Discorso
29 ottobre 2002

Aiutiamo il Brasile a non affondare

di Massimo D'Alema


LA VITTORIA di Luiz Iñacio da Silva — il neopresidente Lula — apre certamente una fase nuova nella vita del Brasile ed è possibile inneschi alcune conseguenze positive anche oltre i confini di quel singolo paese. Non solo per la carica simbolica del primo candidato di sinistra a prevalere in una sfida del genere, ma per il significato politico che il successo del leader storico del PT (il Partito dei Lavoratori) potrebbe acquistare nei delicatissimi equilibri dell'America Latina di oggi.
Ho visitato Rio e San Paolo qualche mese fa, all'inizio dell'estate. E sto per farvi ritorno, tra qualche giorno, in un viaggio che prevede una lunga serie di colloqui e di incontri con le autorità politiche, e non solo, di Argentina, Cile, Uruguay e Bolivia. Dunque, ho seguito con particolare interesse una campagna elettorale che lo stesso Lula mi descrisse a fine giugno come la sua scommessa vincente. I fatti hanno dato ragione all'ex metalmeccanico originario di un paesino poverissimo del Nord-Est del Brasile, al punto che nessuno ha fatto mostra di stupirsi per un esito largamente previsto da tutti i sondaggi delle ultime settimane. Il che sposta l'attenzione, fin da subito, sul dopo.
In particolare sugli scenari destinati ad aprirsi e sulla capacità del neopresidente di mantenere fede agli impegni della campagna elettorale. Primo tra tutti, la promessa di guidare quell'enorme e complessa società verso una nuova stagione di crescita, di sviluppo dell'economia e di una ripartizione più equa delle risorse esistenti.
Non c'è dubbio che si tratti per la sinistra brasiliana della vera prova del fuoco. E di una sfida terribilmente difficile anche per un leader di grande esperienza come Lula. L'impegno per una guerra senza tregua a forme di povertà estrema che toccano decine di milioni di persone — il famoso progetto "fame zero" — sarà, sotto questo profilo, l'ostacolo più arduo da superare. Anche se fin dalla campagna elettorale Lula ha coltivato l'immagine di una presidenza affidabile e determinata nel mantenere gli impegni assunti sul terreno strategico del credito internazionale dal suo predecessore, Fernando Henrique Cardoso. Né poteva agire diversamente, se pensiamo al megaprestito di trenta miliardi di dollari — il più grande mai realizzato — deliberato dal Fondo monetario a favore dell'economia brasiliana. Prestito peraltro erogato finora in minima parte e che sarà completato soltanto all'avvio del nuovo anno. Diciamo che la svolta politica del Brasile ha bisogno di non essere lasciata sola, in balia di una condizione gravissima dal punto di vista del bilancio pubblico, del tasso di occupazione, di sottosviluppo e di analfabetismo. Tutti problemi che la buona stella di Lula — e persino la sua volontà di apertura verso gli Stati Uniti e le principali istituzioni sovranazionali — non può risolvere.
Spetta agli altri — all'America di Bush, al Fondo Monetario e, per la parte che le compete, anche all'Europa — comprendere i nuovi obblighi, e le nuove potenzialità della fase che si è aperta. In cosa si traduce un discorso del genere? Innanzitutto, nella capacità dell'Occidente industrializzato di correggere, e alla radice, l'atteggiamento tenuto fin qui. Alle nostre spalle — basterà ricordare la catastrofe argentina di pochi mesi fa — c'è un consuntivo quasi fallimentare di strategie improduttive, come fu, proprio a Buenos Aires, l'artificiosa dollarizzazione del peso. Insistere su quella via sarebbe un atto semplicemente delittuoso. Bisogna capire, invece, che di fronte alle patologie gravissime dell'America Latina, la risposta non può più essere — se mai è stata — un monetarismo che finisce col soffocare l'economia reale, gli scambi commerciali, le produzioni, i consumi. Ma una soluzione esattamente opposta, di aiuti e incentivi mirati, in grado di affrontare quei vincoli strutturali che sono all'origine di forme insopportabili di miseria e sfruttamento. In secondo luogo, è necessario che l'Europa e gli Stati Uniti rivedano, possibilmente presto, le proprie politiche protezionistiche. Che senso ha e quale logica sottende la scelta di togliere agli altri le protezioni residue, mantenendo per sé — è il caso degli Usa — la protezione commerciale su oltre duecentocinquanta prodotti? E come può l'Europa proseguire in una politica di tipo protezionistico sui prodotti agricoli, alla luce delle nuove regole del mercato e della competizione globale?
Certo, sono problemi molto complessi e di non facile soluzione. Ma è da qui che bisogna passare se non si vuole risospingere quell'enorme continente, oggi alla ricerca di una rinascita democratica e sociale, verso il periodo buio delle dittature che vi si sono succedute. Ripeto, sta anche a noi europei — e in modo particolare alle forze riformiste del vecchio continente — aiutare e stimolare il processo avviato. Non mancano, del resto, i segnali di una forte volontà in questo senso. Dal Brasile di Lula al Cile dove parteciperò ad un convegno sulle implicazioni di una giustizia globale e del nuovo Tribunale Penale Internazionale. Fino alle madri e alle nonne di Plaza de Mayo, simboli della lotta argentina, perché sia fatta giustizia sulla vergogna dei cittadini scomparsi tra la metà e la fine degli anni Settanta.
Anche occuparsi di tutto ciò, mi sia permesso dirlo, è un modo — e neppure quello meno rilevante — per affrontare le potenzialità e le contraddizioni di una globalizzazione che ci rammenta, ogni giorno di più, l'esistenza e l'impellenza di un unico futuro comune. Dovremmo cercare, ognuno per la sua parte, di non rivolgere lo sguardo altrove.

da "il Messaggero" del 29 ottobre 2002

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