Discorso
5 novembre 2014

PORTARE LA SOLIDARIETA' NELLE POLITICHE D'ASILO

intervento introduttivo alla IV edizione di Call to Europe Bruxelles, ConcertNoble


Massimo D’ALEMA


Presidente del Foundation for European Progressive Studies


Sono felice di darvi il benvenuto alla quarta edizione della conferenza Call to Europe, appuntamento annuale della FEPS del quale sono molto orgoglioso, in quanto testimonia i progressi che la fondazione che ho l’onore di presiedere ha compiuto dalla sua nascita.


Quest’anno sono particolarmente lieto di aprire Call to Europe perché l’argomento che affronteremo insieme è di cruciale importanza. Le politiche di asilo sono infatti una questione di vita o di morte per molte persone. Persone che lasciano i loro paesi spinte dalla paura. Paura della violenza, delle guerre, dei genocidi, delle discriminazioni, della fame, della povertà, dei disastri naturali. Persone a cui non è data l’opportunità di vivere una vita dignitosa nei paesi di origine, con le persone che amano, nella loro cultura, parlando la loro lingua. E che rischiano la vita per venire in Europa con una speranza: condurre un’esistenza migliore e assicurare un futuro ai loro figli.


Vorrei mettere in chiaro dall’inizio che i rifugiati non sono criminali e che, di conseguenza, non meritano di essere trattati in quanto tali. Quindi il nostro obiettivo dovrà essere l’elaborazione di una politica che non criminalizzi i richiedenti asilo. Ciò che noi facciamo adesso è rinchiudere i rifugiati in centri di detenzione, sottoponendoli a interrogatorio e costringendoli a dimostrare i crimini di cui sono stati vittime. Come se ciò non  bastasse, continuiamo a punirli escludendoli dalla possibilità di entrare a far parte della società e del mercato del lavoro. E quando diamo loro l’occasione di trovare un impiego, lo facciamo spesso attraverso forme di sfruttamento. Questo meccanismo è semplicemente inaccettabile.


Credo sia venuto il momento di pensare all’asilo come a un processo per riconoscere le ingiustizie che hanno subito i rifugiati piuttosto che come un modo per sottoporli a ulteriori maltrattamenti. Sfortunatamente, questo tipo di approccio è stato esasperato dal crescente clima nazionalistico che sta alimentando sentimenti xenofobi in gran parte degli Stati membri europei.


Questi non sono i principi e i valori sui quali è stata fondata l’Unione europea. E sicuramente non sono i principi sui quali dovrebbe basarsi la legislazione europea su immigrazione e asilo.


La Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali prevede il principio di non refoulement, cioè il divieto di rinviare una persona verso paesi dove la sua vita possa ritenersi esposta a rischio, o dove esista il pericolo che possa essere sottoposto a tortura, a pene inumane o degradanti. Questo principio è desunto dalla Convenzione di Ginevra del 1951 ed è interamente ripreso dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea agli articoli 18 e 19. È noto inoltre che l’articolo 63 del Trattato di Lisbona stabilisce che l’Unione sviluppa una politica comune in materia di asilo e di immigrazione intesa ad assicurare, in ogni fase, la gestione efficace dei flussi migratori e l’equo trattamento dei cittadini di paesi terzi. Infine stabilisce che le politiche dell’Unione e la loro attuazione sono governate dal principio di solidarietà e di equa ripartizione di responsabilità fra gli Stati membri, anche sul piano finanziario.


L’articolo 33 del cosiddetto Regolamento di Dublino 3, che si incentra sul  meccanismo di allerta rapido, di preparazione e di gestione della crisi, fornisce strumenti che dovrebbero aiutare gli Stati membri ad affrontare le situazioni di emergenza, come la crisi nel Mediterraneo che stiamo vivendo, con spirito di solidarietà.


Infine, l’Unione europea dovrebbe provvedere ad armonizzare le normative nazionali in materia di richiesta di asilo. Ma tutto questo, con ogni evidenza, è purtroppo rimasto sulla carta e non ha trovato concreta applicazione nella realtà se non in modo sin qui assai parziale e insoddisfacente.


Secondo l’ultimo rapporto pubblicato dall’Asylum Information Data Base, nella prima metà del 2014 il 70% dei rifugiati riconosciuti come tali sono stati accolti in solo cinque dei 28 paesi dell’UE e in particolare, nell’ordine, Germania, Francia, Svezia, Regno Unito e Italia. Si pensi che l’Ungheria ha sinora accolto soltanto l’8% delle richieste di asilo che ha ricevuto contro una media europea che si aggira intorno al 52%. Questo dimostra quanto siamo lontani da quella armonizzazione di norme e comportamenti prevista dall’articolo 63 del Trattato.


Sono impressionanti i dati relativi alla provenienza e alla composizione per età della massa dei rifugiati che premono alle nostre frontiere. I dati disponibili sono aggiornati al 13 agosto 2014 e ci dicono che una percentuale assai elevata di richiedenti asilo proviene dalla Siria, dall’Iraq, dalla Libia e dalla Somalia. Il 21% ha meno di 14 anni. In molti casi si tratta di bambini affidati dai genitori, nel disperato tentativo di salvarli dalla tragedia della guerra, a trafficanti senza scrupoli i quali, spesso con mezzi pericolosi e precari, li traghettano verso la sponda nord del Mediterraneo.


È evidente che una così drammatica emergenza chiama l’UE a essere coerente con i suoi valori costitutivi e all’altezza di quella civiltà europea che è il frutto non soltanto del processo di integrazione, ma di una lunga storia di civilizzazione del nostro continente. Una sfida così impegnativa, che probabilmente, purtroppo, è destinata a protrarsi ancora nel tempo, non può che essere affrontata da parte dell’Unione nel suo insieme e non può essere delegata esclusivamente agli Stati più direttamente esposti ai flussi migratori. Ciò non è soltanto palesemente ingiusto, ma anche contrario, come ho ricordato in precedenza, allo spirito e alla lettera dei Trattati.


L’approvazione all’inizio del 2014 dello schema di finanziamento pluriennale per il periodo 2014-2020, che ha definito un nuovo sistema di fondi per l’asilo e le migrazioni, è stato un passo importante e positivo in questa direzione e dovrebbe permettere di sviluppare un sistema europeo di asilo con solide basi finanziarie.


Come utilizzare queste risorse? In primo luogo per sostenere una comune politica di accoglienza dei rifugiati e in secondo luogo per sostenere una progressiva integrazione dei rifugiati nel paese in cui sono stati accolti, anche nel caso in cui siano destinati a rimanere in Europa per un breve periodo. Il perseguimento di questi obiettivi non può essere lasciato esclusivamente alle politiche e alle risorse nazionali. In Italia, ad esempio, la questione è particolarmente delicata oggi anche in ragione della persistenza della crisi.


Mi preme sottolineare un aspetto che non dovremmo mai trascurare, soprattutto in considerazione dei tempi difficili che stiamo attraversando. Un sistema efficace di integrazione sociale dei rifugiati rappresenta anche un elemento di stabilità e di scurezza per i nostri paesi. Va da sé che se uno Stato riceve con degli standard alti di accoglienza i rifugiati, vi sono molti meno rischi che questi finiscano per essere manodopera del crimine organizzato o per militare in gruppi terroristici.


Una questione particolarmente delicata che è stata ed è al centro del dibattito più recente riguarda il tema del controllo delle frontiere marittime e del soccorso in mare delle persone che cercano di raggiungere il nostro continente. Spero che questo nostro dibattito valga a chiarire un punto che mi sembra estremamente rilevante. L’operazione Mare Nostrum, che è motivo di orgoglio per l’Italia, si è conclusa qualche giorno fa. Essa è stata soprattutto destinata al salvataggio delle persone che via via hanno cercato, in modo avventuroso e precario, di attraversare il Mediterraneo. Non possiamo certo dimenticare la tragedia delle migliaia di persone che sono morte in questo tentativo; tuttavia senza Mare Nostrum il numero delle vittime sarebbe stato enormemente superiore. Si tratta ora di capire quale sarà la dimensione e il profilo dell’operazione Triton che, stando alle recenti dichiarazioni, prenderà il posto di Mare Nostrum e farà capo a Frontex e quindi all’Unione Europea.


Ad oggi la situazione appare abbastanza ambigua. Da una parteil governo italiano sostiene che l’iniziativa ha l’obiettivo di sostituire Mare Nostrum. Dall’altra parte la Commissione europea – e precisamente la commissaria Malmström, all’epoca responsabile per gli Affari interni – ha affermato che Triton è complementare a quanto l’Italia ha fatto sin qui. Ora sembra, come ho appena detto, che Triton debba completamente sostituire la missione italiana. Ma a mio parere il punto non è tanto la bandiera sotto la quale si opera, quanto i suoi obiettivi, che sono due: il rafforzamento delle frontiere europeo e il soccorso delle persone disperate che tentano di raggiungere il nostro continente. Naturalmente il secondo obiettivo, cioè il salvare vite umane, deve esserela nostra priorità e non deve essere per nessuna ragione indebolito.


Si tratta, come si capisce, di una sfida difficile per l’Europa. Lo scopo che l’Unione deve prefiggersi è quello di impegnare le proprie risorse politiche, finanziarie e– quando necessario – militari per riportare la pace e la stabilità nella parte meridionale del Mediterraneo, per contrastare ed eliminare ogni forma di oppressione, di terrorismo, di fanatismo e di intolleranza. Occorre andare alle radici del male e rimuovere le cause che hanno determinato l’emergenza umanitaria nel Mediterraneo.


Le politiche di asilo e immigrazione non possono essere separate dalla politica estera. Qualunque posizione o azione assunta dai nostri governi dovrebbe sempre tenere presente gli effetti che essa avrà sui flussi migratori. Ma ciò che non è accettabile è che di fronte a questa emergenza – sino a quando vi sarà – l’Europa venga meno ai suoi valori e ai suoi doveri. Ciò che non è accettabile è l’egoismo, il razzismo, la speculazione di chi confonde i rifugiati con gli immigrati clandestini, il cinismo di chi volge lo sguardo dall’altra parte per non vedere la tragedia che si consuma sotto i nostri occhi.


L’Europa che vogliamo non può essere questa, né la crisi economica può giustificare che noi lasciamo cadere quelle ragioni di fondo – la difesa della pace, della democrazia, della libertà e della dignità delle persone – per le quali i padri fondatori hanno dato vita all’Unione Europea.

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