Intervista
15 ottobre 2013

“Sì al taglio del cuneo, ora più flessibilità sul deficit”

Intervista di Fabrizio Forquet – Il Sole 24 Ore


Copertina_5.jpg
«In un mondo dove la competizione sulle esportazioni è sempre più agguerrita, noi non possiamo pensare a un rilancio della crescita europea che non passi attraverso una forte azione pubblica e lo sviluppo del mercato interno: bisogna puntare su investimenti produttivi e miglioramento della capacità di acquisto interna, attraverso salari dignitosi e politiche sociali, perciò sono favorevole al taglio del cuneo fiscale». Alla vigilia dell’approvazione della legge di stabilità, e nel pieno di partite finanziarie che vedono in gioco il destino di importanti aziende nazionali, Massimo D’Alema fa partire il suo ragionamento dal ritorno alle politiche pubbliche.

Presidente D’Alema, domani (oggi, ndr) il governo Letta varerà la sua prima legge di stabilità. Condivide la priorità messa sulla riduzione del cuneo fiscale?

«Credo che si faccia bene a puntare sulla riduzione del cuneo fiscale. È un tema cruciale. Ridurre il cuneo significa fare due cose altrettanto necessarie: dare maggiore competitività alle nostre imprese e migliorare i salari dei lavoratori».

Il problema sono le risorse, perché un taglio del cuneo per avere effetto deve essere significativo.

«E infatti io credo che il governo farebbe bene a concentrare su questo capitolo il massimo delle risorse disponibili, a cominciare da quest’anno, ma non solo su quest’anno. Purtroppo in questi mesi abbiamo sprecato risorse per eliminare l’Imu sulla prima casa, un prezzo alto pagato alla demagogia berlusconiana».

Visti i vincoli europei l’unico modo per trovare le risorse è quello di procedere finalmente a una coraggiosa revisione della spesa.

«Nei giorni scorsi ho incontrato a Washington - dove ero per un seminario sull’economia e la crescita mondiale organizzato dalla FEPS - Carlo Cottarelli, che ora è stato chiamato a fare il commissario alla spending review. Ragionando sui risultati positivi che il centrosinistra aveva raggiunto al governo, ho sottolineato anche con lui che non si può pensare a un intervento significativo sulla spesa se non all’interno di una riforma complessiva della pubblica amministrazione. Il tema decisivo è il funzionamento della macchina pubblica». 

La burocrazia...

«Semplificare e rivedere gli assetti dell’amministrazione pubblica è la riforma delle riforme. Non solo per contenere le spese, ma anche per aumentare la competitività del sistema economico e attrarre investimenti».

La sovrapposizione dei livelli di governo non aiuta.

«Il federalismo, così come lo abbiamo praticato, è stato in effetti uno dei maggiori responsabili dell’aumento della spesa pubblica. Per non parlare dei danni in termini di efficienza che sono venuti dalla moltiplicazione dei centri decisionali, dalle competenze confuse tra centro e periferia, dal sommarsi delle autorizzazioni».

Sono riforme che l’Italia deve fare al suo interno. E tuttavia la sensazione è che se non si otterranno dall’Europa politiche più favorevoli alla crescita difficilmente il nostro Paese ce la farà. Su questo il governo Letta può fare di più?

«Può e deve farlo. Sfruttando anche l’opportunità politica che viene dalle elezioni tedesche».

Per la verità Merkel ha riportato un plebiscito sulla sua politica di rigore...

«La Merkel ha avuto un rilevante successo personale, ma ha perduto la sua maggioranza. E ora la trattativa con i socialdemocratici per formare il governo non si annuncia per nulla facile. Sull’Europa credo che la cancelliera sarà costretta a fare concessioni significative. Del resto in Germania, anche tra le imprese, molti hanno cominciato a comprendere che se non ci sarà una svolta delle politiche Ue in favore della crescita, l’economia tedesca ne risentirà. Anche loro non possono vivere di solo export».

Intanto i tedeschi continuano a finanziarsi a costi bassissimi.

«Sì, ma l’Europa sta diventando la palla al piede della crescita mondiale. E non è qualche decimale positivo di Pil che salverà la Germania. Serve una svolta in tre direzioni. Una politica europea del debito innanzitutto: nessuno vuole che i tedeschi paghino i nostri debiti, ma vanno ridotti i tassi di interesse per liberare risorse per gli investimenti. Un adeguamento del bilancio federale, in secondo luogo, con il ricorso alla Bei, ai project bond, ai programmi per la ricerca e l’innovazione. E infine la golden rule».

Se ne parla da sempre, ma alla fine la flessibilità che l’Europa ci sta concedendo in cambio del rientro sotto il 3% si limita agli investimenti cofinanziati.

«Su questo, appunto, va ottenuto molto di più. Va separata in modo chiaro, ai fini del calcolo del deficit, la spesa per investimento da quella corrente. Anche perché la mancata distinzione oggi fa sì che i governi, per stare entro i parametri, taglino proprio la spesa in conto capitale, che è meno sensibile politicamente, lasciando correre quella improduttiva».

I tedeschi temono che poi gli italiani facciano i furbi. Che si possano spacciare per investimenti spese che sono in realtà di funzionamento...

«Magari hanno anche ragioni storiche per diffidare di noi. Ma bisogna proporgli un patto, un trade-off: politiche più espansive da una parte, in cambio di maggiore integrazione politica ed economica dall’altra. La loro diffidenza può trasformarsi in disponibilità se gli assicuriamo un maggiore controllo a livello comune sulle politiche nazionali. Bisogna tener conto che su questo il governo francese è meno arroccato rispetto al passato e maggiormente disponibile a una più stretta integrazione politica a livello europeo. Questo potrebbe essere un patto franco-tedesco utile all’Europa e l’Italia potrebbe giocare il ruolo di facilitatore».

Abbiamo parlato di quello che dovrebbe fare il governo Letta. Ma lei non passa per essere uno dei sostenitori più calorosi di questo esecutivo.

«Io sono un osservatore, molto spesso all’estero. Credo sia giusto sollecitare questo governo a fare meglio, ma non credo che sia giusto rovesciarlo».

Riuscirà Letta ad arrivare almeno al 2015 o si voterà prima?

«Credo che questo governo stia andando di filato verso il semestre europeo, non sarebbe ragionevole una crisi con nuove elezioni prima o durante. Non faccio parte delle tifoserie, ma sono un politico ragionevole e dico che non è ragionevole destabilizzare il governo, magari per le ambizioni personali di chi ha troppa fretta».

Si riferisce a Renzi. Sabato, lanciando la sua campagna, ha parlato di un’intera classe dirigente che ha fallito. Si è sentito chiamato in causa?

«Bisognerebbe distinguere le responsabilità nel corso di questi vent’anni. Almeno per dare una giustificazione a quella parte dell’establishment che sta lì ad applaudire entusiasticamente ai ceffoni di Renzi. Non mi è piaciuto lo stile di un uomo solo con i riflettori puntati addosso, che passeggia sul palco con il microfono in mano. Mi pare di averlo già visto in questi anni».

C’erano molti dei suoi a Bari...

«Non ho avuto mai “i miei”. Ognuno è libero di fare ciò che vuole di se stesso e anche della propria dignità. Adesso inizierà il congresso e innanzitutto voteranno gli iscritti. Oltre a Renzi ci sono anche altri candidati, tra cui Cuperlo, il cui spessore politico e intellettuale è di indiscutibile rilievo. Vedremo come si pronunceranno gli iscritti. Il che sarà importante perché decideranno i segretari dei circoli e quelli provinciali. Nelle primarie Renzi parte con il vantaggio di una grande disponibilità di mezzi e di un ampio sostegno da parte di quasi tutti gli organi di informazione». 

Siamo partiti dall’intervento dello Stato in economia. Che idea si è fatto delle vicende che hanno interessato in questi giorni grandi imprese come Alitalia e Telecom?

«Su Alitalia paghiamo le scelte sbagliate di Berlusconi. All’epoca era matura l’intesa con i francesi per dar vita a un grande gruppo europeo, ma si puntò sulla cordata nazionale con gli esiti negativi che conosciamo. Adesso non possiamo lasciare fallire Alitalia. Va salvata, limitando l’influenza dei francesi».

Condivide la scelta di Poste?

«Sarebbe stata meglio un’intesa con le Ferrovie. Per due ragioni: credo ci sarebbero state sinergie più robuste e si sarebbero anche svalutate le partecipazioni, risolvendo il problema dei francesi».

L’alleanza con Air France non la convince...

«Mi pare che abbiano una situazione, anche debitoria, complicata. Ma soprattutto penso che, anche in vista dell’Expo, sarebbe stato meglio puntare su una compagnia non europea, che offrisse più opportunità al nostro Paese, anche nel traffico turistico».

Dai francesi agli spagnoli. Come giudica l’operazione su Telecom?

«Quella degli spagnoli è stata un’iniziativa dannosa per il nostro Paese. A loro interessano le attività in Brasile. E quindi l’esito di tutto questo rischia di essere la liquidazione degli asset migliori di Telecom, quelli in Sud America».

La crisi di Telecom ha una data di nascita. L’acquisto "a debito" da parte di Colaninno e di quelli che lei definì i "capitani coraggiosi". Possiamo dire oggi che anche quella fu un’operazione sbagliata?

«Fu un’operazione di mercato: l’acquisto da parte di privati di una società che era già stata privatizzata. L’intervento del governo per impedirlo sarebbe stato, questo sì, una manifestazione di statalismo. Oggi, comunque, il problema principale di Telecom non è il debito. Gli spagnoli hanno un indebitamento doppio. Il problema è la mancanza di redditività e la perdita di quote di mercato».

A distanza di tanti anni non crede che sia giusto un giudizio più problematico su quella scalata?

«Fu un’operazione condotta sulla base di un chiaro piano industriale. Ci fu un’Opa, ci fu trasparenza. A differenza di quanto avvenne dopo con Tronchetti Provera, che comprò a trattativa privata. Certo, ci fu una debolezza, quella legata alla cordata finanziaria che sostenne il progetto industriale, una cordata caratterizzata da interessi speculativi che poi sono emersi con chiarezza. Diciamo che se le grandi banche italiane avessero creduto di più in quel progetto forse la storia di Telecom sarebbe stata diversa».
 

stampa