Intervista
4 settembre 2013

Obama sbaglia, la soluzione è solo politica

Intervista di Umberto De Giovannangeli – l’Unità


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In Siria non servono bombardamenti mirati, ma una forte iniziativa politica internazionale che costringa le parti al cessate il fuoco, dispieghi una forza di interposizione sotto l’egida delle Nazioni Unite e promuova una conferenza di pace che metta fine alla guerra in corso. Sono, in sintesi, i passaggi individuati dall’ex premier e ministro degli Esteri Massimo D’Alema, che all’Unità definisce come «inutile e dannoso» l’eventuale intervento armato nel martoriato Paese mediorientale e si augura che il prossimo G20 contribuisca alla ricerca di una soluzione del conflitto.

In Siria la situazione è sempre più tragica. I rifugiati hanno superato i 2 milioni, i morti sono oltre 110mila. La Santa Sede evoca il rischio di una guerra mondiale. Sul tappeto c’è il ventilato attacco mirato e ristretto da parte americana.

«Credo che un attacco punitivo “mirato” nei confronti del regime di Bashar al-Assad non consenta di procedere verso la soluzione del conflitto. Sarebbe, a mio parere, una iniziativa inutile e dannosa, perché rischierebbe di alimentare tensioni con la Russia e altri Paesi della regione. Al di là della comprensione verso la giusta esigenza del Presidente degli Stati Uniti Barack Obama e del Presidente francese François Hollande di fare qualcosa di fronte alla tragedia dell’uso delle armi chimiche, questa operazione militare si presenta come non risolutiva e probabilmente molto rischiosa. Mi ha colpito l’accostamento con il Kosovo...».

Una vicenda che l’ha vista protagonista, come premier italiano.

«Un accostamento sballato, che non c’entra nulla. Nei Balcani fu condotta un’azione militare risolutiva, anche perché aveva uno scopo che non era soltanto quello, umanitario, di porre fine alla pulizia etnica, ma di indurre le truppe serbe a ritirarsi dal Kosovo al fine di favorire una soluzione politica attraverso le Nazioni Unite. Tanto è vero che il conflitto si concluse con una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu e il dispiegarsi di una forza internazionale, che vide una presenza importante dell’Italia. L’intervento in Kosovo, per quanto doloroso, pose fine alle guerre civili balcaniche. Insisto su questo punto: l’operazione militare aveva una finalità chiara, a sostegno di una iniziativa politica chiara. E l’obiettivo fu raggiunto. In Siria, invece, l’obiettivo politico dell’iniziativa statunitense non è chiaro, non si capisce quale possa essere e quali passi in avanti possa effettivamente far compiere per risolvere la situazione».

Partendo da questa considerazione critica, come giudica la decisione del presidente Usa di legare l’azione militare in Siria al via libera del Congresso?

«Penso che nella condizione di isolamento internazionale in cui si trovano a operare gli Stati Uniti, il Presidente Obama voglia contare almeno sul consenso interno. Una posizione di saggezza, di rispetto delle regole democratiche e, sotto questo profilo, apprezzabile. Ma alla base c’è un vizio di origine, una lettura a mio avviso errata da parte dell’intero Occidente delle vicende che negli ultimi due anni hanno sconvolto non solo la Siria, ma una parte importante del mondo arabo».

Qual è questa lettura sbagliata?

«Gli eventi di questi ultimi due anni inducono a riflettere su una drammatica carenza di analisi e di visione da parte degli Stati Uniti. Per non parlare dell’assenza o, nel migliore dei casi, della debolezza dell’Unione europea per le divisioni fra i suoi Stati membri. L’Occidente ha interpretato un moto, pur importantissimo, di portata storica, come rivolte di popolo contro i dittatori. Ora, c’è stata certamente questa componente, ma in realtà quello che è emerso è anche la fragilità di questi Paesi, alcuni dei quali sono delle costruzioni post coloniali. E i recenti conflitti hanno preso spesso la forma di scontri etnico-religiosi, in alcuni casi di natura tribale, che non possono essere ricondotti semplicisticamente allo schema “popolo in rivolta contro il dittatore”. Non avendo le giuste chiavi culturali interpretative e muovendosi in ordine sparso l’Occidente non ha saputo e non sa come intervenire. Emblematico è il caso della Libia: noi abbiamo aiutato il popolo a liberarsi dal dittatore, ma la guerra civile continua, e i morti si contano ancora in molte migliaia. A queste osservazioni aggiungo che, a mio parere, era evidente come un moto di partecipazione, di protagonismo popolare nel mondo arabo avrebbe portato in primo piano le componenti islamiste».

E l’Occidente?

«L’Occidente ha avuto il timore dell’islamismo politico e non ha compiuto quella analisi necessaria delle diversità presenti all’interno di questo mondo, che è così complesso. Così si è infilato in una serie di paradossi. È paradossale, ad esempio, che in Siria si sostengano le componenti più estremiste del fronte anti-Assad, financo Al-Nusra, legato ad al Qaeda, mentre in Egitto si siano avallati il colpo di Stato militare contro i Fratelli musulmani, l’arresto del primo presidente eletto democraticamente, lo scioglimento del suo partito, le morti di centinaia, forse migliaia di persone, come se nulla fosse. Il quadro confuso e contraddittorio che emerge supporta la sensazione di un Occidente che persegue più i suoi interessi geopolitici, che non una presenza coerentemente ispirata ai valori democratici, ai diritti umani e civili. E questo ci ha fatto perdere enormemente di credibilità in un mondo che non era pregiudizialmente ostile. Mi sembra che a prevalere sia la logica della convenienza e non certo quella della coerenza».

Come rientra in questo scenario la vicenda siriana?

«Essa si iscrive pienamente in questo quadro. È una vicenda complessa, sul piano interno e internazionale. Quella della famiglia Assad è una dittatura feroce, e non da oggi. Ma noi non comprenderemmo le ragioni per cui questa dittatura ancora esiste, e anzi sembra quasi prevalere sul piano militare, se applicassimo lo schema, a cui accennavo prima, di “un popolo che insorge contro il dittatore”. Se fosse stato così, infatti, lo avrebbero spazzato via da tempo. Invece, è evidente che in Siria c’è una guerra civile. Ed è altrettanto evidente che nella società siriana ci sono componenti importanti che magari non hanno particolare simpatia per il regime di Assad e tuttavia lo sostengono perché sono piuttosto impaurite di ciò che potrebbe avvenire. La maggioranza sunnita, in particolare la componente più radicale che anima la rivolta sul terreno, è vista con timore dagli alawiti, dagli sciiti, dai curdi, dai cristiani. Quest’ultima è tra le componenti che, di fatto, sostengono di più il regime di Assad. Quello in atto in Siria è un processo di frammentazione che mette a rischio perfino l’unità del Paese, in cui l’elemento dello scontro etnico-religioso s’intreccia con la lotta contro il regime. E proprio perché questo groviglio appare inestricabile, sembra difficile pensare a una soluzione che non passi attraverso una Conferenza di pace. Un’iniziativa che riunisca attorno a un tavolo tutte le diverse componenti, con l’obiettivo di arrivare a un punto di sintesi, il quale, a mio avviso, dovrebbe portare alla liquidazione della dittatura attraverso la formazione di un governo di unità nazionale. Ma la premessa di tutto questo è una tregua e poi il dispiegarsi di una forza internazionale di interposizione, sotto l’egida dell’Onu e della Lega araba, che contribuisca alla pacificazione del Paese. Non vedo un’altra via. In quello che sta accadendo credo ci siano diverse responsabilità: quella della Russia, che appoggia Assad dal punto di vista politico e militare, alimentando in lui la convinzione di poter vincere la guerra, e quella del fronte occidentale, a partire dagli Stati Uniti, e di quei paesi arabi, come Arabia Saudita e Qatar, che non hanno immaginato altra soluzione se non la vittoria militare dei sunniti».

Con quale risultato?

«Devastante. I fronti internazionali contrapposti anziché spingere le parti a ricercare un compromesso e una soluzione di pace, hanno alimentato la guerra, rafforzando la convinzione degli uni e degli altri di poter vincere sul campo. Ma se ciò avvenisse, il rischio sarebbe una disgregazione della Siria, che si ripercuoterebbe sull’intero Medio Oriente. Altro che bombardamenti mirati, qui ci sarebbe bisogno della politica. E il prossimo G20, come giustamente ha detto il Presidente del Consiglio Letta, potrebbe essere l’occasione per recuperare un intento comune nell’elaborazione un piano che ponga fine al conflitto. Bisognerebbe avviare una manovra a tenaglia su tutte le parti in causa. Una manovra che non potrebbe non coinvolgere la Russia e, per certi aspetti, anche l’Iran. Una manovra che imponga alle parti un cessate il fuoco e l’avvio di un processo politico che possa portare la Siria fuori da questa tragica situazione».

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