Discorso
22 marzo 2003

Italia senza bussola politica

Da "Il Messaggero" - L'opinione di D'Alema


Adesso una guerra c’è. E’ in atto e si consuma sotto lo sguardo del mondo, con le telecamere a raccontare in presa diretta la successione degli attacchi.
Prevale la cronaca e prevalgono le emozioni, come accade sempre quando un pericolo paventato si fa reale e gli eventi prendono il posto delle parole.
Ciò non toglie che la politica –l’analisi razionale delle circostanze – non dovrebbe sottomettersi neppure ora al ricatto delle bombe.

Anche per avviare da subito una qualche riflessione sul dopo, su quel che accadrà all’indomani – speriamo ravvicinato, di un’escalation militare così drammatica.
E la politica, nel nostro caso, non può che misurarsi con la posizione del governo e con il ruolo che l’Italia ha scelto di ricoprire nella più grave crisi internazionale degli ultimi anni.

Continuo a ritenere – tanto più alla luce del dibattito parlamentare dei giorni scorsi – che la linea scelta da Berlusconi rappresenti una ferita, un vulnus per il profilo internazionale del paese. Qualcosa che altera la nostra connotazione storica e la stessa relazione con gli Stati Uniti.

L’Italia ha costruito e rafforzato lungo tutto il dopoguerra un legame saldo, positivo, con l’altra sponda dell’Atlantico. Ma la forza - e la lungimiranza – di quella politica è stata di non precipitare mai in un atlantismo che annullasse l’identità del nostro paese. Siamo stati un alleato affidabile – anche nei passaggi delicati – proprio perché abbiamo sempre mantenuto un margine d’autonomia e una concezione aperta dell’Europa e della sua coesione politica. Si è trattato di una visione strategica, di un pensiero lungo, che ha conosciuto pagine significative ancora in tempi recenti. Come quando Bettino Craxi si rifiutò di concedere all’alleato americano l’uso operativo delle basi per il bombardamento della Libia.

C’è una continuità – questo mi preme sottolinearlo – nella politica estera italiana degli ultimi decenni. E non è casuale che gli ex presidenti della Repubblica Francesco Cossiga e Oscar Luigi Scalfaro, così come Giulio Andreotti ed Emilio Colombo – gli ultimi tre sono le personalità dell’ Assemblea Costituente ancora impegnate nella vita parlamentare – abbiano votato contro la risoluzione sulla crisi irachena presentata dalla maggioranza.

E’ lecito supporre, credo, che in materia di fedeltà atlantica le figure citate siano più rappresentative dell’onorevole Sandro Bondi!
In verità, quanto è accaduto è rivelatore di una distanza tra questo governo e una parte importante della cultura democratica del paese.
Così come no è irrilevante che il figlio di Bettino Craxi – come egli ha ricordato - in continuità con la visione della politica internazionale del padre – abbia espresso una posizione di critica analoga verso una maggioranza della quale pure egli fa parte a pieno titolo. Dunque, non siamo semplicemente davanti a una divisione tra pacifisti e non. Dietro le scelte del governo italiano, e il giudizio politico su di esse, c’è dell’altro.
C’è in primo luogo la preoccupazione di uno strappo costituzionale che grava come un’ ipoteca sul nostro futuro. L’Italia – a differenza della Francia e di altri paesi – ripudia la guerra e considera legittimo l’uso della forza soltanto in presenza di una risoluzione adottata da uno o più organismi sovranazionali. Come è noto, non è questo il caso dell’Iraq. Mentre fu così per il Kosovo, quando

L’azione militare, in assenza di un mandato esplicito dell’Onu che giunse solo in un secondo momento consentendo l’intervento di terra, si sviluppò per una prima fase su impulso di una decisione della Nato e dell’Unione Europea, vale a dire di due istituzioni sovranazionali cui l’Italia ha liberamente deciso di legare il proprio destino e il proprio ruolo nel mondo. Peraltro, in una cornice segnata dal dramma di una polizia etnica in corso che andava immediatamente fermata e senza che l’obiettivo né implicito né dichiarato dell’azione fosse la destituzione del regime di Belgrado.
E infatti, come si ricorderà, fu lo stesso Milosevic, da lì a poche settimane. A firmare la resa militare, mentre furono i cittadini serbi con libere elezioni a sancire la fine politica un anno più tardi.

Non si tratta di piccole differenze. Si tratta del significato e della legittimità di un azione militare dai costi e dalle conseguenze gravissime.
E d’altro canto non è un caso che il generale Wesley Clark, che fu a capo delle operazioni nel Kosovo, abbia dichiarato ieri a differenza del 1999 la guerra di oggi non ha giustificazioni.
Detto questo, resta la questione ad oggi più rilevante. Cosa avverrà dopo la fine di un conflitto che tutti ci auguriamo il meno cruento possibile.

La mia impressione è che un paese con le nostre tradizioni e la nostra collocazione al centro del Mediterraneo rischia di uscire da questa vicenda più debole e meno credibile. Una grande nazione privata, più per improvvisazione che per volontà, del proprio retroterra strategico e di un ruolo d’equilibrio e di mediazione svolto con successo in tanti momenti della storia recente. Cresce, insomma, la sensazione d’essere orfani, in un passaggio tanto delicato, di una bussola e di una politica.
Esposti al vento della contingenza, e soprattutto senza l’autorevolezza di una classe dirigente in grado di giustificare le proprie stesse posizioni.
Abbiamo davanti tempi difficili. E comunque vada a finire questa crisi, la scia degli eventi che lascerà in eredità sarà lunga e complessa. Suscita una qualche angoscia pensare che al governo del paese vi sia oggi qualcuno in grado di rendersene conte e farsene carico.

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