Discorso
22 gennaio 2003

Conferenza internazionale per la pace

Il Messaggero - L’Opinione di Massimo D’Alema


Ieri mattina, a conclusione del consiglio generale dell’Internazionale Socialista, ho avanzato anche a nome dei partiti ospitanti una proposta che la platea dei delegati ha accolto all’unanimità. La convocazione, nei prossimi mesi, di una Conferenza internazionale sulla democrazia e i diritti umani in Iraq. Mi è sembrato, dopo una discussione intensa e largamente unitaria, il modo più giusto di affrontare la questione che molti, da ultimo Adriano Sofri segnalano alla coscienza di quanti si dichiarano oggi, e con piena ragione, contrari ad una guerra sbagliata.
“D'accordo, il bombardamento dell'Iraq non sarà la soluzione giusta, ma come pensate di risolvere — questa al sodo la questione che viene posta — il problema di Saddam e di una dittatura decennale, odiosa, brutale?".
La risposta è, “nell'unico modo possibile. Isolando politicamente quel regime e creando le condizioni di una transizione non cruenta in una delle aree più delicate e strategiche per gli equilibri mondiali". So bene che non è un obiettivo semplice. E però non c'è altra via da seguire, dal momento che la democrazia non si esporta con gli eserciti e le bombe. Per molte, infinite, ragioni. Alle quali, nel caso specifico, si somma la possibilità che la volontà dichiarata di pacificare una regione si risolva, all'inverso, nell'escalation militare più drammatica degli ultimi anni.
Si è chiusa così, sull'onda di una decisione condivisa e col voto sulla risoluzione finale la due giorni socialista nel monumentale Complesso di Santo Spirito a Roma. Dell'Internazionale Socialista si parla solitamente poco. E' argomento che non fa presa, forse perché la si considera l'eredità di un passato, per quanto glorioso. Casomai se ne è criticata, in anni recenti, la presunta assenza. In particolare la difficoltà del movimento socialista ad interpretare lo scuotimento delle vecchie certezze che la globalizzazione imponeva. E' sembrato, in alcuni momenti, che la cultura riformista, intimidita dalle troppe novità, preferisse ritrarsi nel proprio campo delegando ad altri il contrasto dell'ideologia prevalente, quella di un primato indiscusso dell'economia e del mercato globali. In verità, le cose hanno avuto un corso più complesso. Diciamo che la sinistra ha compiuto nell'ultimo decennio la sua traversata del deserto. E che partecipa oggi, in molti Paesi da una posizione di governo, alle sfide di un mondo che non appare pacificato né libero da squilibri e ingiustizie insopportabili.
Di questo e altro si è discusso a Roma. Naturalmente, con l'occhio rivolto al pericolo della guerra imminente e senza sottovalutare le ricadute di una soluzione unilaterale per la crisi irachena. La risoluzione votata non lascia spazio ad equivoci. Esprime una posizione chiara che potrà rafforzare con argomenti efficaci il fronte degli oppositori alla dottrina americana sulla guerra preventiva. Vi si sostiene che dev'essere l'Onu, a conclusione dell'ispezione in corso, a valutare l'effettiva pericolosità di Saddam per la sicurezza mondiale. E che spetta sempre all'Onu assumere ogni deliberazione conseguente, sottraendo alla Casa Bianca — la questione, ovviamente, non è di pura forma — il potere di stabilire la data d'inizio di un conflitto che avrebbe conseguenze drammatiche sui già precari equilibri del Medio Oriente. Quel che non convince insomma — prima di tutto per l'illogico teorema che la sostiene — è una guerra combattuta sul campo, una prova di forza degli Stati Uniti che larga parte della stessa opinione pubblica di quel Paese mostra, allo stato, di non comprendere e non condividere. Ma soprattutto una guerra dai costi potenzialmente enormi, in particolare sotto il profilo degli obiettivi che ci si propone di raggiungere, a partire dalla saldatura, in chiave anti occidentale, delle spinte fondamentaliste presenti in una parte dei Paesi e delle comunità islamiche. Con la decisione di ieri, insomma, le forze del socialismo europeo e internazionale hanno ratificato una linea di saggezza. Hanno ripetuto il no più convinto a un'avventura bellica che non appare oggi giustificata da alcuna ragionevole motivazione e rilanciato la necessità di un'azione politica dell'Europa allo scopo di prevenire uno sbocco militare della crisi. Il tutto nella consapevolezza che solo una ripresa contestuale dell'iniziativa politico-diplomatica per una pace giusta tra israeliani e palestinesi potrà contrastare con efficacia l'assurda strategia di Sharon, combattere risolutamente il terrorismo palestinese e riaprire lo strettissimo sentiero del dialogo, ponendo fine a una spirale di inaudite violenze reciproche.
Ma l'importanza del vertice di Roma non è solo in questo.
L'Internazionale Socialista rappresenta oggi il solo forum mondiale della sinistra riformista e di governo. Non è un dato irrilevante. Anche perché, nonostante le difficoltà e i limiti accennati, si tratta di una realtà che ha dimostrato di possedere una propria capacità espansiva. Se come sembra, il prossimo congresso dell'organizzazione si svolgerà a San Paolo, dove verrà sancito l'ingresso tra i membri dell'Internazionale del Pt di Lula, sarà difficile liquidare la novità o sottovalutarne le ricadute. La verità è che di fronte ai rischi e alle opportunità della globalizzazione la sinistra si presenta con una propria armatura, con un organismo di discussione e di decisione fondamentale per la ricerca di soluzioni e strategie condivise su ciascuno dei problemi che riempiono l'agenda della politica mondiale.
Per molte ragioni, il grande pensiero conservatore o liberista non è oggi in condizione di produrre qualcosa di analogo e sempre più spesso è costretto a delegare ad altri — l'impresa, l'economia, la forza militare — il compito di dominare gli "spiriti animali" del mercato.
Quella che si è aperta quindi, non da oggi, è una nuova pagina della competizione per la democrazia, per l'espansione delle libertà, per l'affermazione della giustizia sociale. Si potrebbe dire, in una sintesi estrema, un'altra stagione del socialismo su scala globale. Ovviamente, l'errore da evitare è considerare quello davanti a noi un percorso in discesa. La vittoria di Lula, da questo punto di vista, è il segno di una speranza che si apre, ma sbaglieremmo a considerare quel successo come l'avvio di un ciclo che non conoscerà contraddizioni o arretramenti. Anche perché — ed è questo infine l'aspetto che conta — non è detto che la via d'uscita dalle contraddizioni di un mondo privato delle vecchie frontiere sia per forza in un allargarsi dello stato di diritto e dei valori della democrazia liberale. Premono sull'Occidente e in altre parti del mondo spinte di segno diverso. Nuovi fondamentalismi e radicalismi che attingono agli immensi depositi dell'ingiustizia sociale e della discriminazione politica, religiosa o sessuale, per alimentare un crescendo di violenza e di odio dalle conseguenze drammatiche.
Ecco perché, soprattutto oggi, la democrazia globale ha bisogno di regole e istituzioni solide, ma anche di nuovi soggetti politici sovranazionali capaci di compensare con nuove forme di integrazione e di collaborazione il vuoto lasciato dalla crisi dei vecchi Stati nazionali. In gioco sono gli assetti del mondo futuro e i valori che la sinistra ha coltivato nel corso dei due secoli passati. Sarà una sfida lunga, complessa, e della quale forse non toccherà neppure a noi registrare l'esito. Ma è da questa via comunque che bisogna passare.

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