Discorso
4 novembre 2002

Sovranità e giustizia globale

Camera dei Deputati di Santiago del Cile


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Gentili signore e signori,

ho accolto con particolare piacere l’invito ad intervenire oggi a questa sessione dedicata al tema complesso del rapporto tra sovranità e giustizia universale.

Non solo per la sede: come tanti cittadini italiani ed europei mi lega al Cile e alla città di Santiago un sentimento profondo di solidarietà maturato negli anni lontani della mia giovinezza.

Ma per il tema in sé, che riveste un’attualità stringente e con il quale le diverse culture politiche e la cultura giuridica sono chiamate a misurarsi.

Nel marzo di due anni fa – ero allora a capo del governo del mio Paese – proprio qui vicino, all’Università di Santiago, ebbi modo di affrontare alcuni dei delicati dilemmi suscitati dall’arresto in Gran Bretagna del generale Pinochet.

Mi perdonerete, spero, una breve citazione di quel discorso. Dissi allora, “so quanto questo episodio abbia suscitato un dibattito difficile fra chi saluta la giustizia – non importa da dove venga – e chi si preoccupa di difendere la sovranità nazionale”.

Era chiaro fin da allora, dunque, che il rapporto fra “giustizia globale” e “sovranità nazionale” non era, almeno per il vostro Paese, una questione esclusivamente teorica. Si trattava e si tratta di un problema etico e politico, tanto più per chi, come voi, è impegnato a costruire un futuro aperto, ricercando l’equilibrio più giusto tra memoria, riconciliazione, giustizia.

La mia opinione – allora come oggi – è che dilemmi così delicati possono trovare soluzione soltanto attraverso una relazione chiara tra i principi da difendere e gli strumenti per applicarli.

Nel nostro caso, il principio di fondo da affermare è che un nuovo sistema di relazioni internazionali si deve fondare sulla difesa dei diritti umani in ogni luogo dove essi vengano sistematicamente violati. Spetta alla comunità internazionale e alle sue istituzioni rendere compatibile questo principio con l’affermazione e la tutela della sovranità nazionale. Ma proprio per garantire tale equilibrio diviene indispensabile uno strumento come la Corte Penale Internazionale.

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Muoviamo, come sempre è giusto fare, dal significato delle parole. Cosa significa oggi parlare di una “giustizia globale”?

Significa, in primo luogo, che la difesa dei diritti umani precede – non annulla, ma precede – la stessa sovranità nazionale. Si tratta di un principio di fondo che dovrà avere una importanza centrale in quel sistema di relazioni globali che stiamo faticosamente elaborando.

Questo principio – il diritto/dovere di ingerenza a difesa dei diritti delle persone – negli ultimi anni è stato applicato in aree diverse del mondo: dai Balcani a Timor Est. Non sempre ciò ha prodotto i risultati sperati, ma ciò non toglie che già oggi il sistema internazionale sia, de facto, governato da un principio di sovranità limitate. E ciò nonostante il quadro delle regole e del diritto internazionale sia tuttora quello del secolo scorso.

Siamo, dunque, alle prese con una realtà in rapido divenire, ma dove manca un sistema certo di regole e di istituzioni condivise. Quello che è nell’economia, o negli scambi commerciali e finanziari, è oramai la prassi di accordi e vincoli che riducono lo spazio d’azione degli Stati nazionali, ancora non si è affermata sul terreno politico e della sicurezza.

A tutto ciò si è sommato lo spartiacque segnato da un caso come quello di Pinochet: e cioè l’affermazione secondo cui nessun capo di Stato o di governo può fruire, una volta concluso il proprio mandato, di una totale “immunità”, laddove gli siano stati addebitati reati contro l’umanità. Il che significa, appunto, porre la difesa dei diritti umani, e non solo degli Stati, alla base dell’etica e della responsabilità politica.

Siamo d’accordo su questo?

Personalmente ritengo sia la strada giusta. L’unica scelta possibile per quanti pongono la sicurezza, la giustizia, la dignità delle persone al centro dell’azione politica sul piano interno e internazionale. La stessa barriera tra questi due ambiti sta progressivamente cedendo il passo ad un mondo globalizzato sotto il profilo dei valori, dei principi e delle regole.

Se la nostra analisi concorda su questo, l’altro interrogativo di fondo riguarda gli strumenti necessari a conseguire gli obiettivi indicati. E, in particolare, come evitare le disparità di trattamento. Come evitare quei “doppi standards” che troppo spesso delegittimano l’azione della comunità internazionale. E, infine, come trovare una composizione tra difesa della giustizia globale e rispetto della dignità nazionale.

Per chi, come me, ha vissuto con convinzione ma anche con angoscia la decisione di intervenire militarmente contro la Serbia, lo sbocco non è nella proliferazione di Tribunali ad hoc. Soluzione nella quale è insito un rischio notevole di politicizzazione.

La soluzione migliore è senza dubbio la creazione di una istituzione come la Corte Penale Internazionale in grado di operare – come detta lo Statuto – in maniera complementare e non sostitutiva rispetto alle giurisdizioni nazionali.

Porre la questione in questi termini – gli unici corretti – può aiutarci anche a rimettere la questione nella sua “giusta prospettiva” e nei suoi “giusti confini”, superando molte obiezioni di merito.

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La Corte Penale Internazionale segna uno sviluppo significativo, in primo luogo, per il superamento della vecchia distinzione tra dimensione interna e internazionale sul terreno del diritto umanitario.

In modo non ambiguo, infatti, lo Statuto della Corte si applica anche ai crimini di guerra compiuti nei conflitti armati all’interno degli Stati, superando un’applicazione limitata del diritto umanitario ai conflitti tra Stati sovrani.

E’ un deciso salto di qualità. Ciò che interessa non è la natura dell’aggressore, o il tipo di conflitto, ma l’essenza del valore umanitario che si intende proteggere. Il che è uno sviluppo coerente alla dinamica della conflittualità internazionale, dal momento che ad essere aumentato enormemente, dopo la fine del vecchio sistema bipolare, è il numero dei conflitti interni ai singoli Paesi.

Ma la nascita della Corte Penale Internazionale è una svolta anche per la normativa sui diritti umani la cui difesa cessa di essere materia di pura denuncia per entrare nella sfera della protezione legale. Nel momento in cui le violazioni dei diritti umani non sono solo denunciate a Ginevra, ma perseguite all’Aja, l’importanza della protezione dei diritti umani sul piano internazionale aumenta in modo significativo.

Un terzo significato della CPI è nel suo valore come forza di dissuasione – e quindi di prevenzione – dei conflitti. E ciò perché, spostando l’attenzione dalle cause di conflitto alla responsabilità dello stesso, la Corte introduce un elemento potente di deterrenza. In particolare rispetto ai conflitti interni agli Stati, dove la divisione fra violenza politica e criminalità comune è spesso difficile da stabilire.

In sintesi, il significato politico principale della Corte sta nel riconoscere che nell’attuale sistema internazionale la violazione dei diritti umani non può più contare sulla barriera protettiva degli Stati nazionali. Comincia così ad emergere un diritto internazionale umanitario.

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Capisco, per le ragioni dette, che una delle principali obiezioni alla nascita del Tribunale sia stata la “minaccia” presunta al principio di sovranità nazionale.

In verità, sostituendo l’espressione “minaccia” con quella di “limitazione”, avremmo una definizione corretta del problema.

E’ ovvio che la Corte implica, nei fatti, una qualche forma di limitazione nella sovranità dei singoli Stati. Ma ciò è inevitabile.

Sarebbe, del resto, discutibile sostenere che gli Stati nazionali godono di una sovranità assoluta, quando in realtà – pensiamo agli accordi economici internazionali e ai loro vincoli – vivono già oggi in un sistema di “volontaria limitazione della sovranità”.

La realtà delle cose ci impone di guardare al tema della sovranità non in termini assoluti, ma dinamici. Ed infatti nel complesso rapporto tra legislazione internazionale e sovranità statuale, la comunità internazionale si sta gradualmente movendo dal principio “tutta la legge internazionale compatibile con la sovranità” alla relazione inversa, “tutta la sovranità compatibile con la legge internazionale”.

Gli ultimi anni, in particolare, hanno visto per altro l’esercizio della sovranità limitato dal principio di responsabilità, come dimostra la gestione dei cosiddetti pericoli globali, dalla proliferazioni nucleare ai rischi ambientali.

Ciò detto, è del tutto evidente che il successo della Corte dipenderà anche dalla garanzia di meccanismi che non sacrifichino le prerogative legittime degli Stati che la compongono e che hanno deciso, volontariamente, di creare un organismo internazionale tale da accomunarli in una sovranità condivisa. Non va mai dimenticato, infatti, che la Corte ha una natura complementare; è una Corte di “ultima istanza”, che verrà attivata solo nei casi in cui le corti nazionali non si siano mostrate in grado o intenzionate a perseguire crimini che interessano il Tribunale Internazionale.

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Se approfondiamo il problema della sovranità, appare anche più chiaro perché i paesi europei – e l’Unione europea nel suo insieme – siano stati i principali sponsor dell’accordo; e perché invece gli Stati Uniti l’abbiano a lungo osteggiata.

Per i paesi che fanno parte dell’Unione europea, il concetto di “sovranità condivisa” è, per così dire, a fact of life. Nel senso che, dal 1955 in avanti e sotto l’impulso tragico di due guerre mondiali, abbiamo deciso volontariamente di limitare la sovranità nazionale per dare vita a istituzioni comuni che, in primo luogo, consentissero di bandire i conflitti dal continente europeo, costruendo un destino comune fondato su un mercato unico, un’unica moneta e – speriamo assai presto – una vera e propria politica estera e di difesa comune.

Pochi immaginavano, mezzo secolo fa, che l’Europa sarebbe giunta a elaborare una propria Costituzione, e a farlo proprio mentre si va realizzando il più grande allargamento della storia della Comunità.

La chiave del successo europeo sta proprio nell’accettare il concetto di una sovranità “relativa”, in nome di vincoli, norme e obblighi condivisi. In un certo senso, lo Stato europeo è consapevole che solo la cessione di sovranità ad istituzioni comuni è ormai in grado di rispondere alle esigenze di benessere economico, di sicurezza interna ed esterna, dei propri cittadini.

Esistono naturalmente problemi aperti su questo fronte, e tensioni non sopite alle quali cercherà appunto di rispondere la Costituzione in fieri. Ma il “senso” profondo dell’esperienza europea è chiaro ed è condiviso dalla maggior parte dei nostri cittadini.

Questa nostra identità influisce anche sul modo in cui gli europei guardano al sistema internazionale, privilegiando l’ottica di accordi multilaterali solidi e di istituzioni internazionali efficienti. Si accetta l’idea che tutto ciò limiti la sovranità dei singoli attori nel nome di un bene pubblico – la stabilità internazionale, con le sue regole – che tuteli le singole parti di un insieme reso sempre più interdipendente dagli effetti della globalizzazione.

Ugualmente accettata è l’idea di istituzioni internazionali che agiscano a tutela di diritti e valori universali. Abbiamo già compiuto, in questo senso, dei passi importanti, approvando ad esempio la Carta dei diritti fondamentali dell’unione.

Oggettivamente, gli Stati Uniti non hanno questa stessa esperienza.

Il federalismo americano è nato su altre basi, non attraverso un processo di condivisione fra sovranità di stati nazionali storicamente formati e, almeno in alcuni casi, con una lunga tradizione storica alle spalle.

Uno dei problemi del sistema internazionale attuale, sta anzi nel fatto che l’Amministrazione Bush sembra scegliere una linea opposta; una visione negativa di una serie di accordi internazionali giudicati lesivi degli interessi nazionali americani, dal Protocollo di Kyoto alla Corte Penale Internazionale della quale stiamo discutendo.

E’ una linea che, di fatto, nega una strategia multilaterale per la soluzione dei problemi. Ma è anche una impostazione, a mio parere, che rischia di isolare gli Stati Uniti senza risolvere alcuno dei problemi che sono all’origine di quella scelta, né il capitolo della lotta al terrorismo, né tanto meno quello della loro sicurezza interna.

Come ha scritto di recente in un articolo per La Nacion, Carlos Fuentes, “la politica exterior norteamericana se funda en los intereses nacionales de los Estados Unidos. El derecho internacional es apenas una utopia dispensable. He evocado aqui’ mismo el ejemplo mas llamativo de esta actitud: el rechazo norteamericano de la Corte Penal Internacional. Casada con su supremacia global, la Casa Blanca reniega de un cuerpo internacional que podria ser arma efectiva contra el terrorismo que los Estados Unidos denuncian con tanto fervor.”

Sono parole severe e contengono un giudizio molto duro. Ma, al fondo, esprimono un concetto semplice. L’idea secondo cui, se davvero gli Stati Uniti vogliono combattere il terrorismo, serve un quadro di regole e di strumenti – la Corte Penale è certamente uno di questi – in grado di rafforzare una strategia internazionale contro la violenza e i crimini di una minoranza.

Purtroppo la stessa strategia dell’Amministrazione Bush di una “guerra preventiva” appare come la scelta di un unilateralismo che mira, in modo velleitario, ad una “sovranità assoluta” degli Stati Uniti dentro un sistema caratterizzato invece, come abbiamo visto, da sovranità sempre più relative per ciascuno degli attori internazionali coinvolti.

Non è, dunque, interesse neppure degli Stati Uniti rallentare il cammino di quel nuovo diritto internazionale che, soprattutto in una stagione di gravi tensioni, rappresenta un valido riferimento nella battaglia per una “giustizia globale”.

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Siamo così all’altra obiezione di fondo mossa nei confronti della CPI: il rischio di una manipolazione politica, temuto in particolare dagli Stati Uniti.

Dal punto di vista strettamente teorico, è ovvio che un rischio del genere esiste. Ma il punto non è delegittimare ex-ante l’esistenza di tribunali internazionali; e Washington, del resto, ha appoggiato la nascita del Tribunale sui crimini di guerra sulla ex-Yogoslavia.

Bisogna piuttosto stabilire un sistema adeguato di controlli e di garanzie.

La Corte di cui stiamo parlando possiede garanzie di questo genere, incluso il fatto che lo Statuto prevede la possibilità per il Consiglio di Sicurezza di bloccarne i procedimenti (articolo 16), oltre alla ricusazione del procuratore e dei giudici, laddove una maggioranza semplice dei paesi firmatari si esprima in tal senso.

Su queste basi, ritengo che la CPI aumenti, rispetto ai tribunali ad hoc già esistenti, le garanzie per cui i procedimenti e le sentenze non vengano influenzati da pressioni politiche. E trovo quindi poco convincente che paesi i quali hanno appoggiato la creazione di Tribunali penali internazionali si oppongano ad una Corte internazionale accreditata di una maggiore imparzialità.

Come è noto, tuttavia, l’obiezione specifica al mandato della Corte riguarda il trattamento di soldati impegnati in missioni internazionali. Per rispondere a queste preoccupazioni, l’Unione Europea ha deciso di approvare la firma di accordi bilaterali con gli Stati Uniti, relativi all’estradizione di soldati americani. E’ una scelta pragmatica, forse anche discutibile ma comunque ritenuta necessaria per rispondere alle obiezioni americane.

Si lega a queste obiezioni anche l’idea che la Corte, in una sorta di paradosso, possa implicare forti rischi per chi combatte il terrorismo (i soldati impegnati in missioni internazionali, appunto), ma non consenta invece di perseguire i terroristi stessi.

In realtà, sia l’articolo 7 dello Statuto – che include nei crimini contro l’umanità “attacchi diffusi e sistematici contro popolazioni civili” – sia l’articolo 8 – che interessa i crimini di guerra compiuti in conflitti che non abbiano un carattere internazionale – coprono le dimensioni poste dal terrorismo transnazionale.

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Un’ ultima obiezione mossa alla Corte riguarda non tanto le relazioni internazionali (minaccia alla sovranità, rischi di politicizzazione) ma le situazioni interne ai singoli paesi: il rischio, cioè, che l’attivazione del Tribunale renda più difficile, nei paesi usciti da conflitti, processi delicati di pacificazione e riconciliazione.

Si tratta in teoria di una obiezione fondata.

Va però ricordato che l’obiettivo sostanziale della Corte è – come ho ricordato all’inizio – dissuasivo piuttosto che punitivo; e non è in ogni caso sostitutivo ai procedimenti nazionali.

Più in generale, la forza dissuasiva del Tribunale penale internazionale consisterà proprio nello stimolare procedure interne – rispetto a cui la Corte internazionale resta in funzioni puramente complementari. Così del resto ha dimostrato di sapere e di volere fare il Cile, dopo l’internazionalizzazione – in una prima fase controversa e comunque traumatica – della questione della violazione dei diritti umani negli anni della dittatura.

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In conclusione, analizzata nei limiti e nelle garanzie che implica, la Corte Penale internazionale è uno strumento delicato, ma indispensabile per adattare il diritto internazionale alla realtà che abbiamo di fronte: una realtà caratterizzata dall’erosione delle concezioni assolute della sovranità nazionale, e da esigenze di sicurezza e giustizia che vanno oltre le frontiere degli Stati nazionali.

Lo Stato-nazione resta, ed è destinato a restare, l’attore centrale del sistema internazionale. Ma l’esercizio della sua sovranità è inevitabilmente relativizzato. In questa tensione, permanente, si gioca la difficile costruzione di nuove regole e nuove istituzioni multilaterali.

Intesa nelle sue potenzialità migliori, la Corte avrà soprattutto valore se riuscirà a diventare – piuttosto che uno strumento di punizione ex-post - uno strumento di dissuasione, e quindi di prevenzione di nuovi conflitti e di nuovi crimini contro l’umanità.

Obiezioni e riserve sono più che comprensibili. La risposta, tuttavia, non può consistere nel tornare indietro, verso il mondo che ci siamo lasciato alle spalle.

Sta invece nella creazione di istituzioni internazionali che consentano di gestire questa difficile transizione con minori conflitti, maggiore giustizia e maggiore sicurezza. Con una visione rivolta anzitutto verso i diritti essenziali delle persone accanto a quelli dei governi nazionali che dovrebbero, ma questo può anche non accadere, farsene interpreti.

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