Discorso
5 aprile 2003

Convenzione dei Democratici di sinistra per il programma dell’Ulivo<br>Milano, 4-5-6 aprile 2003 <br>

Intervento di Massimo D'Alema


Chiedo scusa innanzitutto a chi parlerà dopo di me se è stato necessario anticipare un intervento, che avrebbe dovuto essere conclusivo di questa sessione, perché dovrò andare a fare un comizio elettorale. E tuttavia ci sono anche le elezioni, gli impegni che si prendono con i cittadini.

Era difficile immaginare un momento così drammatico e così impegnativo per la nostra discussione. In queste ore si combatte per le vie di Bagdad e di altre città irachene un’ultima disperata battaglia. Vi è l’angoscia per le vittime civili, per i militari, di una parte e dell’altra che cadranno, e c’è da temere molti nelle ultime giornate di questa tragica guerra. Si misura oggi anche la responsabilità di chi non ha compreso neppure che questa dittatura non era poi un castello di carta e forse la lettura di qualche volume sui regimi totalitari di massa avrebbe reso più preparate le truppe di occupazione al tipo di resistenza feroce che hanno incontrato. Si misura l’errore di una coalizione a guida americana che ha presentato nei suoi proclami, nel suo esibire i nomi dei nuovi governanti americani dell’Iraq, più l’arroganza dell’occupante che lo stile del liberatore. Spingendo così molti, anche non seguaci del dittatore, a battersi per difendere l’indipendenza e la dignità del proprio paese.
Ma c’è, intorno a questa tragedia, il rischio che cerchi concentrici, l’onda d’urto del colpo che è stato inferto, producano danni persino più profondi e duraturi di quelli che si stanno producendo all’interno dell’Iraq. Abbiamo assistito ad un’ondata di odio antioccidentale. Prende vigore in tutto il mondo islamico un sentimento fondamentalista.

Il rischio è che aumenti l’insicurezza e che questo conflitto appaia più che una guerra preventiva volta a creare l’ordine, un episodio acuto di una sorta di guerra infinita, di uno scontro di civiltà destinato a segnare per un lungo periodo la storia del mondo e a condizionare la nostra vita. Io credo che sia questa la ragione del vigore, della passione, della forza e persino della solennità del modo in cui è scesa in campo la chiesa cattolica e il Papa. Il timore è che siamo di fronte al rischio di un prolungato conflitto di civiltà. E che questo conflitto finisca anche per ridurre l’universalità del ruolo della chiesa cattolica, per ridurre la chiesa dentro i confini dell’Occidente. Io penso che, anche per questo, il messaggio del Papa ha avuto non soltanto un grande valore etico, spirituale, ma ha avuto certamente uno straordinario valore politico. Se oggi in una parte, spero ampia, dell’opinione pubblica araba questo conflitto può non essere avvertito come uno scontro di civiltà è anche perché il Papa di Roma ha parlato il linguaggio della pace. E non voglio pensare quale sarebbe il destino del nostro paese in una prospettiva come questa.

Un paese che si trova nel cuore del Mediterraneo, lungo il confine tra le civiltà. Paese che non a caso ha avuto nella sua politica estera un tratto importante e positivo, anche se talora interpretato in modo furbesco ma non per questo meno importante, e cioè quello di essere un paese del dialogo con il mondo arabo, della collaborazione. Un paese ponte tra civiltà.
Questa guerra ha portato con sé quindi non soltanto la rottura di un clima di legalità internazionale, un colpo alla credibilità dell’Onu, dell’Unione europea e della Nato, ma porta con sé anche un secondo rischio, quello appunto di un allargamento dell’odio antioccidentale. L’unilateralismo americano non si origina soltanto fuori dalle decisioni dell’Onu (vorrei attirare l’attenzione su questo punto che è importante ed è forse la novità più rilevante di questa crisi). Gli Stati Uniti hanno agito al di fuori del consenso delle grandi democrazie occidentali. L’Onu è stata a lungo paralizzata al tempo della guerra fredda, ma la logica del veto è sempre passata nel rapporto tra Oriente e Occidente. La novità di questo conflitto è che gli Stati Uniti hanno agito dentro una divisione dell’Occidente e delle grandi democrazie. E l’affermarsi della dottrina della guerra preventiva genera insicurezza, spinge verso una proliferazione delle armi nucleari. Abbiamo forse messo poco l’attenzione su questo rischio. Non è casuale che nei giorni stessi della guerra India e Pakistan abbiano sperimentato i loro missili balistici; si sia diffusa la notizia che l’Iran abbia affittato componenti per reattori nucleari; la Russia sostiene che la Corea del Nord abbia accelerato il suo programma nucleare. Appare evidente che, in un mondo nel quale si spezza un quadro di legalità, la garanzia di indipendenza nazionale contro l’arbitrio della guerra preventiva consiste proprio nell’avere a disposizione armi di distruzione di massa e il paradosso di questa guerra, nata per eliminare armi di distruzione di massa, può essere quello di spingere verso una loro proliferazione. Con l’effetto di sottrarre risorse allo sviluppo, alla lotta alla fame in paesi poveri e anche con l’effetto di puntellare dittature, perché certamente un dittatore che dispone di armi nucleari è più al sicuro nei confronti del rischio che qualcuno vada da lui a portare la democrazia. Puntellare dittature anziché promuovere democrazie.
La tragedia di questa guerra è anche, paradossalmente, che essa rischia di tradire le intenzioni, le motivazioni per cui è stata promossa. Intenzioni e motivazioni alle quali io credo si debba guardare con attenzione: lotta al terrorismo, maggiore sicurezza anche attraverso la eliminazione di armi di distruzione di massa nelle mani di dittatori, prevenzione del pericolo che gruppi terroristici possano trovare sostegno da parte di regimi dittatoriali, che possano fornire loro armi terribili. Si tratta di preoccupazioni che sarebbe sciocco considerare con sufficienza o come se si trattasse esclusivamente di uno schermo di giustificazione ideologica. No, sono motivazioni che hanno una base reale.

Così come l’idea di un’espansione della democrazia e della tutela dei diritti umani non è un’idea priva di un ragionevole consenso anche in una parte ristretta e significativa del mondo arabo e certamente in una parte delle elites moderne e democratiche. Lo dico perché in nessun momento l’opposizione alla guerra può assumere il colore di una solidarietà nei confronti, non del popolo iracheno, quello è doveroso, ma del regime aggredito. Paradossalmente saranno le scelte dei prossimi giorni che daranno un segno all’esito di questo conflitto, direi persino che senza scelte lungimiranti - e i segnali da parte americana non sono incoraggianti in queste ore - sarebbe difficile persino concludere la guerra, non nel senso della resistenza militare che sarà piegata e l’Iraq sarà occupato. Ma il rischio di una prolungata instabilità, di una coda di guerra civile, di guerriglia, di terrorismo, esiste. Ed è del tutto evidente che evitare questo rischio comporta una effettiva pacificazione e certamente una effettiva pacificazione risulterà assai difficile nella logica di un governatorato militare americano e più probabile nella logica di un’amministrazione fiduciaria che abbia un mandato delle Nazioni Unite e che coinvolga rappresentanze civili e religiose del popolo iracheno, sin dall’inizio della sua opera.

E’ evidente e lo dico perché la discussione deve essere liberata: qui non si tratta di un’Europa che vuole gli appalti dopo non aver fatto la guerra. Parliamoci chiaro; è stato detto qui, c’è la tentazione di dire agli americani “pagate il prezzo delle conseguenze di una situazione in cui vi siete cacciati” o la tentazione di dire “noi vogliamo le mani pulite, vogliamo stare fuori da tutto questo, non vogliamo compiere atti che possano neppure apparire come una legittimazione ex post di una guerra che non condividiamo”. Questa può essere una tentazione forte, ma io ritengo che sarebbe una scelta sbagliata, e proprio le ragioni che ci hanno spinto a contrastare questa guerra e a considerarla pericolosa e tragica dovrebbero oggi spingere l’Europa a venire in campo per ridurre i danni della guerra, per indirizzare il processo politico del dopoguerra proprio verso quella distensione e dialogo con il mondo islamico, quel processo democratico in cui gli iracheni siano protagonisti perché questo è il modo migliore di aiutare l’Iraq ed è anche il modo migliore di aiutare la causa della pace e della nostra sicurezza.

La democrazia imposta con le armi rischia di frenare i processi democratici autentici all’interno del mondo islamico. Quelli che in qualche modo, faticosamente, sono in corso. Ma voi pensate davvero che l’avere ai confini un governatorato militare americano aiuterà i riformisti iraniani o piuttosto non aiuterà i fondamentalisti che ostacolano le riforme in quel grande paese, incamminato verso un processo di modernizzazione e di riforme democratiche? Noi abbiamo ascoltato, alla riunione dell’Internazionale socialista, un uomo importante del mondo arabo, quel capo dei socialisti marocchini che, dopo anni di persecuzioni è diventato Primo Ministro ed è stato protagonista della svolta democratica in quel paese. Ora ha cessato questa carica ma resta il leader del maggior partito. Un paese, quello, che davvero si è incamminato verso la democrazia ma nel quale tuttavia il riflesso di questi conflitti è la crescita delle forze fondamentaliste e l’indebolimento della democrazia. Attenzione: se si inasprisce lo scontro fra Occidente e Islam non avanza la democrazia nel mondo islamico. La democrazia diventa il modo in cui a regimi autoritari si sostituiscono repubbliche fondamentaliste, con rischi per la sicurezza e la stabilità del Mediterraneo e del mondo intero.

Allora credo che il dovere di chi si è battuto per la pace non è, oggi, quello di stare a guardare ma di venire in campo sul terreno delle scelte politiche concrete e sottolineare - come molti hanno fatto, e Piero prima degli altri - che in questo momento ci sentiamo vicini a chi sostiene che l’Onu deve essere protagonista della ricostruzione, anche se lo sostiene chi ha partecipato a questa guerra. Questo non tocca in alcun modo le ragioni di un dissenso che restano, ma la guerra non è la fine della politica, anzi. La sfida che si è aperta è una sfida di lungo periodo perché non riguarda soltanto questa guerra ma tutta una visione delle relazioni internazionali che dobbiamo sapere contrastare, facendone prevalere un’altra in grado di dare risposta agli stessi problemi.

Perché un’Europa, o una sinistra, che scrollassero le spalle di fronte al problema del terrorismo o dell’espansione della democrazia o che pensassero che il sistema delle relazioni internazionali oggi possa essere regolato da un’idea ottocentesca della sovranità nazionale, a mio giudizio si chiuderebbero in una posizione di testimonianza ininfluente.
L’altro banco di prova che io sento così importante non solo in sé, ma anche perché ritengo che continui ad essere il tema cruciale del rapporto con i sentimenti e le opinioni del mondo arabo, riguarda il Medio Oriente. Che per molti aspetti è assai più rilevante della stessa vicenda irachena perché resto convinto che uno stato indipendente dei palestinesi potrebbe rappresentare non soltanto la fine di un alibi a cui si sono aggrappati per decenni i regimi autoritari del mondo arabo, ma anche una importante esperienza democratica in quel mondo. E continuo a pensare che la stessa tragedia che hanno vissuto i palestinesi ne ha fatto uno dei popoli più avanzati, più aperti alle idee democratiche che provengono dall’Europa e dall’Occidente; e siccome penso che la democrazia si espanda più per contagio che non attraverso le armi, credo che favorire la nascita di uno stato democratico in Palestina avrebbe un effetto importante su tutto il mondo arabo. Oltre ad essere - questa sì più delle armi - condizione per la sicurezza di Israele.

Non voglio approfondire questo tema che pure mi appassiona ma credo che difficilmente questa pace ci sarà senza un forte, cogente impegno della comunità internazionale e vorrei ripetere una cosa che ho detto e che ho scritto. L’espressione “processo di pace”, io la accantonerei definitivamente. Il processo di pace è stato carico di ambiguità perché è stata la convivenza tra due popoli che non erano d’accordo su nessuna delle questioni cruciali che devono definire la pace. Nel corso di questo processo di pace senza la pace, da una parte e dell’altra, si è più lavorato per conquistare una posizione di vantaggio negoziale attraverso le colonie, attraverso l’intifada armata, senza sciogliere i nodi: i confini dello stato palestinese, lo status di Gerusalemme, la questione dei profughi, le garanzie per la sicurezza di Isreaele. E quindi il processo di pace ha generato molti equivoci: il problema vero è scrivere la pace sciogliendo i nodi che fin qui hanno ostacolato la pace. Dal futuro dell’Iraq e dalla capacità dell’Europa, della comunità internazionale e degli Stati Uniti – senza gli Stati Uniti nessuna di queste cose si possono fare, si possono chiedere ma non fare – dalla capacità di affrontare questi problemi imprimendo una sterzata al corso delle cose passa, io credo, un nodo fondamentale, uno snodo importante di una sfida che sarà di lungo periodo.

Questa guerra, effettivamente, è un momento costituente di un nuovo sistema di relazioni internazionali e noi non possiamo leggere questo conflitto attraverso vecchie categorie che, a volte, sento riaffiorare: imperialismo e antimperialismo, categorie di uso problematico anche nel passato ma che oggi, sinceramente, non ci danno una chiave interpretativa. Come pure definire questa guerra come guerra per il petrolio non convince. Questo certamente è un aspetto ma, a mio giudizio, non è l’aspetto fondamentale. Noi siamo di fronte ad una novità vera: questa guerra non è più uno dei tanti episodi di guerra che abbiamo conosciuto dopo l’89. Questa novità nasce da una crisi drammatica di una globalizzazione senza regole e senza politica. Dal venire meno della illusione che il dominio dei mercati, dell’economia ci avrebbe condotto nel migliore dei mondi possibili. Dal fatto che la comunità internazionale, e innanzitutto i paesi più grandi, si misura con l’anarchia prodotta dalla globalizzazione senza regole e senza politica, di cui il terrorismo è una forma estrema. Il terrorismo è figlio della globalizzazione, è figlio della crisi dello stato nazionale. E’ stato scritto: è una forma estrema di “privatizzazione della guerra”. Che cosa c’era di più riservato alla potestà statale se non la guerra? Il terrorismo è la privatizzazione della guerra. Ed è un pericolo contro il quale sicuramente non valgono le forme tradizionali della deterrenza e mette in crisi tutte le strategie di sicurezza che l’umanità ha conosciuto dopo la seconda guerra mondiale.
Questa crisi drammatica della globalizzazione ha spinto le classi dirigenti americane a pensare il mondo nella chiave di un nuovo bipolarismo. In definitiva, la crisi del multilateralismo nasce da qui, dall’idea che come nel passato il mondo era diviso tra il comunismo e l’Occidente, oggi il mondo è diviso tra il bene e il male. Non c’è un confine geografico. Questo nuovo pericolo è un pericolo che non ha dei sicuri confini geografici: c’è un confine culturale, etnico, c’è tutto un mondo povero e non occidentalizzato, non penetrato dai valori dell’Occidente, che viene visto come un pericolo, come il terreno di coltura di una minaccia e in questo modo si vuole dare risposta ad un bisogno di ordine, di sicurezza, ad una paura che c’è, paura del disordine, della violenza, della diversità, della immigrazione e della multietnicità, paura anche della crescente competitività dei paesi poveri. Perché la globalizzazione senza regole è anche quella che ha consentito a paesi nei quali non si rispettano i diritti elementari del lavoro di venire con i loro prodotti sui nostri mercati. E i paesi ricchi, che si sono enormemente avvantaggiati di una prima fase della liberalizzazione, oggi temono un effetto boomerang. Paradossalmente, dalla crisi della globalizzazione neoliberale non è detto che si esca in avanti con un mondo migliore: si può anche uscire lungo la strada della guerra e del protezionismo, al posto della politica e del governo democratico della globalizzazione. La guerra come mezzo di difesa, di allargamento del perimetro dell’Occidente, di protezionismo per difendere il nostro livello di benessere. Paradossalmente comincia ad affiorare un sentimento no-global nelle forze conservatrici mentre, se si va a discutere con i nostri compagni brasiliani – molto evocati ma non altrettanto conosciuti – quello che ci chiedono è la liberalizzazione del commercio dei loro prodotti agricoli. Quello che chiedono all’Europa e agli Stati Uniti è un di più di liberalizzazione, perché non possono accettare una globalizzazione nella quale gli americani pretendono di esportare i loro prodotti in Brasile, ma poi fanno un elenco dei duecento prodotti brasiliani che, siccome sono competitivi, non possono andare a casa loro. E nell’Europa vedono il fascino, la sinistra, i valori, la democrazia, l’Unione europea. Però quando arrivano lì i nostri prodotti agroalimentari sussidiari e occupano i loro mercati, si seccano parecchio. Lo dico perché forse questo è il vero grande tema.
Una seconda epoca della globalizzazione regolata, governata, in grado di prevenire i conflitti, ma anche di espandere le opportunità, può diventare l’obiettivo di un grande schieramento politico, di quella straordinaria opinione pubblica globalizzata - un frutto buono della globalizzazione - che è davvero una grande novità del nostro tempo. Non ho il tempo per sviluppare qui un’idea che inserisco in modo non polemico, nulla è polemico in questo mio intervento. Non so se facciamo bene ad usare la parola “movimento”. Non so se non siamo di fronte a qualcosa di nuovo. Il riferirsi ai movimenti postulava una definita e parziale identità sociale e quindi un’identità culturale di questi movimenti. Erano il movimento degli studenti, delle donne, dei lavoratori: oggi di fronte a una mobilitazione, ad una crescita della coscienza civile, delle persone. C’è un fenomeno nuovo e straordinario di crescita della coscienza che non necessariamente produce un movimento nel senso tradizionale del termine. Dire questo non significa in alcun modo non vedere che, per certi aspetti, proprio questo fatto pone alla politica problemi ancora più complessi di quanto non ne ponesse il tradizionale rapporto con i movimenti che, in definitiva era rapporto tra gruppi dirigenti, rapporto fra elites, e quindi conflitto o compromesso o integrazione. Ho l’impressione che siamo di fronte a un fenomeno che difficilmente si lascerà integrare dalla politica e che ha bisogno di essere compreso e di essere rappresentato ma in una sfida di medio periodo. Non c’è un giorno in cui incontriamo i movimenti e facciamo qualcosa insieme. Ed è vero che questo grande movimento per la pace ha messo in campo l’utopia concreta – Piero ha brandito Kant contro Hegel, io ho avuto un fremito: noi siamo storicisti, marxisti, almeno io ancora, e ho avuto un momento di incertezza, l’unico, durante la sua relazione, un momento di dubbio – e però è vero: noi non potremo più dire che la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi. Questa è davvero oramai un’idea ottocentesca e persino chi, come me, ritiene che il ricorso all’uso della forza può essere inevitabile in determinate circostanze, deve pur tuttavia sempre ammettere che l’uso della forza è il segno di una sconfitta della politica e della civiltà.
Se di fronte a questa utopia concreta – concreta perché cammina sulle gambe di decine, centinaia di milioni di esseri umani – la politica alzasse le spalle commetterebbe un errore tragico, soprattutto la sinistra. Nello stesso tempo alla politica non può sfuggire che c’è una distanza tra questa aspirazione e la realtà dei conflitti e dei rapporti di forza nel mondo in cui viviamo. Il compito della politica non può ridursi ad alzare questa bandiera, la politica deve individuare un percorso, un cammino per colmare questa distanza, per un processo di avvicinamento, per creare le condizioni. Questo è il compito della politica, se volete un compito più prosaico ma nel dire questo io non voglio riproporre “noi, loro”, una divisione del lavoro, non si tratta di questo, perché noi siamo noi e siamo loro, perché in quelle piazze per la pace c’eravamo anche noi, le nostre famiglie. Ma nello stesso tempo noi siamo, fra loro, quelli che devono poi prosaicamente vedere attraverso quali tappe, quali processi concreti ci si può avvicinare a quegli obiettivi. Altrimenti veniamo meno al nostro compito, non serviamo più a niente. Anche perché a organizzare i cortei sono capaci da soli, se noi pensassimo che il nostro compito è quello!
La sinistra non affronta questa sfida con la cultura e le categorie della guerra fredda. Se la destra americana vuole ricostruire il bipolarismo – che era la logica di una scelta di campo – noi non dobbiamo cadere in questa trappola. Se una sinistra, di fronte a questi problemi, accettasse la logica della scelta di campo e in qualche modo pensasse oggi, nelle mutate condizioni (non c’è più l’Unione Sovietica, il campo socialista, il popolo in lotta antimperialista: tutte quelle cose che abbiamo conosciuto nella nostra giovinezza non ci sono più) di riproporre una scelta di campo antioccidentale, sarebbe una tragedia. Innanzitutto una tragedia culturale, ma anche la premessa di una futura sconfitta. Noi siamo parte dell’Occidente e se l’Occidente sbaglia, come un tragico errore è questa guerra, noi dobbiamo essere portati a pensare “noi abbiamo sbagliato”.
Noi siamo una parte dell’Occidente che vuole combattere per un altro modo di essere dell’Occidente, siamo sinistra europea, parte del mondo occidentale e dei suoi valori. Noi veniamo da un partito nel quale il gruppo dirigente ha compiuto uno sforzo straordinario per evitare che questo partito fosse un “accampamento cosacco” e per farne una grande forza nazionale. E poi via via, a partire da lì, abbiamo compiuto una serie di passi che ci hanno portato ad essere parte del socialismo europeo. Non possiamo rimetterci a capo di un sentimento antioccidentale. Non si vince una sfida di questo genere né con le idee e, lasciatemelo dire, neppure con i sentimenti dell’epoca della guerra fredda, neppure con il sentimento antiamericano e antioccidentale dell’epoca della guerra fredda. Capisco che fare a botte con i sentimenti non è facile, ma una grande forza politica deve saper essere coerente con il proprio profilo. Il vero problema è quale altra strategia. Noi, sinistra europea, non abbiamo avuto una strategia della espansione della democrazia, dobbiamo dirci la verità. Nell’epoca della guerra fredda anche gli americani, spesso, hanno valutato i regimi non dal loro carattere democratico ma perché servivano. Però è anche vero che, per lungo tempo, anche noi abbiamo avuto lo stesso sentimento verso dittatori collocati in campo antiamericano o verso dittatori collocati nel campo filoamericano.

Questo tema di una strategia per la crescita della democrazia, per l’espansione del rispetto dei diritti umani, è un punto cruciale dell’identità di una sinistra che voglia dare una risposta anche in termini etici e ideali al messianesimo, al fondamentalismo della destra americana. E poi c’è il tema della sicurezza, della lotta contro il terrorismo, che è un punto essenziale e non una questione che riguarda solo gli Stati Uniti d’America. Insomma, penso che noi dobbiamo sapere vedere che vi sono valori, come la democrazia e la libertà individuale, che nascono nel nostro mondo ma che hanno un valore universale. Sconfiggere ogni tentazione verso il relativismo etico, sapere che quello che non ha un valore universale, e che non va confuso con la democrazia, è un determinato modello di sviluppo e di cultura. Questa è la grande contraddizione in cui si trova l’Occidente e qui c’è l’inganno della destra.

Espandere la democrazia è una condizione del governo della globalizzazione: pensare che espandere la democrazia significhi espandere un determinato modello di sviluppo, di consumi, non solo è inaccettabile ma è privo di qualsiasi realismo. Perché è del tutto evidente che la globalizzazione non può fondarsi sulla universalizzazione di quel modello ma, al contrario, lo mette in crisi anche all’interno dei paesi occidentali. Una cultura democratica occidentale deve saper discernere ciò che ha un valore universale nella nostra esperienza e ciò che invece non è esportabile e deve essere messo in discussione radicalmente anche da noi. Questo discorso sarebbe lungo perchè comporta anche una riflessione sull’organizzazione della nostra società, sui livelli di benessere, sul sistema delle garanzie: sono sfide dalle quali non ci si potrà sottrarre. Per affrontarle non ci vuole un’Europa più piccola. Io sono d’accordo con Massimo Salvadori e penso che la posizione francese, tedesca, ma anche belga, olandese, austriaca, greca, della maggioranza dei paesi dell’Unione europea, sia stata importante. Trovo ci sia un certo snobismo, persino in settori della sinistra, nel rispolverare un sentimento antifrancese: torniamo a dividerci tra anglofili e francofili, ma non siamo più nell’800. E’ evidente che quella posizione di un gruppo di paesi europei non disegna un’Europa più piccola. Che incidenza può avere, nella nuova fase internazionale, un’Europa senza la Gran Bretagna, o una sinistra senza Blair, ma anche senza le forze di sinistra dei paesi dell’Europa centrale e orientale? Qualcosa ci deve pur dire il perché, quei paesi dove la sinistra è al governo, sono i paesi che hanno firmato la solidarietà con gli Stati Uniti. Perché dagli Stati Uniti si sono sentiti accolti (l’allargamento della Nato), mentre l’Europa, per ragioni di interesse, li ha tenuti alla porta per quindici anni.
Guai se riproponiamo l’immagine di un’Europa ristretta: abbiamo bisogno di un’Europa più larga e nello stesso tempo – lo hanno detto Amato e Napolitano – di un’Europa in grado di essere soggetto politico e attore globale. Certo, sono importanti gli aspetti istituzionali e io sono certamente tra quanti mettono l’accento sulle istituzioni comuni e meno sulle istituzioni intergovernative però, lasciatemi dire una cosa, alla fine c’è la politica. Possiamo anche decidere che la politica estera europea la fa il vicepresidente della Commissione europea e non il segretario del Consiglio europeo perchè intergovernativo, ma non vorrei essere nei panni di quel vicepresidente nel fare una politica estera il giorno che la Gran Bretagna da una parte, e la Francia e la Germania dall’altra, sono drammaticamente divise. Sinceramente, se non si costruiscono le condizioni di una coesione politica dell’Europa, sarà difficile che una soluzione istituzionale, per quanto avanzata e brillante, possa risolvere questo problema.

Ho l’impressione che, in un momento così importante della vita del nostro Paese, il nostro governo si manifesti palesemente inadeguato a rappresentare l’Italia e i suoi interessi. Come è stato detto, sul terreno della politica estera si misura forse il fallimento più grave della destra, ce ne sono anche altri ma non staremo ad elencarli. Vorrei però andare dritto all’ultima fase. Come questa situazione deve essere vista dall’opposizione. Una situazione in cui, senza dubbio, c’è stata una crescita e una rivitalizzazione dell’opposizione mentre c’è una difficoltà del governo. E’ un’opportunità, sì, ma è anche una responsabilità. In un grande paese democratico, quando una parte crescente dell’opinione pubblica perde fiducia nel governo, se non ha dall’altra parte una forza nella quale avere fiducia, quello che rischia di determinarsi è un indebolimento della democrazia, della partecipazione e della fiducia nelle istituzioni. Paolo Galimberti ci ha detto, con parole semplici, che ora più che mai c’è bisogno di un’opposizione forte, coesa e realista - è’ un problema di responsabilità verso il Paese - in grado anche di avere una propria iniziativa internazionale, non ostile all’Italia, per integrare e rappresentare una voce dell’Italia.

Questa è la questione politica, non regolamentare, che Piero Fassino ha posto con tanta forza e passione nel suo intervento. Questa questione c’è o non c’è? Perché se c’è non ci si può aggrappare ad una parola, bisogna affrontarla. Se non c’è, non c’è la questione. Noi siamo ad un mutamento di fase in cui abbiamo bisogno di imprimere una accelerazione politica, nel senso dell’unità e della capacità di proposta dell’opposizione. Questo non significa che i movimenti non siano stati importanti ma questo vale in tutti i campi. Mettere oggi l’accento sull’unità sindacale non significa negare il valore che hanno avuto l’iniziativa e la battaglia della Cgil, noi le riconosciamo, lo sappiamo! Però lasciatemi citare Gramsci: ci sono anche due modi per dividersi. Quello che viene dalla nostra tradizione è quell’espressione che può apparire paradossale : “dividersi per unirsi”. Ci sono momenti in cui ci si distingue per unirsi, dopo. Oppure ci si divide nella convinzione che si tratti di una frattura di lungo periodo. Io credo che invece, oggi, proprio perché quel Patto per l’Italia non aveva consistenza e non c’è più, non abbia alcun senso mantenere aperta la polemica sul Patto per l’Italia.

Il problema vero è come si colgono le nuove opportunità unitarie. Chi è forte non può soltanto rivendicare la giustezza di ciò che ha fatto: è giusto, ma poi deve sapere cogliere le nuove opportunità. In questa conferenza Trentin e Fassino hanno indicato una piattaforma che, a mio giudizio, raccoglie gli stimoli e gli elementi di innovazione che in questi due anni di opposizione sono maturati e sono venuti avanti, e tende a collocare queste proposte nel quadro di una iniziativa politica che ci consente di prendere nelle mani la bandiera del cambiamento del Paese. Laddove la destra ha fallito. Mi si è contestato che non si può dire che l’identità della sinistra è il cambiamento. Può darsi, non lo so. Provate a dire il contrario: l’identità della sinistra è la conservazione. Vi convince? E’ chiaro che il cambiamento che noi vogliamo deve essere segnato dai valori che sono propri della nostra storia e del nostro modo di guardare le cose. E allora vedete, compagni, messa così la questione del rapporto tra di noi è – come ha detto Bersani – un grande problema politico e culturale. Certo l’unità è un processo di sintesi, di avvicinamento delle posizioni, ma noi non abbiamo risolto il problema politico e culturale di come si sta insieme, con posizioni diverse, in un unico partito o schieramento. Di come queste diversità funzionino positivamente non tra di noi – questo è un problema del tutto minore – ma nel rapporto con il paese, che è la questione vera che ci interessa.
Come far vivere proficuamente le differenze. Questo comporta aspetti che sono anche di stile: per esempio il rispetto verso le persone, l’ascolto reciproco. Il rispetto verso le persone è importante perché le persone sono il patrimonio di un movimento, ma comunque mettiamolo tra parentesi. C’è la capacità di convergere, nei momenti più significativi, anche attraverso una forma di autodisciplina. Chi si illude di poter imporre la disciplina dall’esterno? Non è più quel tempo. E noi abbiamo due ragioni. Una è che dall’unità del nostro partito dipende in misura notevole anche l’unità dell’Ulivo. Qualcuno ce lo dice in modo strumentale, io invece penso che passi attraverso di noi il confine tra diverse culture e sensibilità che compongono questa maggioranza; e dal modo in cui noi sappiamo gestire questo confine come un confine aperto, dipende la nostra capacità di irradiare in tutta la coalizione uno spirito di collaborazione e di unità. Abbiamo quindi una responsabilità speciale.

C’è una seconda ragione: sento a volte emergere una visione sbagliata per cui l’esasperazione e la visibilità delle differenze accrescono la capacità di rappresentanza. La sinistra faccia la sinistra, il centro faccia il centro, la sinistra più a sinistra si faccia vedere: vedrete che così raccoglieremo consensi da ogni parte. Badate, questo discorso secondo me rischia di muovere da un’idea arcaica, valida forse in una democrazia frantumata del proporzionale, ma certamente non valida in un sistema maggioritario nel quale la sfida è per il governo del paese. Ed è inevitabile che chi deve essere convinto ad essere governato da noi, ha bisogno di misurare un grado ragionevole di coesione, che è condizione di affidabilità di uno schieramento politico. A meno che non si pensi che poi l’unità sarà il frutto di una sintesi, di una sintesi plebiscitaria, personalistica, ma questo è il modo più antidemocratico di concepire l’unità, più contrario alla nostra cultura.

Dall’altra parte le differenze sono persino più gravi, però sono meno lesive dell’immagine pubblica del centro destra perché loro hanno risolto proprio in modo personalistico e plebiscitario il problema della sintesi della loro immagine. Da questa parte io credo e, lasciatemelo dire, per fortuna, quella strada non è praticabile.
C’è solo lo sforzo faticoso della convivenza, dell’autodisciplina, della responsabilità. Visto che in questo periodo si è molto parlato di sentimenti, si sono costruiti dei modelli politici, ci si è divisi anche tra di noi tra chi è attento ai sentimenti e chi alla ragione (sembra di essere tornati ai fondamentali della filosofia), penso che se non usciamo da qui facendo un salto di qualità nel modo in cui stiamo insieme, offendiamo un sentimento diffuso che non ha nulla a che vedere con un vecchio riflesso autoritario, ma muove dalla preoccupazione sulla condizione e sul destino del nostro Paese e dal timore che la sinistra finisca per essere parte del declino del paese, non elemento fondamentale del riscatto dell’Italia. Qui si misura non il rapporto tra le componenti, ma il livello collettivo di una classe dirigente e la sua capacità di non tradire la fiducia della gente.

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