Discorso
9 maggio 2003

Iraq, torna centrale il ruolo dell'Europa

da Il Messaggero


Adesso che anche il presidente Bush ha pubblicamente sancito la fine della guerra è maturo il tempo di una riflessione sul futuro dell'Iraq e sulle conseguenze di quel conflitto. A partire dalle tensioni che accompagnano questa prima fase del dopoguerra. Si tratta di problemi — primo tra tutti, l'assetto politico e istituzionale del dopo Saddam — dai quali dipenderà, in larga misura, lo scenario futuro del Medio Oriente. Qualche segnale in questo senso c'è già. Dalle manifestazioni anti-americane di Bagdad ai primi germi di un conflitto etnico e religioso dalle conseguenze gravissime.

Ora, di fronte a una situazione del genere, quali responsabilità spettano all'Europa e all'Italia? Quali possibilità concrete vi sono di raccogliere l'appello di Tony Blair per una rapida ripresa dei negoziati tra il governo israeliano e la nuova leadership palestinese? Sono anche questi gli interrogativi che attraversano il mondo arabo e in particolare le componenti più illuminate di quelle classi dirigenti.
Ne ho avuto la riprova in due visite compiute di recente. La prima a Rabat, in Marocco, la seconda in Israele e a Ramallah dove, nonostante i recenti segnali di speranza, prosegue una irrefrenabile spirale di violenza che ancora negli ultimi giorni ha causato nuove vittime.

L'impressione è che vada crescendo nella comunità araba la percezione del dopoguerra iracheno come di un passaggio delicatissimo. Un varco storico che potrebbe condizionare nel medio e lungo periodo le relazioni tra "noi" e "loro", tra il disegno politico dell'Occidente e le prospettive della civiltà araba e delle sue leadership politiche e religiose. In altre parole, la guerra in Iraq viene letta da molti come lo spartiacque tra un prima e un dopo. Cosicché la domanda di fondo è quale logica è destinata a prevalere. Se la spinta verso una guerra di religione e di civiltà quale risultato non voluto dagli stessi teorici della guerra preventiva o, viceversa, il prevalere di un processo politico teso al rafforzamento delle istanze democratiche e delle componenti non fondamentaliste.

Lo scenario dell'Iraq, da questo punto di vista, non appare confortante. E' vero, la guerra è finita nel senso che sono cessati i bombardamenti e il vecchio regime si è dissolto. Ma ciò non acquieta l'insofferenza e l'animosità delle popolazioni locali nei confronti dei "liberatori", mentre rimangono tuttora indefinite le modalità e i tempi di una transizione dolce verso una futura autodeterminazione politica del paese. Per alcuni versi, anzi, le vere difficoltà cominciano adesso e investono la natura e la funzione di una presenza dell'Europa e degli Stati Uniti nelle delicate geografie medio-orientali. Chi è parso, più dell'Amministrazione Bush, avere coscienza del problema è stato Tony Blair il quale, non a caso, ha riproposto l'urgenza di uno sbocco per la questione palestinese, evidentemente consapevole dei rischi di un risentimento diffuso degli arabi verso la logica dei due pesi e delle due misure.

Anche per questo, mai come ora le condizioni per una pace giusta e "imposta" sembrano a portata di mano. Di una soluzione politica ha bisogno, in primo luogo, la nuova leadership palestinese. Ho incontrato Abu Mazen a Ramallah, il giorno successivo al varo del suo governo. E' un uomo esperto che ha dimostrato da subito un certo coraggio, ammettendo gli errori della sua parte e in particolare le conseguenze negative dell'ultima intifada armata. A lui, dunque, tocca ora avversare le spinte più oltranziste, contrastare ogni forma di terrorismo, e contemporaneamente accreditarsi sul piano internazionale come colui che potrà sottoscrivere e far rispettare un serio accordo di pace. Abbiamo parlato a lungo, pochi minuti dopo la consegna nelle sue mani della Road Map, il documento elaborato congiuntamente da Unione Europea, Stati Uniti, Russia e Nazioni Unite che definisce le tappe di un percorso di pace. Il concetto chiave per giungere ad un successo sta nel "parallelismo" degli impegni che l'una e l'altra parte devono rispettare.

C'è una corresponsabilità tra israeliani e palestinesi nella dinamica del conflitto che divide i due popoli impedendo, da decenni, la convivenza di due Stati, e dunque deve esservi un impegno bilanciato degli uni e degli altri per rimuovere gli ostacoli sulla strada della pace. Certo, è una sfida che da soli i palestinesi non possono pensare di vincere. Come non possono vincere da soli gli israeliani, i quali, per essere credibili, dovranno riconoscere l'impianto della Road Map, rinunciando — a differenza di quanto continua a fare Sharon — a trattare con la sola Amministrazione americana i contenuti di eventuali emendamenti.
Per le ragioni dette il nostro ruolo — il ruolo dell'Europa — in questa vicenda torna ad essere centrale. Forse decisivo. Negli anni passati, abbiamo dato prova — l'Italia e l'Europa, intendo — di quell'equilibrio sotto il profilo politico e di quell'affidabilità che altri protagonisti della scena mondiale non sono oggi in grado di garantire. E' un patrimonio prezioso, frutto di una lunga tradizione, di una politica estera e mediterranea da sempre improntata a una logica di autonomia delle nostre relazioni e di una sincera amicizia e collaborazione col mondo arabo. Ma proprio a questo livello cresce la preoccupazione per l'immagine internazionale dell'Italia alla vigilia del semestre di presidenza dell'Unione. In parte per lo strappo che il governo ha prodotto nel corso della crisi irachena, a partire dal tentativo di Berlusconi d'accreditarsi, oltre Atlantico, come nuovo alleato di punta. Manovra non solo priva d'effetti sul piano pratico ma che ha finito coll'aprire nel mondo arabo più sensibile alle nostre posizioni seri interrogativi sugli indirizzi della politica estera italiana e sul venir meno di una linea di continuità storica.

A tutto ciò vanno sommati gli atteggiamenti più recenti del presidente del Consiglio. Non entro nella polemica giudiziaria che riguarda l'onorevole Berlusconi e alcuni tra i suoi più stretti collaboratori.
Ma è impossibile non vedere quali danni stia producendo al paese un premier prigioniero delle sue vicende personali e processuali. Forse è difficile immaginare in questo senso una sterzata, o anche soltanto una correzione di rotta. Il problema però c'è. E, sinceramente, non pare una scelta saggia ignorarlo o fingere che non ci riguardi.

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