Discorso
14 gennaio 2003

D'Alema, lettera aperta a Fabio Mussi


(lettera aperta di Fabio Mussi a Massimo D'Alema)

Caro Fabio,

non si dovrebbe mai affidare uno sfogo ad un giornalista, neppure - anzi, tanto più - se c'è un impegno di riservatezza. Dovrei saperlo io, più di altri. Ne faccio ammenda. E aggiungo che hai ragione a considerare alcune mie espressioni segno di scarsa serenità. D'altro canto non è neanche facile rimanere sereni quando, come nel mio caso, si è sottoposti a una campagna di aggressione personale prolungata e velenosa. Un linciaggio che spesso travalica i confini della battaglia politica, per sconfinare nella denigrazione e nella calunnia. Com'è purtroppo costume di una sinistra dove chi non la pensa come te, deve per forza essere un traditore da colpire in primo luogo sotto il profilo della sua moralità. Comunque, è giusto ciò che tu dici. Così non si va da nessuna parte. Anche se mi concederai, fosse solo per puntiglio, il diritto di difendermi dall'accusa (grave) d'aver scaricato in passato su altri responsabilità che erano anche mie.

Ho lasciato Palazzo Chigi dopo una sconfitta elettorale. Non ho chiesto io - come ti è noto - la presidenza del nostro partito. Quanto al dovere di rappresentare i Ds nel proporzionale della Puglia, lasciami credere che non di un'abdicazione si sia trattato quanto della testimonianza di un dissenso che mi ha portato a rischiare di persona. Una sola cosa ti confesso. Ho sempre pensato che almeno chi aveva tutti gli elementi per giudicare i fatti coll'animo sgombro da pregiudizi, poteva distinguersi da quella campagna aggressiva; distinguere il dissenso politico dal rispetto delle persone e delle vicende umane. E lo potesse fare anche nel nome di una lunga militanza comune, di una storia condivisa.

Ma tant'è. Sono vicende del passato e in fondo ciascuno di noi ha qualcosa - qualche parola, qualche aggettivo fuori misura - da farsi perdonare. Col tempo e la buona volontà ci lasceremo anche questo alle spalle. Parliamo invece di politica, come m'inviti a fare, e guardiamo al futuro. Nessuno di noi - vorrei chiarire questo punto una volta per tutte - ha paura dei movimenti e di quella spinta spontanea e generosa verso un impegno individuale che ha contrassegnato, arricchendola, l'azione dell'opposizione nell'ultimo anno.

Di più. Sono tra quanti riconosce a quelle esperienze il merito di aver rinvigorito una sinistra in debito d'ossigeno dopo la sconfitta elettorale e l'inevitabile contraccolpo. Bene ha fatto quindi Fassino a dimostrare apertura e coraggio. Non si è rinchiuso in casa propria, ma si è spinto sul nuovo terreno, ricercando dialogo e collaborazione. Con una disposizione d'animo - gliene va dato atto - a cogliere tutto il meglio di quella spinta originale. Nessuno ha frenato o condizionato Piero in questo sforzo di ricomposizione unitaria del partito e della coalizione. E i risultati - positivi - si sono visti, a partire dal successo alle elezioni amministrative.

Oggi, però, abbiamo di fronte un problema diverso. Siamo alle prese, molto più di un anno fa, con il fallimento clamoroso del governo e con una crisi preoccupante del paese. E questo senza contare il rumore delle armi in sottofondo e le incertezze crescenti di un'opinione pubblica come smarrita di fronte a tanta confusione. In una condizione del genere il problema che abbiamo davanti è abbastanza semplice; dobbiamo offrire un'alternativa credibile a questo quadro d'insieme. Vale a dire ricomporre una proposta di governo che sappia parlare al paese e che rifletta il pluralismo oggi presente nell'Ulivo e nella sinistra italiana.

Tutto qui, anche se naturalmente non è poco.
Ora, proprio la complessità dell'obiettivo mi convince che il problema non si risolve attraverso l'investitura plebiscitaria di qualche nuovo capo. In primo luogo perché la sinistra non è una terra di nessuno, un esercito in rotta in attesa di guida. La storia della sinistra - per come sia tu che io la conosciamo - è stata molto spesso scontro di idee, propositi, strategie, ma sempre nella cornice di una dialettica regolata. Dove la leadership è figlia del consenso, ma anche frutto di un processo che ne registra e ratifica la natura e la quantità. Se poi una personalità - ed è questo il caso di Cofferati - leader lo è già, per ciò che è stato e per quanto ha fatto, allora egli ha il dovere di misurarsi con gli altri nelle sedi di elaborazione e decisione comune, altrimenti diventa molto più difficile per tutti sviluppare con efficacia una battaglia comune.

Capisci quanto me che non si tratta di un ultimatum, ma della condizione essenziale perché l'opposizione abbia un profilo credibile e non si faccia del male da sola. Prendiamo ad esempio, ancora una volta, la polemica più recente sulle riforme istituzionali. Berlusconi, piaccia o meno, sull'argomento ha assunto un'iniziativa, parlando di dialogo con l'opposizione. Personalmente, considero quell'apertura del tutto strumentale, ma ciò non esclude - casomai rafforza - il bisogno di attrezzare una risposta efficace. E qui è legittimo pensarla in modo diverso. Si può concordare col gruppo dirigente dell'Ulivo che ha ritenuto - a mio avviso, giustamente - di dover sfidare la destra sui contenuti indicando una nostra idea di riforma, alternativa al presidenzialismo. Oppure dar ragione a Cofferati che ha detto semplicemente di "no" al dialogo. Ripeto, posizione rispettabile anch'essa, ma secondo me sbagliata. Dunque, si può fare una cosa o l'altra. Quel che non regge è la convivenza confusa di messaggi contraddittori dal momento che ciò produce solo confusione e finisce coll'avvantaggiare Berlusconi.

Non vorrei rimanessero equivoci tra noi. Non intendo tacitare nessuno, tanto meno un uomo con la storia e l'impronta di Sergio. Dico un'altra cosa. Che non si può dirigere un partito o una coalizione se ogni tua decisione è esposta, in modo pressoché sistematico e da parte di forze che appartengono al tuo stesso campo, all'accusa d'essere non solo un errore, ma un pericoloso regalo al nemico, alimentando così il sospetto politico e persino morale. Questo clima è terribilmente dannoso e crea confusione, che lo si voglia o meno. Perché delegittima, giorno dopo giorno, l'azione di un gruppo dirigente. E soprattutto perché consente a Berlusconi, ogni volta che gli serve, di nascondere le sue giravolte logiche dietro la presunta inaffidabilità dell'interlocutore ("io vorrei dialogare, ma da quella parte non è chiaro chi comanda e non trovo interlocutori affidabili").
La mia opinione è che in questo modo un governo in evidente difficoltà guadagna dei punti e rovescia su di noi dei problemi che sono innanzitutto suoi. Facciamo attenzione allora, perché neppure così si va da qualche parte. Ed è esattamente questa la ragione dell'allarme lanciato da Fassino nei giorni scorsi. Un segnale tutto teso a invocare, al pari di altri, "maggiore unità". Ma più unità nei fatti, non solo negli intenti.

Questo è il senso dei ripetuti appelli a Cofferati per un impegno - nelle forme che egli vorrà - a fianco di chi oggi dirige la coalizione e la sinistra. E' la sola via perché la sua credibilità e il prestigio acquisiti contribuiscano da subito a rendere più forte l'opposizione. Guardare a questa richiesta di coinvolgimento e di assunzione di responsabilità come al tentativo di "cooptarne" le mosse e la libertà d'azione è invece una reazione infantile.

Tanto più che nessuno vuole spegnere la voce di un leader "troppo" popolare. Ma all'opposto gli si chiede di unire le energie e di non considerarsi un corpo estraneo a quel faticoso lavoro di recupero dei consensi che dovrebbe accomunarci tutti. Per questo ho detto che c’è bisogno di un federatore non di un conquistatore. L’espressione è forte? Volevo e vorrei dire che dovrebbe apparire chiaro a tutti che il pluralismo effettivo del gruppo dirigente dell'Ulivo e della sinistra rappresenta una ricchezza, non un impedimento. E la reductio ad unum della leadership mal si combina, nello specifico, con la ricchezza della nostra dialettica interna, e in generale con la necessità, in un sistema bipolare, di conquistare il consenso di un arco ampio di orientamenti e sensibilità diverse.

Abbiamo ciascuno bisogno degli altri, ecco la verità. E prima lo accettiamo, meglio sarà per il nostro partito e per l'avvenire del centrosinistra. Fassino, dunque, ha sollevato un delicato nodo politico. Non ha sventolato un regolamento. E non vorrei davvero che una questione tanto rilevante finisse coll'essere vissuta come l'atto burocratico di un vertice nervoso. Sarebbe una caricatura della discussione tra noi. Detto ciò, come si fa a risolvere il problema? Non è facile. Anche perché non serve battere i pugni o ingrossare la voce. Forse - come ha suggerito ieri Bassolino - conviene muovere dalla realtà e da uno scenario che oggi è molto diverso da quello di Pesaro. Personalmente, non ho ricette né mi permetto di consigliare soluzioni operative, ma vedo anch'io - a scapito di chi ci vorrebbe irrimediabilmente divisi - le condizioni per lavorare insieme. Nel senso di una comune assunzione di responsabilità nel partito e nell'Ulivo. Senza inutili scorciatoie, ma con la coscienza di essere tutti imbarcati sulla stessa nave che si muove lungo una rotta tracciata. Quando ho parlato di "tirare insieme la carretta", a questo pensavo. A una volontà comune di non fare altri regali ai nostri avversari. Alla possibilità, se ne siamo capaci e il vento ci aiuta, d'accelerare l'andatura. Allo sforzo condiviso di rispettarci di più. Per quello che siamo e per la storia che ciascuno si porta appresso.

Certo, se invece qualcuno pensa - ma pensa davvero - che la rotta intrapresa da Pesaro in avanti è radicalmente sbagliata, è bene che lo dica. Ne discuteremo, come sempre abbiamo fatto, e quando sarà il momento, rispettando le regole democratiche di un organismo collettivo, verificheremo da che parte andare. Ma se non vogliamo condannarci alla paralisi, l'importante - prima, durante e dopo quel momento - sarebbe di muoversi tutti, proprio tutti, nella stessa direzione.

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