Intervista
18 luglio 2001

La protesta no-global e il ruolo della sinistra <br><br>

La lettera di Massimo D'Alema


Caro direttore, nel corso di un colloquio a Pechino, il primo ministro cinese, Zhu Rongji, mi diceva che il G8 non è il consiglio di amministrazione del mondo. Un'osservazione giusta, anche se il problema non si risolve demonizzando quella sede ma rafforzando le istituzioni sovranazionali deputate ad assolvere un compito di governo effettivo della globalizzazione. Proprio per questo dobbiamo rivolgere al vertice di Genova l'attenzione che merita. Non solo per le decisioni che lì si potranno assumere, ma per la protesta che accompagna dopo Seattle ogni appuntamento del genere. Una protesta che tende a crescere d'intensità. Un movimento dotato di simboli e linguaggi propri, ma è soprattutto un movimento assai differenziato come ha notato giorni fa, su questo giornale, il presidente delle Acli.
Amartya Sen ha scritto che una parte di queste forze pone oggi alla politica le domande giuste ma ciò non implica che siano giuste anche tutte le risposte indicate. A partire dalla contestazione in radice del diritto delle nazioni più ricche a riunirsi per assumere orientamenti in materie comuni. È un'opposizione di testimonianza che non tiene conto di due aspetti: l'enorme lentezza delle grandi istituzioni sovranazionali e la necessità di fronteggiare con strategie condivise il gap crescente tra globalizzazione e politica. D'altra parte non era affatto scontato che l'agenda del G8 mettesse al centro la lotta alla povertà e se ciò è stato raggiunto è merito anche dell'influenza di governi e culture che hanno messo in risalto gli effetti distorti della globalizzazione. Il punto, dunque, non è il G8 in sé. Altra cosa è la proposta di «aprire» quel mondo chiuso alle grandi realtà che ne sono escluse. Una linea che in questi anni, come governi di centrosinistra, abbiamo sostenuto, progettando una presidenza del G8 fondata sull'outreach, cioè su quello sforzo costante di consultazione esterna che si è realizzato nella preparazione del vertice e che troverà espressione a Genova alla presenza del presidente Ciampi.
Naturalmente, è giusto porsi il problema del rapporto tra il G8 e quelle istituzioni sovranazionali che a loro volta necessitano di riforme profonde.
Queste posizioni sollecitano le culture politiche dell'Occidente a una visione meno egoista. L'Ulivo e il centrosinistra non hanno eluso questi temi. Il problema della lotta alla povertà ha visto il varo di una legge sulla cancellazione del debito più avanzata delle decisioni multilaterali assunte in materia e ci ha permesso di cancellare il 100 per cento dei nostri crediti commerciali. Lo cito come un esempio concreto delle azioni che i governi possono assumere anche se per pesare davvero l'Italia deve muoversi sul piano delle relazioni bilaterali ma soprattutto deve poter condizionare l'agenda discussa nelle principali sedi internazionali. Noi possiamo anche dichiarare - e io del resto l'ho fatto varie volte negli ultimi cinque anni - di essere favorevoli a misure di controllo dei movimenti di capitali a breve come nel caso della Tobin Tax, ma servirà a poco se non riusciremo a formare su questo delle maggioranze internazionali.
Nel corso di questi anni, una comune radice riformista dell'Amministrazione americana e di gran parte dei governi europei ha creato una maggiore sensibilità per i temi al centro della discussione; come evitare che i benefici della globalizzazione escludessero la parte più povera dell'umanità, come rafforzare una rete di istituzioni democratiche a regolazione dei nuovi mercati, come governare le quattro emergenze - demografica, alimentare, ambientale e sanitaria - che possono piegare la resistenza di milioni di persone. Il ciclo aperto da Clinton nel ‘92, e a seguire i successi dell'Ulivo, di Blair, Jospin e Schroeder, hanno inciso sul modo in cui il G8 ha affrontato questi argomenti come ha dimostrato la brusca correzione di rotta impressa da Bush sul protocollo di Kyoto. La politica, dunque, e sono i concreti rapporti di forza tra conservatori e progressisti a fare la differenza.
In Italia, abbiamo concepito la cancellazione del debito come parte di un piano complessivo di lotta alla povertà. Abbiamo promosso strategie mirate nei settori della salute e della formazione. Ci siamo battuti nel Consiglio europeo a favore dell'abolizione delle barriere doganali ai paesi più poveri. Certo, molto resta da fare, ma l'ispirazione, i valori, le scelte operate andavano in una direzione che abbiamo difeso con coerenza ai vertici di Colonia e Hokinawa, e nel lavoro preparatorio per Genova. Né abbiamo ignorato il capitolo di un'effettiva global governance, dialogando con i grandi paesi del Sud. Infine più di altri abbiamo insistito sul tema dell'Europa: di un'Europa in grado di parlare all'esterno con un'unica voce così da pesare di più dentro i nuovi equilibri globali.
Ricordo questi passaggi per segnalare oggi, alla vigilia del G8, che la sinistra in questi anni non solo ha elaborato un proprio autonomo punto di vista sulle questioni al centro del vertice, ma per ricordare che un riformismo maturo non deve smarrire il senso di un legame con l'Europa e con il complesso delle culture riformiste pena la rinuncia - tanto più grave ora, all'indomani di una sconfitta elettorale - al suo atout fondamentale.
Dopo cinque anni, il centrosinistra italiano non rappresenterà l'Italia al tavolo dei Grandi. Ma noi non possiamo vivere questa assenza come la perdita di legame con quel blocco di valori che contraddistinguono il riformismo europeo e internazionale. Perché se così fosse ci ritroveremmo più deboli e finirebbe coll'essere più debole anche quel movimento che riempirà le vie di Genova e che non chiede attestati di stima, ma risposte politiche ai problemi posti. Alla sinistra e al campo riformista spetta esattamente questo ruolo: dialogare, indicare le priorità di un impegno parlamentare dell'opposizione, e infine saldare quel corpo di richieste alla sinistra europea e al suo raggio d'azione.
Considero questo anche il migliore metodo di lavoro per un'opposizione incisiva dal momento che, archiviato il G8, saremo alle prese con un governo assai poco sensibile ai temi dibattuti in questi giorni. Avvisaglie in tal senso ve ne sono state, dalle ambiguità su Kyoto sino alle recenti sortite in materia d'immigrazione. La domanda che dobbiamo porci è quale ruolo l'Italia saprà giocare nel concerto europeo; se mantenere il peso acquisito negli anni passati anche in virtù di una relazione paritaria tra l'Europa e gli Stati Uniti o se regredire a una funzione subalterna nei confronti della nuova Amministrazione americana. Questa la partita che investe la nostra collocazione futura. Il centrodestra in Italia farà valere un'impostazione diversa e alternativa a quella dell'Ulivo, e sarà compito nostro - di tutti noi - ricostruire un consenso intorno a posizioni più illuminate, meno egoistiche. Anche perché se non lo faremo, di Genova resterà solo, oltre ai ragazzi che sfileranno, l'immagine di un presidente del Consiglio preoccupato unicamente dei panni stesi fuori dalle finestre

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