Discorso
18 febbraio 2003

Senza l’ONU niente aiuti all'America

da "Il Messaggero"


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La politica, si sa, è fatta anche di numeri. E i numeri di sabato scorso — quelle decine di milioni di persone che hanno sfilato nelle città di oltre sessanta Paesi — rimarranno a lungo nella memoria di chi c'era e di chi non c'era.
Lo ha compreso bene il presidente della Camera, Pier Ferdinando Casini, che ha parlato con saggezza della necessità di ascoltare quella massa enorme di persone. Non lo hanno compreso, purtroppo, quanti, posti di fronte a un movimento di tali dimensioni, si sono rituffati nella polemica stantia sul pacifismo a senso unico, liquidando le piazze e i giovani che le riempivano con una scrollata di spalle.
Sappiamo tutti, e da tempo, che la radicalità di un corteo non contiene necessariamente delle soluzioni diplomatiche per il problema della pace e della guerra. I movimenti sono espressione di passioni e sentimenti diffusi ai quali la politica deve attingere offrendo, se ne è capace, delle risposte convincenti.
Vediamo allora — anche alla luce della giornata di sabato — quali sono, nel passaggio stretto che ci attende, le responsabilità della politica. Insomma, nelle condizioni date, cosa dovrebbe fare una classe dirigente all'altezza. La domanda non è affatto strumentale. Anzi, può aiutare a capire se esistono in Parlamento le premesse per una convergenza che vada oltre la contrapposizione tra maggioranza e opposizione. Ipotesi che, per quanto mi riguarda, ho sempre considerato auspicabile quando in gioco vi sono delicate questioni di politica internazionale. Il punto è che uno scenario del genere richiede una svolta radicale della politica realizzata sin qui dal governo italiano.
Mi sia concessa sull'argomento una digressione statistica. Sono rimasto colpito dalla lettura di un sondaggio sugli italiani e la guerra condotto da Renato Mannheimer e pubblicato sul Corriere della Sera di ieri. Una maggioranza del campione avrebbe dichiarato di sentirsi più rappresentata dalle posizioni di Francia e Germania rispetto a quelle del nostro Paese. Dubito vi siano nel passato precedenti analoghi.
Evidentemente siamo davanti a qualcosa di più profondo e che non attiene soltanto alla componente emotiva. Un umore diffuso che dovrebbe stimolare qualche riflessione anche a Palazzo Chigi e alla Farnesina.
Cosa colpisce, in particolare, del sondaggio? Il fatto che, al di là del metodo seguito — per molti versi discutibile — l'iniziativa congiunta di Chirac e Schroeder ha dato voce ad un sentimento largamente prevalente nell'opinione pubblica europea, e italiana. Un sentimento — questa, al fondo, è la vera novità — che non coincide con un pacifismo ideologico e assoluto, ma che privilegia una soluzione politica della crisi irachena attraverso il ruolo centrale delle Nazioni Unite e che si schiera, dunque, contro la soluzione precostituita dagli Stati Uniti di una guerra preventiva da condurre con o senza l'avallo del Consiglio di sicurezza.
Ora, per una serie di ragioni, si poteva prevedere, e persino comprendere, che l'Italia non si associasse all'iniziativa franco-tedesca — a mio parere, comunque, la più giusta — privilegiando, invece, la vocazione filo-atlantica dell'attuale maggioranza. Resta il fatto che il nostro Paese non ha giocato, in alcuno dei passaggi politicamente più rilevanti, un proprio ruolo. Soprattutto, pur essendo alla vigilia del nostro semestre di presidenza dell'Unione, non ha operato — come ad esempio ha fatto la Grecia — per una ricomposizione unitaria dell'Europa. Anzi, quando l'esigenza di una rinnovata unità è divenuta più pressante, il governo italiano si è distinto per una improvvida raccolta di firme a favore di Bush, coll'effetto di accentuare, piuttosto che ridurre, i fattori di lacerazione esistenti.
Chiedo: è lecito sostenere, almeno col senno di poi, che quello è stato un errore? E un errore grave, un atto che ha finito con l'allontanare ulteriormente l'Italia dal senso comune di un'Europa autonoma e "pensante"?
Il nostro governo, al contrario, è sembrato dare la guerra per scontata. Coltivando una realpolitik dal respiro provinciale, qualcosa a metà tra il cinismo e la gaffe, come quando il vicepresidente del Consiglio ha parlato di una copertura militare dell'Italia per il dopo, confermando in tal modo l'impressione di un governo che, sotto sotto, considerava la guerra come l'unico sbocco possibile. E d'altra parte quale significato ha parlare oggi, come ha fatto il ministro Martino, di un'offerta italiana delle basi e dello spazio aereo, se non quello di suggellare l'idea di un conflitto inevitabile? Insomma l'Italia è apparsa, in una crisi tanto drammatica, completamente priva di un suo profilo e di una propria iniziativa. Con costi forse ancora non calcolabili sotto il profilo della nostra credibilità.
Persino sul Medio Oriente — tema per noi tradizionale — abbiamo rinunciato a svolgere quella funzione che la nostra storia e una collocazione geo-politica al centro del Mediterraneo ci assegna. Non così Tony Blair che ha colto l'esigenza di bilanciare una posizione, che io non condivido, di sostegno incondizionato all'amministrazione americana, con un'iniziativa politica che rilanciasse, contestualmente, il processo di pace tra israeliani e palestinesi. Al punto da urtare la sensibilità del governo israeliano, a dimostrazione che si può stare dalla parte degli Stati Uniti senza essere subalterni alla politica di Sharon, come invece è apparsa l'Italia che ha rinunciato così al ruolo tradizionale di mediazione che ci era proprio.
Cosa chiediamo, dunque, alla vigilia di settimane che si preannunciano ancora più tese e difficili? Chiediamo essenzialmente al governo di muoversi — come finora non ha fatto — nel solco tracciato in questi giorni dal presidente Ciampi. Lavorare per ricomporre l'unità dell'Europa. Considerare le Nazioni Unite il solo vero arbitro di una crisi che tuttora non è destinata a precipitare in un conflitto dai costi devastanti. Questo significa concedere più tempo alle ispezioni, garantire a Blix e ai suoi collaboratori un mandato rafforzato allo scopo di riuscire a disarmare Saddam, ma evitando la guerra e, allo stesso tempo, riannodando il filo di una soluzione politica non solo per l'Iraq, ma per l'intricatissima questione israelo-palestinese.
Su queste basi — e in una cornice di assoluta ragionevolezza se non di vera e propria moderazione — un confronto in Parlamento e nel Paese può essere ancora possibile. Ma servono parole chiare. Non equivoche.
Chiediamo al presidente Berlusconi di muoversi in questa direzione, a cominciare da una dichiarazione formale che attesti come nel caso di una guerra priva di un mandato esplicito da parte delle Nazioni Unite, l'Italia non fornirà alcuna assistenza politica, militare e logistica.
Non mi pare si tratti di una richiesta eccessiva o radicale. E' soltanto un atto politico elementare senza il quale l'appello alla collaborazione, rilanciato ancora nei giorni scorsi, è destinato a restare del tutto improduttivo.

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