Discorso
29 dicembre 2002

L'Ipoteca delle armi

L'opinione di D'Alema


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Ancora una volta, un Natale di sangue proprio laggiù dove il giorno della Natività acquista il suo significato religioso e simbolico. A Betlemme e nel resto dei territori, la mattina di Santo Stefano, sono ritornati i blindati israeliani, intimando il coprifuoco e minacciando i palestinesi usciti tranquillamente per le strade. Il bilancio è freddo e terribile come sempre. Dieci palestinesi uccisi, a Ramallah, a Qabatiya, a Tulkaren. In una strage senza fine e, più passa il tempo, senza senso. Un crescendo di violenza e di repressione che finisce col fornire alimento al terrorismo, producendo altre vittime innocenti come è puntualmente avvenuto ieri con l'uccisione di quattro coloni ebrei. Diventa impossibile non vedere come dal Medio Oriente alla Cecenia il vero rischio è quello di una spirale di guerra e di nuovo terrorismo pericolosamente inarrestabile.

Alla vigilia di questi eventi luttuosi, la mattina di Natale, Giovanni Paolo II aveva chiesto di «spegnere i bagliori di guerra in Medio Oriente». Alle parole del Pontefice si erano aggiunte quelle, altrettanto nette, dell'arcivescovo Williams, il capo della chiesa anglicana, e del primate della chiesta cattolica di Inghilterra. Segnali scontati d'una distanza sempre più evidente tra le gerarchie religiose e il Presidente Bush? In parte sì. Né ci si poteva attendere un messaggio diverso da quanti scorgono, non da oggi, nella dottrina della guerra preventiva un vulnus pericoloso per gli equilibri globali, oltre che la negazione stessa del sofferto concetto di "guerra giusta".
Ma la pausa delle festività non ha riservato solo la recrudescenza del conflitto in Medio Oriente, l'ennesima strage cecena o l'ammonimento autorevole del Papa. Altri segnali, in parte contraddittori, alimentano un clima d'allarme per il possibile precipitare della crisi irachena e le sue probabili ricadute sul rapporto già stremato tra arabi e israeliani; dall’imminente richiamo negli Stati Uniti di decine di migliaia di riservisti, alle preoccupazioni del presidente della Commissione europea per la piega assunta dagli eventi. Ripeto però, sono segnali contraddittori poiché, se da un lato tutto fa supporre che Washington voglia procedere senza ripensamenti alla resa dei conti col rais di Baghdad, le voci perplesse di quanti temono i danni e le conseguenze di tale accelerazione non sembrano confinate nell’ambito delle sole autorità religiose. Dall’America alla Gran Bretagna, passando per il primo ministro francese, Raffarin, si moltiplicano i richiami alla cautela. Cresce il timore di una guerra dallo svolgimento più complesso del previsto e soprattutto dalle ricadute cruente. Non è un caso, dunque, se uno dei possibili sfidanti democratici alla presidenza, il senatore Joseph Lieberman, abbia scelto questi giorni per rivolgere all'inquilino della Casa Bianca, e capo delle forze armate Usa, l'invito a rendere pubblica davanti all'Onu e all'opinione pubblica americana ogni eventuale prova sull'effettivo possesso da parte di Saddam di armi di distruzione di massa. E ancora meno scontata appare la scelta del Daily Telegraph, il più autorevole tra i giornali conservatori inglesi, di attaccare direttamente Bush, denunciando il presunto uso a fini politici interni - la rielezione nel 2004 - della campagna contro l’Iraq. Tutto ciò senza contare il moltiplicarsi delle analisi che scindono piuttosto nettamente il capitolo della lotta al terrorismo internazionale dall’interesse strategico per il controllo politico sulle rotte del petrolio. Al punto che nessuno mostra di stupirsi se la grande stampa, anche qui da noi, svela con pedagogica pazienza come il precipitare del conflitto in questione abbia una quasi esclusiva attinenza, e trovi le sue uniche motivazioni, negli interessi economici e strategici degli Stati Uniti.
Si può dire, allora, che l'appello pacifista del Papa è oggi meno astratto e isolato di altri analoghi momenti? Per molte ragioni è davvero così. Nel senso che si va diffondendo anche in ambienti finora inclini o disponibili alla prova di forza la consapevolezza dei pericoli di un’avventura militare fondata su presupposti e giustificazioni alquanto fragili e tale da aggravare il quadro "clinico" di un’area già attraversata da conflitti e lacerazioni profonde. Naturalmente - ma serve ripeterlo? - ciò non implica la benché minima attenuante nei confronti di un dittatore sanguinario come Saddam. Il punto è che l’offensiva doverosa verso quello ed altri regimi dispotici, totalitari e autocratici, non può coincidere con il bombardamento a tappeto dei rispettivi Paesi.

Resta il fatto che ci stiamo avvicinando al momento della verità e che la tensione si accentuerà inevitabilmente col passare dei giorni. Personalmente, sono tra coloro che non considerano la guerra inevitabile. E credo che le prossime settimane dovranno vedere uno sforzo congiunto della comunità e delle istituzioni internazionali allo scopo di contrastare un esito drammatico della crisi in atto. Naturalmente, non è facile riuscirvi. Come abbiamo visto nei mesi scorsi, molti, moltissimi, sono gli ostacoli da superare, primo fra tutti la scarsissima credibilità e affidabilità del regime di Baghdad. Ma non è solo quello il problema.
Piaccia o meno, al centro della questione - nel senso di protagonista assoluta di questa vicenda - c’è la sola grande potenza che da oltre un decennio sovrintende sulle sorti del mondo globale. Dunque è sugli Stati Uniti in primo luogo che grava il peso delle decisioni. Il che, nella situazione data, non semplifica per nulla il quadro complicato e delicatissimo degli equilibri e delle possibili strategie. Basterebbe la cronaca di questo secondo Natale dopo l’11 settembre a darcene conferma. L'America vive la sua crisi più grave da molti anni a questa parte. Crisi economica e dei consumi. Anche una crisi psicologica in un Paese abituato a dettare legge e che vede insidiata la propria sicurezza interna da un nemico tanto pericoloso quanto, almeno finora, parzialmente inafferrabile. Diciamo pure che gli Stati Uniti debbono combattere la loro guerra su più fronti e contro nemici diversi, seppure legati da un qualche filo. Il terrorismo innanzitutto, la recessione della propria economia, fino al risveglio inquietante dell'arsenale nucleare di Pyongyang. Eppure, nonostante queste minacce, non è sbagliato affermare che mai come adesso gli americani debbono combattere anche contro se stessi. In particolare contro l’idea che alle minacce della globalizzazione - quelle indicate ed altre possibili - si possa dare risposta privilegiando sempre e comunque l’interesse domestico. In una sintesi estrema, direi che l'America deve contrastare il proprio egoismo e riscoprire, in un passaggio così delicato della sua storia, il senso e la grandezza di una Nazione capace di concertare con altri - e con l'Europa in primo luogo - un assetto e un equilibrio del mondo più equi e giusti.

Anche questa è una strada in salita. E però si tratta dell’unica via che può ridurre i rischi di un conflitto esteso ben oltre i confini che oggi l'amministrazione Bush ritiene di poter controllare.
Ma che cosa significa, nello specifico, combattere l’egoismo? E come lo può fare un Paese colpito nelle sue finanze oltre che nel suo orgoglio? Riducendo il discorso all’essenziale, direi semplicemente rispettando due condizioni. La prima è nell'applicare a se stesso, ai propri comportamenti ed azioni, lo stesso criterio di giudizio preteso per altri. Quando l’opinione pubblica europea e internazionale legge e scopre delle torture praticate dalla Cia contro i prigionieri nel campo di detenzione di Guantanamo - la notizia è di ieri - oltre a ledere la sfera dei diritti umani e della persona si indebolisce la forza politica e il prestigio morale degli Stati Uniti. E molte persone - guai a sottovalutare questa dinamica - possono resuscitare su questa base un anti-americanismo dannoso per la causa della pace e per gli interessi stessi della popolazione americana. La seconda condizione è nell’anteporre un interesse generale al primato del mero interesse economico, consapevoli che il nuovo ordine globale non può prescindere da un riequilibrio nella distribuzione delle risorse e dalla capacità della parte ricca del pianeta di sanare le piaghe che stanno consumando l'emisfero povero. Su questo piano, vi sono gesti simbolici e concreti che parlano da soli, e purtroppo non sempre in senso positivo. Qualche giorno fa, dopo una trattativa convulsa all'interno del Wto (l’organizzazione mondiale del commercio), gli Stati Uniti hanno difeso contro ogni ragionevolezza, spirito umanitario e buon senso il monopolio delle sette compagnie farmaceutiche che detengono fino al 2016 la proprietà esclusiva delle terapie anti-Aids. Una scelta grave, priva di giustificazioni e che, con ogni probabilità, causerà la morte di decine di migliaia di uomini, donne e bambini sieropositivi. Il punto, ripeto, è che una grande potenza che voglia concorrere al governo del mondo in una cornice di pace e di collaborazione deve scoprire il valore e il primato di una generosità che, sola, può essere all'origine di un circuito virtuoso. L’Europa su questo piano può e deve esercitare con più coraggio il suo ruolo. Anche perché possiede la cultura, i valori e la civiltà in grado di guidare un processo del genere. Diverso è il discorso sul governo italiano che purtroppo pare aver abdicato, in una fase tanto delicata, a quel ruolo politico attivo in direzione della pace e del dialogo in Medio Oriente che appartiene alla nostra storia comune. Mai era accaduto che da parte della leadership palestinese si levassero voci preoccupate circa l’ambiguità delle posizioni espresse dal governo italiano. E ciò è tanto più grave dal momento che essendo l’Italia un Paese di frontiera verso il Mediterraneo, si guarda a noi con maggiore attenzione e speranza che ad altri.

Oggi, alla vigilia di una gravissima crisi internazionale, l’Italia è di nuovo un Paese marginale la cui voce - duole dirlo - risuona solo come contorno di scelte definite altrove. Ma questa non è e non può essere la funzione di una grande nazione moderna che voglia avere un peso sulla scena mondiale.
Parlare anche di questo, nelle settimane che ci attendono, non è una fuga dalla realtà e dai problemi ma, forse, la via necessaria se vogliamo aiutare gli americani a non commettere quegli errori che potrebbero drammaticamente ritorcersi contro interi popoli, contro l’Europa e, non ultimo, contro loro stessi. Solo così possiamo, nonostante tutto, coltivare la speranza e la volontà di prevenire una nuova guerra e di bloccare la strage infinita di vittime israeliane e palestinesi che da troppi anni insanguina il Medio Oriente.

E’ inutile illudersi; l’anno che sta per aprirsi sarà segnato pesantemente da questa ipoteca. La guerra è sospesa sopra di noi e potrebbe bastare assai poco per assistere alla deflagrazione di un nuovo imprevedibile conflitto. La storia però, come sanno bene i suoi protagonisti, non è scritta una volta per tutte. C'è sempre - anche nelle situazioni più difficili - uno spazio, un sentiero, che la politica può scegliere di precorrere e percorrere. Non confidiamo, dunque, in una soluzione della provvidenza. Dobbiamo sapere che sarà questa per l'Italia, per l'Europa e per l'intera comunità internazionale la sfida decisiva dei prossimi mesi.

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