Discorso
6 febbraio 2003

<I>Camera dei Deputati.</I><br>Informativa del Presidente del Consiglio sulla crisi irachena.

Intervento di Massimo D’Alema


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Signor Presidente della Camera, colleghi deputati, signor Presidente del Consiglio, mi rivolgo a lei per dire che, sinceramente, le ragioni di seria preoccupazione che avevamo per la situazione internazionale risultano rafforzate dal suo intervento. Non solo per il modo inutilmente provocatorio e contraddittorio con il fine proclamato, quello di ottenere solidarietà, con cui ella si è rivolto all’opposizione, ma per il fatto che il suo discorso ha cercato di nascondere la verità su questa drammatica crisi. La verità sulle divisioni che percorrono l’Europa e la comunità internazionale e sui rischi non solo di guerra, ma anche di frattura e arretramento nel processo di unità europea e di costruzione di un nuovo ordine internazionale. La verità sulle visioni diverse che oggi si confrontano, tra le quali l’Italia deve saper scegliere e collocarsi per esercitare il suo peso. La verità sulla scelta che l’Italia ha già fatto e di cui siamo stati via via informati dal portavoce del dipartimento di stato, da funzionari dell’ambasciata israeliana, da fonti quanto mai improprie per essere informati di un mutamento della collocazione internazionale del nostro Paese e della politica estera italiana.
Io mi permetto di dirle cosa dovrebbe fare l’Italia perché possa esservi una solidarietà dell’opposizione. La linea da seguire è quella che emerge dal dibattito del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, dalle posizioni espresse dalla grande maggioranza dei rappresentanti delle nazioni in quel contesto. Dopo l’intervento del segretario Colin Powell e a partire anche dalla preoccupante denuncia che egli ha fatto (che sicuramente ha aggravato le nostre preoccupazioni anche se, come ha detto oggi il capo degli ispettori ONU Hans Blix, le prove portate da Powell non appaiono inoppugnabili e noi non sosterremo che l’Iraq abbia con certezza armi di distruzione di massa, anche se non possiamo escluderlo), molti hanno chiesto all’Iraq di cooperare seriamente, all’ONU di rafforzare il regime delle ispezioni (cito dalla posizione del governo francese), di prolungare il tempo degli ispettori per arrivare alla distruzione delle armi attraverso una soluzione che scongiuri la guerra.
Dunque nessuna concessione a Saddam Hussein, ma un percorso che consideri, in pari tempo, l’obiettivo della distruzione delle armi pericolose (se verranno trovate) come compatibile con quello di scongiurare una guerra. In questo senso penso sia sbagliato dire che vi sono alcune ore, alcuni giorni, addirittura alcuni minuti: queste scadenze sono state fissate sulla base di altre esigenze. E’ evidente che il governo degli Stati Uniti – che ha ammassato un enorme esercito ai confini con l’Iraq e che è consapevole che un’offensiva militare non potrà essere scatenata se non entro una certa data per ragioni climatiche o strategiche – ha molta fretta. Non credo però che questa logica possa essere quella di una comunità internazionale che può – se è possibile evitare la guerra e disinnescare il pericolo Saddam – prendersi ancora una settimana o dieci giorni per ricercare una soluzione pacifica.
Questo è ciò che avrei voluto sentire da lei perché corrisponde alla vocazione dell’Italia. Alla vocazione di un grande paese che, per i sentimenti della stragrande maggioranza del popolo, per il peso che ha il mondo cattolico, per l’orientamento di tanti cittadini che si riconoscono nelle posizioni della sinistra, come in quelle di altri partiti, ha sempre giocato un ruolo di pace. Un grande paese che non ha una vocazione bellicosa e che non è mai stato in prima fila nella ricerca di una soluzione di forza alle crisi internazionali. Un grande paese che è stato ed è amico degli israeliani, dei palestinesi e degli arabi e che oggi non sa più levare la voce.
Le leggo alcuni comunicati stampa di oggi della Reuters: a Gaza due infermieri sono stati uccisi perché sono usciti dal loro ospedale per vedere cosa stesse succedendo; in mattinata un’anziana donna era deceduta perché hanno fatto saltare in aria la sua casa dove abitava con il figlio ucciso due anni prima in combattimento: non si erano accorti che c’era; in un’altra città palestinese è stato ucciso un ragazzo di 11 anni che stava tirando alcune pietre. Quando leggo queste notizie non provo soltanto angoscia per queste vittime civili e per queste forme barbare di repressione, ma anche perché so che a questi delitti ne seguiranno altri che non di meno mi inorridiscono, come quelli dei kamikaze che si getteranno nei mercati o sugli autobus, e perché vedo che noi ormai siamo tra quelli che, in nome della lotta al terrorismo, giustificano ogni forma di repressione, non comprendendo che questa repressione alimenta e non sconfigge il terrorismo.
Signor Presidente del Consiglio, lei ha parlato di Kossovo. Sì, nel Kossovo, alla fine, convenimmo che era inevitabile usare la forza: era in corso un’aggressione contro un popolo, centinaia di migliaia di persone fuggivano dalle loro case incalzate da un esercito. Era necessario agire per porre fine ad una guerra che da dieci anni insanguinava i Balcani. Fu merito degli Stati Uniti, in quell’occasione, spingere l’Europa ad agire. C’era, però, un progetto politico, un’idea di quello che doveva accadere dopo: non andammo per rovesciare Milosevic ma per difendere i diritti dei cittadini del Kossovo. A partire da quell’intervento si è costruita una pace, una convivenza etnica, si è avviato un processo democratico.
Oggi qual è il progetto politico? L’occupazione militare dell’Iraq? Quali saranno le conseguenze di questa guerra? Si può ragionare di un conflitto di questa portata senza discutere di cosa esso potrebbe significare per il mondo, per il Mediterraneo, per la sicurezza del nostro Paese? Rubo le parole del ministro degli esteri egiziano, riportate sul quotidiano Le Monde: “una guerra avrebbe ripercussioni catastrofiche per gli iracheni, per gli occupanti, per l’economia e la stabilità della regione e per quella che noi chiamiamo lotta al terrorismo: non ci sarebbe nessun vincitore”. Non parla un estremista, parla il ministro degli esteri di un grande paese del quale siamo amici. Dobbiamo essere sordi di fronte a queste preoccupazioni? Quali saranno le conseguenze, oltre a quelle inevitabili sul piano umanitario, di un massacro di una popolazione già stremata da 11 anni di embargo? Quale mondo? Questo è il punto.
Un grande paese non può agire senza una visione di questi problemi e le parla non un pacifista, ma un uomo che ama la pace ma sa che l’uso della forza può essere a volte inevitabile. Tuttavia, al comando vi deve essere la politica, altrimenti rischiamo davvero una frattura drammatica ed uno scontro di civiltà e l’occidente si illuderebbe di regolare il mondo con la forza.
Il terrorismo è una guerra senza bandiere e senza territorio. E’ un pericolo enorme e la sua forza è nell’odio e nel fondamentalismo. Se noi alimentiamo l’odio e il fondamentalismo non solo avremo un mondo più ingiusto, ma anche meno sicuro. Noi siamo amici dell’America, ma dovere degli amici è dire: state sbagliando!
Dovere dell’Europa sarebbe oggi gettare sul piatto della bilancia di questa crisi la sua unità e la sua saggezza. Lei ha lavorato per minare l’unità dell’Europa e, certamente, non ne ha mostrato il volto più saggio. Per questo motivo, signor Presidente del Consiglio, non siamo solidali con lei.

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