Discorso
14 gennaio 2003

Lettera aperta a Massimo D'Alema di Fabio Mussi


( D'Alema, lettera aperta a Fabio Mussi )


Caro Massimo,

leggo su un quotidiano il resoconto di una tua conversazione con un giornalista, dopo l’assemblea di Firenze con Cofferati. Non trovo giudizi sereni, né meditati. Sento il bisogno di affidare all’Unità questa lettera aperta. Tu dici: «C’è bisogno di un federatore, non di un Gengis Khan...». Altri hanno contemporaneamente parlato di Mao e di Pol Pot. Vedo che si sprecano le metafore orientali, per Cofferati. Tu dici: «I veri perdenti stavano in prima fila proprio al Palasport: sono i Folena e i Mussi, candidato a Milano, che hanno perso le elezioni mentre io facevo una durissima campagna elettorale e vincevo a Gallipoli». Vedi, se volessi restare sul livello, potrei replicarti che a Milano e in Lombardia le elezioni sono andate parecchio meglio che in Puglia, dove tu hai abdicato al dovere di rappresentare i Ds nel proporzionale. Oppure che non eravamo né io né Folena nel ticket di testa della coalizione. O portarti i dati sulla esposizione televisiva e mediatica dei nostri maggiori esponenti.

Oppure anche ricordarti che, quando uno durante una legislatura è stato segretario e presidente del maggior partito, Presidente della Bicamerale, Presidente del Consiglio, dev’essere il primo che si assume le responsabilità, e non le scarica su altri.

Ma così non si va da nessuna parte. La verità è che abbiamo perso tutti. E che a quelle elezioni politiche così importanti siamo arrivati con una crisi dell’Ulivo e della sinistra. E nostra, dei Ds e del suo gruppo dirigente: con il segretario Veltroni candidato sindaco di Roma (per Roma, va detto, è stato un guadagno secco) e tu a fare il solitario a Gallipoli. Siamo stati noi per primi che abbiamo mandato il messaggio: la partita è persa, si salvi chi può. E sarebbe poco male, in fondo - in democrazia si vince, si perde -, se dall’altra parte non ci fosse stata questa destra e Silvio Berlusconi. Un’umiliazione per noi, un danno grave per il Paese.

Così è arrivato il 13 Maggio 2001. Ti ricordi Dante? «Quando si parte il gioco de la zara/colui che perde si riman dolente/ripetendo le volte, e tristo impara».

Quando si è chiuso il gioco elettorale, quando i dadi si sono fermati, io (e altri) siamo restati dolenti, a «ripetere le volte», le gettate, per capire che cosa fosse successo. Prima di tutto contando. Abbiamo contato i voti. Alla sinistra, dai Ds a Rifondazione, ne mancavano più di due milioni. Molti finiti nell'astensione: quanta gente avevamo deluso! E tuttavia Ulivo, Italia dei valori e Rifondazione insieme ne avevano più che a sufficienza per vincere. Ma eravamo divisi, e avevamo rovinosamente perso.

Tu, caro Massimo, hai subito cercato i colpevoli. E sei restato poco a contare. Hai perciò immaginato, come causa, un «deficit di riformismo». Non è mai stato chiaro che cosa volesse dire. Forse che avremmo dovuto osare di più in materia di «welfare» e di mercato del lavoro, estendendo privatizzazioni e flessibilità. Io (e altri) abbiamo rivolto il pensiero in un’altra direzione. La crisi del liberismo economico, la produzione di un mondo retto dal principio di disuguaglianza e dalla logica di guerra, ci spinge a riconsiderare molte delle nostra idee, e a rimettere al centro il lavoro, i diritti, la pace, la democrazia partecipata. Così come l’inaridimento della vita dei partiti, compreso il nostro, ci spinge, come Anteo che perdeva forza sollevando i piedi da terra, a ritrovare energia nel contatto con la società.

Quando abbiamo tenuto il Congresso di Pesaro (con nel cuore la fresca angoscia per il dramma delle Towers), l’opposizione parlamentare era con le ruote sgonfie e la società ferma. Intorno a noi, il deserto. Anzi, c’era stata Genova: la destra aveva dato la prima prova di che pasta è fatta, quando governa, e noi avevamo già compiuto il primo errore grave. Guarda che cosa è successo poi! L’opposizione ha ritrovato anima, e c’è stato un buon risultato alle amministrative ultime. Ma soprattutto, c’è stato uno straordinario risveglio dei cittadini. Movimenti che hanno coinvolto milioni di persone, non gruppetti e minoranze estremistiche. Con la Cgil, che ha ridato un fondamento alle idee, né massimaliste né conservatrici, del valore sociale del lavoro e dei diritti universalistici; con il Social Forum, che nelle notevolissime giornate di Firenze ha mostrato forse di non avere tutte le giuste risposte, ma - il giudizio, acuto, è di Adriano Sofri - «l’agenda giusta»; con i «girotondi», che hanno restituito voce ad un civismo repubblicano orientato alla democrazia e alla libertà.

«Non bastano», hai ripetuto più volte. D’accordo. Troppi «monaci neri», che inveiscono impotenti contro il nemico? No, qui non siamo più d’accordo. Politica che reclama politica, piuttosto. Energia buona. Che può far girare il motore del centrosinistra, dell’Ulivo e della sinistra, compresa la nostra. Che i partiti nascano e si rinnovino dai movimenti, lo sanno gli storici, e non dovremmo dimenticarlo noi. Che molte di quelle persone si sentano rappresentate, oggi, da Sergio Cofferati, è un fatto. Non trovo intelligentissimo che si sventolino regolamenti gridando «vade retro».

Non c’è nessuna regola aurea violata. C’è, in corso, un processo importante nel quale stare con animo lieve e sguardo lungimirante, con la fiducia nella possibilità di un autentico rinnovamento politico. E quell’uomo è importante.

Mi pare che l’obiettivo sia quello di far crescere un processo unitario largo per preparare, in Italia, un'alternativa vera, non di esercitarci nell’interminabile calcolo combinatorio sulle leadership. Per questo ero a Firenze, «in prima fila», come mi rimproveri, e anche sul palco a parlare. Bisogna rimetterci in discussione. Tutti, Anche tu. Mi piacerebbe vederti ritrovare serenità e semplicità, doti che sarebbero preziose associate alle qualità politiche che tutti ti riconoscono. Ci sono carrette da tirare, come tu dici, e strada da fare.

stampa