Discorso
18 aprile 2003

Conferenza presso il Ministero degli Esteri del Marocco Rabat


Testo in Francese


Cari amici,

ho accolto con piacere l’invito che mi è stato rivolto ed è per me un onore prendere la parola in questa sede, dinanzi a una platea così autorevole e qualificata.

Ringrazio, quindi, Abderrahman Youssoufi, Primo Segretario dell’Union Socialiste des Forces Populaires per essersi fatto promotore di questo invito e saluto le autorità presenti……

Confesso che alla vigilia di questo viaggio nutrivo una grande curiosità per il vostro paese. Non avevo avuto modo di visitarlo durante la mia esperienza di governo, ma ho seguito con attenzione e interesse l’evoluzione politica, istituzionale e democratica di una Nazione che considero vicina a noi non soltanto per la sua collocazione aperta sul Mediterraneo.

Sono anche lieto di poter intervenire su un tema – il futuro delle relazioni tra l’Europa, il mondo occidentale, e le culture e i valori della civiltà araba – che assume, alla luce delle vicende di questi ultimi mesi, una rilevanza decisiva per il nostro avvenire comune.


Abbiamo alle spalle settimane molto difficili.

Una guerra dalle implicazioni profonde si è consumata alle porte del Mediterraneo, in un’area del mondo al centro da decenni di tensioni e conflitti laceranti.

Una guerra considerata da molti – noi siamo stati tra questi – un tragico errore, per gli inevitabili costi umani e politici e per le conseguenze drammatiche che essa è destinata a produrre.

Questa guerra, per fortuna, si è avviata a una conclusione ed è, naturalmente, forte in tutti noi la speranza che le violenze e le vittime possano cessare presto e definitivamente.

Resta il fatto che un regime dispotico e responsabile di terribili persecuzioni verso il proprio popolo è stato spazzato via. Mentre si aprono questioni delicate che investono l’avvenire dell’Irak, la sua effettiva indipendenza politica, il futuro di milioni di persone.

Non conosciamo ancora il numero esatto delle vittime, militari e civili, che questo conflitto ha prodotto.

Ma, al di là della pietà per le vittime – per tutte le vittime – restano aperti interrogativi di fondo sulle ragioni che hanno portato a questa escalation militare e sull’eredità di una guerra che rischia – per i motivi che dirò – di condizionare pesantemente il futuro di quella regione e delle aree con essa confinanti.

L’aspetto forse più eclatante di questa vicenda si può riassumere nel paradosso seguente: una guerra dichiarata in nome di una maggiore sicurezza globale rischia di tradursi in un’insicurezza maggiore.

Di più: una guerra vinta sul campo dalla potenza più forte del mondo rischia di tradursi nell’indebolimento di quella potenza sotto il profilo dell’immagine, del suo ruolo e della sua legittimazione internazionale.

Forse è da qui – da questa palese contraddizione tra obiettivi dichiarati e ricadute concrete – che bisogna partire.

La premessa da fare è che la guerra si poteva e si doveva evitare. Non c’è dubbio, infatti, che dopo l’ultimo rapporto degli ispettori delle Nazioni Unite vi erano le condizioni per proseguire l’opera di disarmo del regime irakeno, alimentando un processo di isolamento politico e di progressivo indebolimento di Saddam Hussein.

Questa, del resto, era l’opinione del Segretario generale dell’Onu, Kofi Annan, del Presidente Chirac, del Presidente Putin e del Cancelliere Schroeder. Cioè di un campo di paesi e di forze che – obbiettivamente – non si può considerare ininfluente ai fini di un governo condiviso dei grandi processi internazionali.

Gli eventi però – come è noto – hanno preso una piega diversa.

Ed oggi sono tre, in particolare, le questioni che la comunità internazionale – e la sinistra, in Europa e non solo – debbono affrontare: le cause che sono state all’origine del conflitto, le prospettive del dopoguerra in Irak, la possibilità di realizzare una governance effettiva della globalizzazione.

Sul primo punto – le cause di questa crisi – molto è già stato detto.

Personalmente sono tra quanti hanno guardato con attenzione alle ragioni che hanno motivato e sorretto l’azione militare anglo-americana.

Lotta al terrorismo, una maggiore sicurezza anche attraverso l’eliminazione di armi di distruzione di massa dalle mani di singoli dittatori, la prevenzione del pericolo che gruppi terroristici possano trovare il sostegno di regimi dispotici: si tratta di preoccupazioni serie, da non liquidare come giustificazione ideologica all’uso della forza.

Tutt’altro.

Si tratta di problemi reali con cui il mondo è chiamato a misurarsi.

Così come l’idea di un’espansione della democrazia e della tutela dei diritti umani non è priva di un ragionevole consenso anche in una parte significativa del mondo arabo, e certamente tra le sue élite più moderne e democratiche.

Il punto – anche alla luce degli eventi dell’ultimo mese – è quale sia la strategia giusta per affrontare e risolvere questi problemi.

La mia opinione è che la guerra – l’uso preventivo della forza militare – non può divenire, se non in condizioni di assoluta particolarità, lo strumento privilegiato dell’azione politica.

Non è cioè con la dottrina della guerra preventiva che si possono affrontare i capitoli della sicurezza globale, della lotta al terrorismo e dell’espansione della democrazia. Come, per altro, dimostra la stessa evoluzione della crisi irakena.

Questa guerra – merita ripeterlo – ha portato con sé non soltanto una rottura della legalità internazionale – recando un danno alla credibilità delle Nazioni Unite, dell’Unione europea e della Nato – ma, con ogni probabilità, è stata anche all’origine di un inasprimento dell’odio anti-occidentale.

Considero questo un aspetto rilevante, e destinato ad amplificarsi se gli Stati Uniti – adesso che la guerra contro Saddam è conclusa – dovessero insistere in una visione unilaterale del mondo che li spinge ad agire fuori dal consenso delle grandi democrazie occidentali.

La stessa paralisi dell’Onu, in questa vicenda, riflette una frattura di tipo nuovo.

Non siamo davanti alla vecchia contrapposizione – tipica della Guerra Fredda – tra Oriente e Occidente, ma ad una divisione tra Stati Uniti e Gran Bretagna da un lato, e Francia, Germania e altri paesi dall’altro.

La novità, dunque, è anche nel fatto che gli Stati Uniti hanno agito dentro una divisione dell’Occidente.

Si tratta – ripeto – di uno scenario originale, che non ha precedenti e che allude a un problema di fondo: come ripristinare le condizioni di una dialettica multilaterale anche nelle relazioni tra le grandi democrazie occidentali.

Ma i problemi, naturalmente, non riguardano solo noi; l’Europa e più in generale il mondo occidentale.

Al fondo, il problema vero è che la dottrina della guerra preventiva genera insicurezza, spinge verso una proliferazione delle armi proibite e della stessa dotazione nucleare.

Forse è stato messo troppo poco l’accento su questo rischio. Mentre non è casuale che negli stessi giorni della guerra, India e Pakistan abbiano sperimentato loro missili balistici. O che si sia diffusa la notizia secondo la quale l’Iran avrebbe affittato componenti per reattori nucleari.

Appare evidente che, in un mondo dove si spezza un quadro di legalità, la garanzia di indipendenza nazionale contro l’arbitrio della guerra preventiva può consistere proprio nell’avere a disposizione armi di distruzione di massa. In un’aperta contraddizione logica con lo spirito e le finalità della guerra condotta contro il regime di Baghdad.

Un’azione militare concepita per eliminare armi di sterminio – questo è il punto – rischia di spingere a una loro proliferazione. Con l’effetto di sottrarre ulteriori risorse allo sviluppo e alla lotta alla fame nei paesi poveri, e di puntellare invece quelle dittature che, da ora in avanti, vedranno proprio nel possesso di armi vietate, devastanti e sofisticate una garanzia in più per la loro sopravvivenza.

L’errore di fondo di questa guerra è dunque, paradossalmente, nel fatto che essa rischia di tradire le intenzioni, le motivazioni, per cui è stata promossa.

Da questo punto di vista, in discussione non è mai stata per la sinistra italiana ed europea la simpatia o una qualche forma di solidarietà verso il regime irakeno. La nostra contrarietà al conflitto nasceva esclusivamente dall’idea che un’azione militare condotta al di fuori di una cornice di legalità internazionale avrebbe finito coll’aggravare il quadro delle tensioni e dei problemi dell’area medio-orientale e delle sue popolazioni.

Oggi però – come abbiamo ricordato – la guerra in Irak è finita. Saddam è stato abbattuto, se non fisicamente, attraverso il crollo simbolico della sua effigie. E l’Irak si prepara a vivere una nuova stagione della propria storia.

L’attenzione, dunque, si sposta giustamente sul “dopo”.

Sul “dopo” Saddam, e sugli indirizzi che segneranno politicamente l’esito del conflitto.

La mia convinzione è che senza scelte lungimiranti – e i segnali da parte americana sotto questo profilo continuano a non essere incoraggianti – sarà molto difficile evitare una prolungata instabilità in un’area già percorsa da gravi e continue violenze.

La sfida, dunque, è quale pacificazione dopo un’azione militare condotta unilateralmente e che rischia di produrre in una parte del mondo arabo – e non soltanto nelle sue componenti fondamentaliste – una reazione dura e severa nei confronti dell’Occidente.

Qui – a questo livello – acquista valore il recupero immediato di un’iniziativa politica da parte dell’Unione Europea e dell’Onu.

A partire dal fatto che un’effettiva pacificazione sarà assai difficile se dovesse prevalere, nel futuro immediato dell’Irak, la logica di un governatorato militare americano. Diverso sarebbe lo scenario di un’amministrazione fiduciaria dotata di un esplicito mandato delle Nazioni Unite e in grado di coinvolgere da subito nella sua azione rappresentanze civili e religiose del popolo iracheno.

Sarebbe questa la scelta più saggia anche in relazione al tema fondamentale dell’espansione della democrazia in una regione caratterizzata dalla presenza di altri regimi autoritari.

Democrazia che – per una molteplicità di ragioni – non si può esportare con le armi e con la forza.

In primo luogo per la ragione banale che una democrazia così imposta rischia di frenare, anziché incentivare, processi democratici autentici all’interno del mondo islamico. A partire da quei tentativi che, faticosamente, si sono messi in moto.

E’ assai difficile immaginare che un governatorato militare americano ai confini dell’Iran aiuterà i riformisti di quel paese nella loro azione. E’ più probabile che una situazione del genere rafforzi, piuttosto, le componenti radicali che ostacolano le riforme in quel grande paese, incamminato verso una modernizzazione in senso democratico.

E d’altra parte è la vostra stessa esperienza – in anni recenti – che testimonia di questo. Della necessità di favorire un processo democratico nel rispetto dell’identità di una nazione, della sua storia e senza che si producano umiliazioni che rischiano di alimentare il fondamentalismo, indebolendo la democrazia.

Attenzione dunque, perché se si inasprisce lo scontro fra Occidente e Islam non avanza la democrazia nel mondo islamico. La democrazia può diventare il modo in cui a regimi autoritari si sostituiscono repubbliche fondamentaliste, con rischi per la sicurezza e la stabilità del Mediterraneo e del mondo intero.

La sfida che si apre ora, quindi, è di lungo periodo e non riguarda soltanto questa guerra ma una visione complessiva delle relazioni internazionali.

La sinistra non può che partecipare a questa prova, guardando alle ragioni che hanno ispirato una strategia errata degli Stati Uniti e dei loro alleati, ed elaborando una strategia diversa. In grado però – questo è il punto – di offrire una risposta convincente a quegli stessi interrogativi e problemi.

A partire dalle modalità della ricostruzione dell’Irak, dal peso delle Nazioni Unite in questa nuova fase e dal recupero pieno di un ruolo attivo dell’Europa.

Quest’ultimo aspetto, per molte ragioni, pare a me fondamentale.

In primo luogo perché un’Europa, o una sinistra europea, disinteressate al problema del terrorismo o dell’espansione della democrazia nel mondo arabo, e non solo, sarebbero destinate a rinchiudersi in una posizione di testimonianza ininfluente.

Inoltre, perché l’assenza dell’Europa dalla gestione politica del dopoguerra irakeno renderebbe, a mio parere, molto più complessa, se non impossibile, la soluzione del problema medio-orientale e della questione palestinese. Tema che considero il vero banco di prova nel rapporto con i sentimenti e le opinioni delle popolazioni arabe. Per molti aspetti assai più rilevante della stessa vicenda irachena dal momento che uno stato palestinese indipendente potrebbe rappresentare non soltanto la fine dell’alibi al quale si sono aggrappati per decenni i regimi autoritari del mondo arabo, ma anche un’importante esperienza democratica in quella regione.

Lasciatemi aggiungere che la stessa tragedia vissuta in questi anni dai palestinesi ne ha fatto uno dei popoli più avanzati, più aperti alle idee democratiche che provengono dall’Europa e dall’Occidente.

E poiché continuo a ritenere – e non solo a sperare – che la democrazia si espanda per contagio culturale e non attraverso le armi, credo che favorire la nascita di uno stato democratico in Palestina avrebbe ricadute importanti su tutto il mondo arabo. Oltre ad essere la soluzione che più di ogni altra garantirebbe la sicurezza di Israele.

Anche in questo caso, però, la vera discriminante è nel ritorno in campo della politica e di un’azione diplomatica multilaterale.

Nel senso che difficilmente questa pace ci sarà senza un forte, cogente, impegno della comunità internazionale. Da questo punto di vista, la stessa espressione “processo di pace”, andrebbe accantonata. Quella formula è carica di ambiguità perché riassume in sé la convivenza tra due popoli che non erano d’accordo su nessuna delle questioni cruciali di una possibile pacificazione.

Si è finito coll’invocare un “processo di pace” nella convinzione che quella pace fosse comunque impossibile da raggiungere. Cosicché tutto si riduceva – da una parte e dall’altra – alla ricerca di un vantaggio negoziale, senza però sciogliere i nodi veri del conflitto: i confini dello stato palestinese, lo status di Gerusalemme, la questione dei profughi, le garanzie per la sicurezza di Israele.

Oggi israeliani e palestinesi – col concorso determinante della comunità internazionale – debbono uscire da questo equivoco.

Il problema vero è scrivere la pace, renderla operativa. Passare dopo anni e anni di guerra diplomatica e militare a una pace vera, effettiva, concreta.

In questo processo c’è spazio per tutti e c’è bisogno di tutti.

C’è bisogno dell’Europa – di un’Europa che dopo le divisioni recenti sia in grado di ritrovare la strada di un progetto e di strategie comuni –, e c’è bisogno degli Stati Uniti, di quella grande potenza democratica che non possiamo in alcun modo considerare “perduta” a una visione multilaterale dei processi internazionali.

Senza queste condizioni – il ruolo dell’Europa, quello dell’Onu e il prevalere, anche negli Usa, di una strategia multipolare – nessuno degli obiettivi indicati – né la lotta al terrorismo, né l’espansione della democrazia, né la pacificazione del Medio Oriente – sarà raggiunto.

Saranno obiettivi invocati, questo sì.

E magari, di volta in volta, come è accaduto con l’Irak, perseguiti in una logica unilaterale.

Ma non faranno parte di un disegno organico, di un nuovo equilibrio nelle relazioni internazionali.

In altre parole, non ci consentiranno di venire a capo di una nuova governance globale.

Ecco perché dalla capacità di affrontare questi problemi, imprimendo una sterzata al corso degli eventi passa, io credo, lo snodo importante di una sfida che inevitabilmente sarà di lungo periodo.

Ed è questa anche la ragione che mi ha spinto a parlare di questa guerra come del momento “costituente” di un nuovo sistema di relazioni internazionali.

Non siamo alle prese con la riedizione, in circostanze storiche mutate, di dinamiche antiche. Non è con i termini classici – dell’imperialismo o dell’anti-imperialismo – che possiamo analizzare i processi che si sono avviati.

Né basta la logica del petrolio a giustificare la brusca accelerazione impressa agli eventi dall’attuale amministrazione americana e dai suoi alleati.

Siamo di fronte a qualcosa di nuovo.

La crisi che abbiamo appena vissuto non è uno dei tanti episodi che abbiamo conosciuto dopo l’89.

La novità con la quale siamo chiamati a misurarci nasce dalla crisi drammatica di una globalizzazione senza regole e senza politica. Dal venire meno della illusione che il dominio dei mercati e dell’economia ci avrebbe condotto nel migliore dei mondi possibili. Dal fatto che la comunità internazionale, e innanzitutto i paesi più forti, si misurano oggi con l’anarchia prodotta da questa globalizzazione senza regole, di cui il terrorismo è una forma estrema.

Il terrorismo – è stato scritto autorevolmente – è figlio della globalizzazione e della crisi dello stato nazionale. E’ una forma estrema di “privatizzazione della guerra”.

Cosa c’era, nel passato, di più riservato alla potestà statale se non la guerra?

Il terrorismo è, appunto, la privatizzazione della guerra. Ed è un pericolo contro il quale non valgono le forme tradizionali della deterrenza, poiché mette in crisi tutte le strategie di sicurezza che l’umanità ha conosciuto dopo la seconda guerra mondiale.

E’ stata questa crisi drammatica della globalizzazione – soprattutto dopo l’undici settembre e l’attacco alle Twin Towers – a spingere le classi dirigenti americane a pensare il mondo nella chiave di un nuovo bipolarismo.

In definitiva, la crisi del multilateralismo nasce da qui. Dall’idea che, esaurito il conflitto tra il comunismo e l’Occidente, oggi il mondo sia diviso tra il “bene” e il “male”. In una nuova crociata che non può e non sa più distinguere un preciso confine geografico.

L’unico confine possibile è un confine culturale, etnico, destinato a spostarsi, allargandosi o restringendosi in relazione alle politiche che l’Occidente – la parte ricca del mondo – sarà in grado di realizzare.

Ma l’Occidente deve agire con grande attenzione e cautela. Evitando di guardare a un mondo povero e non penetrato dai nostri valori, come ad un pericolo, quasi l’humus ideale di una minaccia permanente.

Non è questa via – questa contrapposizione – che può favorire una convivenza equilibrata. Non è la guerra – sia essa militare o culturale o semplicemente commerciale – che può risolvere il nodo politico di una golobalizzazione senza regole.

Fino a quando l’Europa e l’Occidente riterranno di essere depositari di una più elevata civiltà politica, e utilizzeranno a proprio esclusivo vantaggio condizioni di esportazione dei propri prodotti insieme al protezionismo dei propri mercati, non avrà seguito – né potrebbe averlo – un’idea di globalizzazione condivisa.

La verità è che i paesi più ricchi, dopo essersi enormemente avvantaggiati in una prima fase della liberalizzazione, oggi temono un effetto boomerang. E non vorrebbero che altri fruissero, dopo loro, degli stessi loro vantaggi e trattamenti.

La questione è molto delicata, ma decisiva.

Perché, paradossalmente, non è detto che dalla crisi della globalizzazione si esca in avanti, con un mondo migliore, dove prevalgono la libertà, il rispetto dei diritti umani, la democrazia, la tolleranza religiosa.

Da questa crisi si può anche uscire lungo la strada della guerra e del protezionismo. A quel punto con conseguenze drammatiche anche per il governo democratico della globalizzazione.

La guerra, insomma, diverrebbe un mezzo ordinario di difesa, di allargamento del perimetro dell’Occidente, di protezionismo per difendere il nostro livello di benessere.

Ma questa si rivelerebbe ben presto una strada sbagliata e fallimentare.

Ecco la ragione che spinge le nuove componenti del riformismo internazionale – penso al Brasile di Lula – a premere sull’Europa e sugli Stati Uniti affinché sposino una linea più coraggiosa sul terreno delle liberalizzazioni e dell’apertura dei loro mercati.

Esattamente l’opposto di un rifiuto della globalizzazione. L’idea invece che i valori della libertà e della democrazia – i valori ispiratori dell’Europa – possano combinarsi con la creazione di un sistema di regole globali nello sviluppo dell’economia, della crescita e di standard qualitativi di vita anche in aree del mondo finora escluse da qualsiasi serio processo redistributivo.

Quella che dovrebbe aprirsi, dunque, è una seconda epoca della globalizzazione, regolata, governata, in grado di prevenire i conflitti, ma anche di espandere le opportunità.

Qualcosa che può divenire l’obiettivo di un largo schieramento politico, di quella grande opinione pubblica globalizzata che rappresenta una novità positiva del nostro tempo.

E’ importante però che la sinistra non affronti questa sfida con la cultura e le categorie del passato. Se la destra americana vuole ricostruire il bipolarismo – che era la logica tipica di una scelta di campo – è giusto non cadere in questa trappola.

Anche perché sarebbe un errore grossolano, cedere all’idea di un conflitto tra l’Occidente e tutto ciò che Occidente non è.

Sarebbe questa la premessa di una vera guerra di civiltà. E nessuno – né in Occidente né altrove – può ragionevolmente auspicare un esito così disastroso.

La sinistra riformista – quella che io, al pari di altri, rappresento – è una parte dell’Occidente, dei suoi valori, e si batte non contro un’altra parte dell’Occidente, ma per un suo diverso modo di essere e di agire.

Dunque, nel momento in cui esprimiamo delle critiche verso l’operato dell’Amministrazione americana, non alberga in noi alcun sentimento anti-americano, o peggio anti-occidentale.

Insisto; il vero problema – anche per noi, per la sinistra europea – è quale altra strategia siamo in grado di indicare. Sapendo che, almeno fin qui, non abbiamo avuto un disegno politicamente credibile di espansione della democrazia, oltre i suoi confini storici.

Spesso, nell’epoca della Guerra Fredda, tanto gli Stati Uniti che l’Europa hanno valutato i regimi per l’utilità che poteva loro derivarne e non per il loro carattere democratico.

Questa doppia morale non ha più fondamento e soprattutto non può essere un criterio di regolazione dei rapporti internazionali.

Mentre per la sinistra – non solo in Europa – una strategia per la crescita della democrazia e per il rispetto dei diritti umani diviene un punto cruciale della sua nuova identità. Oltre a rappresentare la risposta di gran lunga più efficace sul piano etico al radicalismo ideologico della destra americana.

Insomma, noi dobbiamo sapere vedere che vi sono valori, come la democrazia e la libertà individuale, che hanno oggi un valore universale.

Espandere la democrazia, in questo senso, è una condizione del governo della globalizzazione. Ma pensare di espanderla per imporre un particolare modello di sviluppo, di consumi, non solo è inaccettabile ma è privo di qualsiasi realismo. Perché è del tutto evidente che la globalizzazione non può fondarsi sulla universalizzazione di quel modello ma, al contrario, lo mette in crisi anche all’interno dei paesi occidentali.

Una moderna cultura democratica – questo è il punto – deve saper distinguere nell’esperienza dell’Occidente ciò che va messo in discussione anche dentro le nostre società da ciò che, invece, ha un valore universale.

Penso, in questa seconda dimensione, al ruolo sociale e politico delle donne e al fatto che la questione femminile – al di là del solo processo elettorale – è oggi una cartina di tornasole della possibile convivenza tra Islam e democrazia. Per cui, è compito anche della sinistra europea farsi portabandiera dei diritti e delle libertà delle donne nel mondo musulmano. Sapendo che proprio su questo terreno sarà possibile erodere progressivamente la base di consenso del fondamentalismo.

La prova cui l’Europa è chiamata, dunque, nella fase delicata e difficile del dopoguerra irakeno è perseguire, con tenacia e coerenza, la via di un dialogo e di una collaborazione col mondo arabo attraverso politiche di cooperazione e sviluppo in grado di rafforzare e moltiplicare la rete dei nostri rapporti. Dal capitolo della programmazione bilaterale dei flussi d’immigrazione alla cooperazione nei settori strategici dello sviluppo economico, della formazione, dell’aggiornamento infrastrutturale di quei paesi.

Anche su queste basi dobbiamo ricostruire l’unità d’azione dell’Europa, a partire dal dialogo tra le forze della sinistra europea. In una relazione aperta con lo stesso Tony Blair e con il laburismo inglese, dopo una fase che ha visto emergere tra noi differenze profonde di giudizio e di strategia.

Sbaglieremmo dunque a proporre, dopo la crisi di questi ultimi mesi, l’immagine di un’Europa ristretta.

La sinistra ha bisogno di un’Europa più larga, in grado di essere soggetto politico e attore globale.

Ma per conseguire questo traguardo c’è bisogno di recuperare una coesione politica dell’Europa, un solido assetto delle sue istituzioni, una visione comune e condivisa del suo ruolo.

Com’è facilmente intuibile, in un contesto del genere il ruolo della cooperazione euro-mediterranea acquista un rilievo strategico.

E non solo sotto il profilo della collaborazione sul terreno dell’economia e dello sviluppo.

Ma nella volontà di riscoprire le radici di una comune civiltà. In una dimensione che va oltre la sola dimensione politica.

Il Mediterraneo d’altra parte – questo mare che ci collega e ci unisce – è stato la culla di processi storici che hanno modellato, certamente in forme diverse, l’identità dell’Europa e della cultura araba. Le grandi religione monoteiste, l’umanesimo e i suoi valori sono nati qui, dentro questo bacino.

C’è stato nell’antichità – quando l’Europa nella nozione che diamo noi a questo termine non esisteva ancora – un tempo nel quale i destini delle popolazioni della sponda Nord del Mediterraneo coincidevano, assai più di oggi, con i destini delle genti che abitavano la sponda Sud dello stesso mare.

Gli eventi storici hanno, da lì in avanti, divaricato le sorti di questi due mondi. Senza però che mai si interrompesse del tutto un legame di fondo, la percezione di una origine condivisa.

La cultura araba, in parte, è dentro di noi. Nella radice di alcune parole, nei segni dell’architettura e dell’arte.

L’Europa, naturalmente, è cambiata col passare dei secoli. Ha individuato una propria via nello sviluppo del suo sistema politico e delle proprie istituzioni. Dando vita a quella miscela virtuosa di libertà economiche, di libertà civili e di solidarietà che Ralf Dahrendorf ha descritto, qualche anno fa, come una magica “quadratura del cerchio” tra democrazia, sviluppo economico e coesione sociale.

Dobbiamo sapere che sono questi, non altri, i valori universali da trasmettere all’esterno, non certo l’obiettivo del controllo delle materie prime o una nuova colonizzazione economica che verrebbe giustamente respinta.

Mi auguro che l’Europa e l’Occidente si presentino al mondo, e non soltanto a quello arabo, con questo volto e che la forza di quei valori – i valori di libertà, di giustizia, di solidarietà – possa divenire un riferimento politico e culturale per milioni di persone tuttora oppresse da regimi autoritari e dispotici.

Mai come oggi, il futuro – il nostro avvenire comune – è nelle nostre mani.

Dobbiamo, insieme, cercare di essere all’altezza di questa sfida.

Vi ringrazio.

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