma è un meridionalista severo e anche di ciò, credo – e qui parlo come uomo politico del Mezzogiorno – gli dobbiamo essere grati. Un meridionalismo, il suo, che non ha mai avuto indulgenze verso i difetti della classe dirigente meridionale e verso le loro responsabilità nell’arretratezza del Mezzogiorno. 
Infine, egli è, in questo momento, la testimonianza più alta del valore della politica e dell’importanza della democrazia come complesso di istituzioni, come regole, come modo di condurre il confronto e il dibattito pubblico nel nostro Paese. 
E’ uno strano paradosso che, in un tempo in cui sembrano prevalere la volgarità e il qualunquismo, in cui la politica è diventata una cattiva parola, in cui viviamo una crisi così acuta, l’Italia abbia nelle virtù di questo uomo politico una delle sue ultime riserve. 
E ciò è motivo di riflessione anche sul ruolo della Presidenza della Repubblica, una istituzione super partes. Credo che, forse, l’Italia sia uno dei Paesi al mondo che ha più bisogno di istituzioni super partes. 
Ebbene, quando Napolitano fu eletto, se la scelta del capo dello Stato fosse stata affidata a un sondaggio, principio al quale si affidano oggi gran parte delle scelte pubbliche, credo che con molta probabilità un certo numero di uomini di spettacolo lo avrebbe largamente sopravanzato. E tuttavia sappiamo con certezza che il fatto che non sia stato un sondaggio, ma la saggezza del Parlamento a scegliere, ha dato al nostro Paese un punto di forza salvifico nel corso di questi anni difficili. 
Ringraziando il presidente Martin Schulz per le sue parole di fiducia e di amicizia verso il nostro Paese, che so essere sincere e rappresentative di un sentimento largamente diffuso in Europa, voglio concludere con la speranza che, come ebbe a scrivere Curzio Malaparte, Napolitano sia capace di essere imperturbabile anche di fronte all’Apocalisse. Naturalmente oggi non c’è l’Apocalisse, ma il Paese vive un momento molto difficile, nel quale abbiamo ancora bisogno della sua saggezza. Sono pochi i giorni del suo settennato, saranno molto importanti e credo che, addirittura, meriteranno un nuovo capitolo di questa biografia, se, come tutti auguriamo a Paolo Franchi, il successo editoriale consiglierà una nuova edizione.
Grazie.

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