Discorso
17 ottobre 2002

"Alleati oramai di nome"

di Massimo D'Alema, tratto dal "Il Messaggero"


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Pare abbia sudato più del solito l’onorevole Berlusconi per ricomporre lo strappo consumatosi dopo le parole di La Russa e Bossi sui guasti prodotti dalla Dc. Ci sono volute minacce di secessione dal Consiglio dei ministri per un verso e sottili distinguo da parte dell’alleato più irrequieto per sedare i toni e riportare una calma momentanea.

L’episodio, però, resta illuminante. Non solo perché rivela quale sia lo stato dei rapporti dentro la maggioranza e quante le tensioni latenti, ma per il paradosso di cui è vittima il Capo del governo. Berlusconi si è presentato agli italiani come l’incarnazione politica di Alcide De Gasperi, come l’uomo che avrebbe impedito, in circostanze storiche mutate, agli eredi del comunismo di accedere al governo dell’Italia.

E’ mia opinione che tale operazione gli sia riuscita anche per responsabilità del nostro campo, e in particolare per il ritardo da parte degli eredi dell’esperienza democratico-cristiana dentro l’Ulivo di una riflessione su quanto di vitale o di definitivamente superato vi fosse in quella tradizione. Coll’effetto di non aver rivendicato a sufficienza, avocandoli alla propria parte, i meriti e i contenuti di quella storia, e agevolando, in tal modo, la commedia di Berlusconi sull’eredità degasperiana.

Ora, tralasciando l’aspetto propagandistico della questione, resta il fatto che per ottenere lo scopo egli ha dato vita a una coalizione dove convivono il massimo della rottura della tradizione democratica – gli eredi del fascismo e gli alfieri della secessione padana – con una parte di coloro che nella stagione dell’anticomunismo, quello vero, hanno avuto una funzione centrale nel governo del paese. Questa miscela di sovversivismo popolare, umori antidemocratici e diaspora democristiana ha favorito il paradosso degli ultimi giorni, quando un ex esponente della destra fascista ha scelto l’Aula di Montecitorio per apostrofare, con scarsa eleganza, per l’appunto gli eredi di De Gasperi, mentre il Capo della Lega rincarava la dose insultando gli stessi con gli epiteti di “ladri e schiavisti”.

Uno spettacolo imbarazzante, certo, ma non imprevedibile. E anzi, per molte ragioni frutto dell’ircocervo politico immaginato dal Cavaliere. L’idea di poter assemblare, in virtù di una probabile vittoria elettorale, forze e sensibilità collocate altrimenti su sponde molto distanti; dallo statalismo centralista di An alla devolution leghista, dal liberalismo casereccio di Forza Italia alle spinte più sincere di un riformismo moderato che ha sempre avuto in Italia una tradizione assolutamente rispettabile. Un’operazione condotta non senza qualche abilità, oltre che molti denari, e che si è resa possibile, a partire dal ’94, per il combinato disposto della crisi del vecchio sistema politico e l’introduzione del principio maggioritario con quel tanto di bipolarismo da esso generato.

Il punto è che tutto ciò non ha sciolto il nodo fondamentale, vale a dire come tenere unito un miscuglio tanto complicato di linguaggi e strategie. In una cornice del genere i modi rudi e sbrigativi di Umberto Bossi hanno avuto, come spesso gli capita, il merito di svelare l’umore e lo spirito del momento. Fu così per la retorica del “celodurismo” o la denuncia su “Roma ladrona”. Espressioni rozze e spesso imbarazzanti, ma mai casuali. Oggi, evidentemente, quel che affiora è la divisione profonda interna alla maggioranza. Lo scontrarsi di strategie diverse su tutti i nodi più delicati della situazione, a partire dalla grave crisi della nostra economia e dal pericolo di un declino strutturale del paese con le ricadute che ne seguirebbero. Diciamo che la bandiera dell’anticomunismo, in questo caso, può davvero poco, mentre vengono a galla le incompatibilità di uno schieramento ancora stretto intorno al suo dominus, ma che fatica ogni giorno di più a rinnovare un patto di reciproca fiducia tra forze che paiono alleate oramai soltanto di nome.

La novità dunque, è nella maggiore difficoltà a nascondere conflitti irrisolti in una situazione segnata dall’aggravarsi dei problemi del paese, dal fallimento della linea seguita finora e dall’assenza di una strategia condivisa sul che fare. Col risultato di costringere il governo ad una navigazione a vista. Senza una rotta precisa, né un chiaro sistema d’alleanze politiche e sociali. Un quadro che difficilmente Berlusconi potrà gestire con il solito convenzionale richiamo all’ottimismo. Certo, i rapporti di forza in Parlamento sono quelli noti, e finora la maggioranza, anche in una battaglia imbarazzante per molti come è stata la Cirami, ha stretto le fila e blindato i propri voti.

Ma quanto potrà durare una condizione del genere? E sarà davvero disponibile l’ala moderata dell’alleanza a seguire Bossi e Tremonti lungo una china che, ben oltre i danni già prodotti, rischia seriamente di precipitare il paese nel caos finanziario dal quale faticosamente siamo usciti negli anni scorsi?

Sono interrogativi legittimi, se solo guardiamo all’agenda delle prossime settimane, dalla crisi drammatica della Fiat al rischio di una perdita secca di competitività dell’Italia. Naturalmente, spetta anche all’opposizione fare la propria parte. Che dovrà coincidere con la critica più intransigente sul terreno dei principi – uno per tutti, la difesa della legalità – ma assumendosi il peso di avanzare proposte e soluzioni più efficaci e convincenti di quelle del governo.

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