Discorso
9 maggio 2013

The State of the Union

Firenze, Palazzo Vecchio - versione italiana


Cari amici, cari colleghi,
Lasciate che io parli francamente: quella che stiamo attraversando oggi in Europa è la più grave crisi politica che il progetto europeo abbia mai vissuto in sessant’anni di storia. La crisi economica e finanziaria, che ha devastato le economie del nostro continente negli ultimi cinque anni, si è trasmessa alla sfera politica, a quella sociale e a quella culturale. E ora stiamo assistendo a un crollo verticale del sentimento europeista nelle opinioni pubbliche dei Paesi membri della UE.
Questo è il risultato di due difetti fondamentali della costruzione europea: da un lato, l’Europa non appare in grado di assicurare la ripresa economica e la creazione di lavoro di cui avremmo un disperato bisogno, di dare risposte al diffuso disagio sociale che colpisce le nostre società e che, invece, richiederebbe provvedimenti urgenti.
Dall’altro lato, l’Unione europea è percepita sempre di più dai cittadini come un potere distante, burocratico, tecnocratico, distaccato dalla dura realtà della gente comune, che si sente impotente e incapace di influenzare o, almeno, di esercitare un controllo sulle decisioni che vengono prese a Bruxelles.
Se un cittadino americano vuole che la propria amministrazione metta in atto politiche espansive, semplicemente voterà per un presidente democratico; se, invece, il suo obiettivo è il taglio della spesa sociale e la riduzione delle tasse per i più ricchi, può votare per il candidato repubblicano.
In Europa le cose sono molto diverse, perché le principali decisioni di politica economica vengono prese a Bruxelles, non nelle singole capitali, e devono sottostare a una serie di trattati, regole, vincoli, obbligazioni e sanzioni. Conseguenza di ciò è la percezione, da parte dei cittadini, che il loro potere di incidere sui meccanismi decisionali, su scelte che avranno un impatto sulle loro vite e sul loro futuro, si sta progressivamente restringendo.
Non deve quindi sorprendere che il risultato di simili sviluppi sia la diffusione, in molti Paesi europei, di sentimenti antipolitici, che considerano la politica sempre più incapace o addirittura restia a fornire soluzioni, di un clima sempre più antieuropeo e, in particolare, di forze populiste euroscettiche.
Classificare i movimenti o partiti politici populisti secondo i criteri tradizionali della scienza politica è complesso, perché tali forze non si collocano chiaramente su una sponda o l’altra dell’usuale asse sinistra/destra, ma fanno propri ideali, obiettivi, argomenti presi da entrambe le tradizioni di destra e di sinistra, mentre percepiscono l’intero corpo istituzionale e il sistema dei partiti come una costosa e inutile sovrastruttura, che appesantisce la società invece di risolvere problemi. Tra gli elementi che accomunano questi movimenti, vi sono: anzitutto, l’appello al demos contro le élite ? in particolare politiche, ma anche economiche e finanziarie ? viste come responsabili della crisi e della mancanza di prospettive in cui versano migliaia di cittadini; in secondo luogo vi è il richiamo all’ethnos contro un’Europa percepita come distante, ostile e antidemocratica.
Credo che le principali risposte a questa pericolosa ondata siano: in primo luogo, imprimere un cambiamento al contenuto delle politiche, che siano finalmente orientate alla crescita e allo sviluppo e all’uscita dall’oppressivo clima di austerità che ha caratterizzato l’Europa negli ultimi anni. Ma, soprattutto, riportare la politica in Europa. Ciò significa, in particolare, rafforzare il legame tra i cittadini, il Parlamento europeo e la Commissione. Un legame che costituisce ? o dovrebbe costituire ? il cuore della democrazia europea, ma che è stato ampiamente messo da parte.
Il trasferimento di poteri verso il Consiglio, avvenuto negli ultimi anni, ha implicato di fatto un trasferimento di potere verso i Paesi membri più forti ed è stato percepito come un impoverimento della democrazia europea. Le decisioni sono il frutto di negoziati tra governi, che danno l’illusione di neutralità e di legittimità, mentre la verità è che i Paesi economicamente più forti sono in una posizione di vantaggio sui più deboli.
Un cittadino greco, che deve fare ogni giorno grossi sacrifici per sbarcare il lunario, pensa che questi sacrifici siano imposti a lui e ai suoi connazionali dalla Germania. Dunque, non dall’Unione europea, ma da un altro Stato membro. In un contesto simile, divisioni e risentimenti di stampo nazionalistico tra Paesi forti e Paesi deboli si vanno rafforzando.

Si verifica una sorta di sfasamento tra il processo decisionale che ha luogo a Bruxelles e la mancanza di un dibattito politico di livello europeo, di una dimensione politica europea e di una sfera pubblica comune. Uno sfasamento che bisogna correggere, se davvero vogliamo riprenderci dalla crisi, sia economica che politica. Una riduzione degli aspetti intergovernativi e un aumento della forza e legittimità democratica dell’Europa, insieme alla sua capacità di costruire una vera dimensione politica, sono condizioni essenziali per assicurare la ripresa.
Non si tratta tanto di introdurre dal giorno alla notte radicali e ampie riforme istituzionali o di eleggere in modo diretto il presidente della Commissione o dell’Unione, anche se, lasciatemelo dire, ritengo che alcune riforme istituzionali dovranno essere negoziate in un prossimo futuro. Ma dobbiamo anzitutto sfruttare appieno il potenziale dell’attuale quadro istituzionale e, attraverso una coraggiosa iniziativa politica, conferire una maggiore legittimità democratica ai partiti europei e al presidente della Commissione. Ciò potrebbe essere realizzato dalle principali famiglie politiche in occasione delle prossime elezioni europee, se ciascuna di esse, durante la campagna elettorale, presentasse un programma condiviso dai partiti nazionali e un candidato comune alla presidenza della Commissione. Questo sicuramente aiuterebbe a ridurre la distanza tra i cittadini e le istituzioni europee. Senza contare che, per la prima volta, avremmo delle vere e proprie elezioni europee e non più una mera somma di elezioni nazionali secondarie.
Dobbiamo andare oltre quella separazione tra politiche e politica che sta producendo effetti devastanti. Senza la politica con la P maiuscola ? che significa dibattito, confronto tra opinioni diverse, scambio di idee, compromesso ? le politiche diventano un fatto tecnocratico. A sua volta, senza politiche ? ovvero, atti e misure concrete in grado di incidere sulla vita delle persone ?, la politica a livello nazionale rischia di ridursi sempre più a semplice narrazione, a propaganda e, quindi, a qualcosa di lontano dai cittadini.
Se in un Paese come l’Italia, tradizionalmente uno degli Stati membri più europeisti, il sentimento antieuropeo è divenuto tanto forte da costringere alla formazione di una strana coalizione tra sinistra e destra, possiamo avere un’idea chiara di quanto, in Europa, si stiano restringendo le aree pro-europee. Senza un’azione coraggiosa, corriamo il rischio di mettere a repentaglio le grandi conquiste degli ultimi decenni, come il Mercato unico o l’euro. Uno scenario che danneggerebbe anche i Paesi forti, compresa la stessa Germania.
Il sociologo tedesco Ulrich Beck ha recentemente espresso la preoccupazione che l’Unione europea divenga sempre più un’”Europa tedesca”. Ciò sarebbe un pericolo non soltanto per l’Europa, ma anche per la Germania. Le forze democratiche tedesche hanno sempre pensato che il destino del loro Paese fosse quello di una grande potenza, strettamente legata al progetto di integrazione europea. Quindi, una Germania europea e non un’Europa tedesca.
E’ giunto il tempo per azioni forti e coraggiose. Penso che, se non vogliamo che le forze europeiste divengano minoranza nel nostro continente, quello di cui abbiamo bisogno è un nuovo patto sociale tra Paesi, assieme alle grandi forze culturali pro-europee. Un nuovo patto sociale e un nuovo patto politico tra le forze progressiste da un lato e quelle conservatrici dall’altro.
Dire che abbiamo bisogno di più Europa è giusto, ma non è sufficiente. Abbiamo bisogno di rendere il progetto di integrazione europea più democratico ed efficiente su temi come le diseguaglianze e il lavoro. Dobbiamo mettere in campo un meccanismo effettivo di solidarietà per sostenere i Paesi più indebitati. Certo, non perché dobbiamo pagare per i debiti degli altri, ma per abbassare i tassi di interesse e gli spread creando un sistema di garanzie europee. In questo senso, l’idea di un fondo di redenzione del debito, proposto da alcuni economisti tedeschi, sembrava interessante e avrebbe meritato maggiore attenzione. Abbiamo bisogno di programmi europei di investimento e, a questo proposito, l’incapacità di decidere sui project bond, assieme ai tagli al bilancio dell’Unione, che si tradurranno in minori risorse per ricerca e innovazione, sono segnali davvero deludenti.
Per rilanciare la crescita, dobbiamo anche intervenire sul lato della domanda. A questo scopo, il completamento del Mercato unico, la promozione della competitività e la rimozione di ostacoli come le posizioni di monopolio, sono misure chiave. Tuttavia, senza un’ampia politica di investimenti in aree come l’innovazione, la green economy, l’occupazione giovanile, per ricordare alcuni dei settori su cui è intervenuta l’amministrazione Obama negli Stati Uniti, tutto il resto rischia di risultare vano.
Per chi, come me, crede fermamente nel progetto europeo, è tempo per una forte azione politica. Ci dobbiamo rivolgere alle opinioni pubbliche europee mettendo in chiaro il fatto che la questione non sta tanto nell’opzione “Europa sì o Europa no”, perché non esiste alternativa al progetto dell’Unione. Il problema, piuttosto, sta in quali scelte si debbano compiere per restituire credibilità all’integrazione e riconciliare i cittadini con il sogno di un’Europa unita.
Grazie

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