Discorso
20 gennaio 2003

Per una globalizzazione più giusta, governance, sostenibilità, giustizia sociale.

Consiglio dell'Internazionale Socialista, Roma 20-21 gennaio 2003.


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Carissime compagne e compagni,
questa riunione dell’Internazionale Socialista - che si colloca simbolicamente tra il vertice dell’economia mondiale globale a Davos e il Forum sociale di Porto Alegre - cerca di riguadagnare un ruolo all’iniziativa politica e al movimento socialista di fronte alle sfide della globalizzazione.

La globalizzazione è stata a lungo celebrata come la fine della politica, la fine delle storia e delle ideologie, nella convinzione che l’economia e il mercato ci avrebbero dato il migliore dei mondi possibili. Come è stato detto, alla politica non restava che eseguire i compiti assegnati ad essa dall’economia.

L’11 settembre del 2001 ha svegliato l’opinione pubblica dei nostri paesi da questo sonno ipnotico. Ha mostrato - come disse allora Bill Clinton - “il volto oscuro della globalizzazione”; ha fatto capire a tutti che una globalizzazione senza politica produce non solo progresso e opportunità, ma anche conflitti e tragedie terribili. Per la verità, milioni e milioni di persone dei paesi più poveri lo sapevano già. Avevano già misurato le ingiustizie e le povertà che la globalizzazione porta con sé. Oggi siamo tutti immersi in una grande incertezza sul futuro. L’ottimismo è caduto. Si diffonde la paura nei confronti del terrorismo e della guerra. Le prospettive per l’economia appaiono assai più incerte di quanto si poteva sperare. Siamo di fronte ad una crisi, dunque, della cosiddetta “globalizzazione neoliberale”. Una crisi aperta a speranze e preoccupazioni. Non è detto che da questa crisi si esca con un salto di qualità in avanti. Noi assistiamo, infatti, al ritorno di posizioni nazionalistiche, a chiusure fondamentaliste, al riemergere - come ha giustamente detto Antonio Guterres - di culture antimoderne e irrazionalistiche. C’è il pericolo concreto che il vuoto di politica, di istituzioni, di governance, sia riempito soltanto dal potere militare della superpotenza americana.

L’esito di tutto questo dipende anche da noi, ma certo, se io penso agli anni del dibatto tra il socialismo europeo e i democratici americani intorno alla global governance, pur considerando quel dibattito purtroppo limitato e povero di risultati concreti, tuttavia penso che oggi siamo di fronte all’unilateralismo della grande potenza americana e alla difficoltà dell’Europa ad imbrigliare le crisi sui binari della legalità internazionale. C’è un “paradosso socialista” intorno alla globalizzazione: per oltre un secolo abbiamo predicato un mondo senza frontiere, e anche per questo ci siamo chiamati “Internazionale”, ma quando poi il capitalismo e la finanza mondiale hanno abbattuto le frontiere e creato un mondo nuovo siamo apparsi spaventati e impotenti. Indeboliti perché privati di quegli strumenti politici come lo stato nazionale attraverso il quale abbiamo difeso la democrazia e affermato i diritti umani e sociali. Allora occorre un salto di qualità; occorre la capacità di fare funzionare noi stessi, questa Internazionale, come il nucleo più importante di una dimensione globale della politica. Un salto di qualità sulla base del lavoro prezioso svolto dal Segretariato e dal Presidente, un salto di qualità che dia una risposta a quelle tante forze che in ogni parte del mondo si volgono a noi proprio perché hanno bisogno di politica e cioè di chi sappia tradurre grandi speranze - la pace, la giustizia - in lotte, istituzioni, conquiste, processi reali.

Il rafforzamento e la riforma delle Nazioni Unite, l’unità politica dell’Europa, la crescita in ogni parte del mondo - dall’Africa all’ America latina - di nuovi processi di integrazione regionale debbono essere obiettivi dei socialisti; di chi sa che senza istituzioni e regole non sarà possibile governare i processi globali.

Ma dobbiamo passare dalle analisi e dalle indicazioni di fondo alla individuazione di obiettivi concreti per grandi battaglie e questo significa sapere entrare nelle contraddizioni, sapersi sporcare le mani, saper scegliere.
Voglio fare due esempi: giustizia e pace.

Ho compiuto recentemente un viaggio in America latina; un continente sospeso tra la disperazione e la speranza rappresentata dalla vittoria di Lula e la possibilità di una nuova prospettiva. L’America latina fa parte dei continenti sconfitti dalla globalizzazione e considera le sue possibilità di progresso in relazione ai rapporti che saprà stabilire con i paesi più ricchi. Europa e Stati Uniti, nel rapporto con l’America latina, pretendono che i loro prodotti possano liberamente circolare in quella parte del mondo, ma non consentono che le produzioni agricole dell’America latina vengano a competere qui, nei nostri mercati. Non è una scelta facile combattere il protezionismo dei paesi ricchi: è una scelta che pone problemi anche alle forze socialiste, anche a una parte degli elettori che noi rappresentiamo. Ma un movimento socialista che vuole giustizia deve prendere in mano questa bandiera, combattere il protezionismo dei paesi ricchi, offrire una possibilità di sviluppo a chi chiede - vedete il paradosso - più libertà di commercio, ma una libertà di commercio a favore di tutti e non solo dei paesi più forti.

C’è un secondo esempio, clamoroso, sul quale anch’io voglio dire la mia: la pace. Non nascondiamoci dietro un dito. Vi sono oramai a confronto, sulla scena internazionale, due modi diversi di concepire la lotta al terrorismo. Da parte dell’amministrazione americana, sempre più chiaramente, viene affermandosi una concezione secondo cui la lotta al terrorismo coincide esclusivamente con l’uso della forza, con la costruzione di un ordine basato sulla potenza americana e sulla possibilità arbitraria di usarla anche in modo preventivo.

Io non sono antiamericano e noi abbiamo collaborato con gli Stati Uniti anche per affrontare crisi difficili e scelte drammatiche, come nei Balcani. Ma oggi vedo in questa politica un pericolo. Un pericolo per l’ordine mondiale. Anche per questo credo che noi dobbiamo chiedere alle Nazioni Unite non soltanto di gestire la crisi irachena ma di indirizzarla verso una soluzione pacifica, che è l’unica compatibile con le esigenze di stabilità e di pace in quella parte del mondo.

Ecco, sono due temi concreti, difficili, sui quali il nostro movimento è chiamato a scelte chiare.
Un grande movimento politico parla all’opinione pubblica, si fa riconoscere, si fa amare, se decide e se combatte. Se passa dall’analisi generale, dall’indicazione di obiettivi di fondo, a battaglie e mobilitazioni concrete. Di questo ha bisogno il mondo globale. Questo chiedono in tanti all’Internazionale Socialista.

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