Intervista
5 giugno 2003

Ripensare la "Terza Via"

Intervista di "Liberazione"


dalema113_img.jpg
Le prospettive internazionali, nel "dopoguerra" e nella "guerra preventiva" come strategia permanente. L'Europa e il suo futuro. Il dialogo possibile e quello necessario tra l'Ulivo, tutto l'Ulivo, e Rifondazione comunista. Sono i temi principali di una lunga intervista che Massimo D'Alema ci ha gentilmente rilasciato, tra una pausa e l'altra di questa campagna elettorale. Nel suo ufficio della Fondazione Italianieuropei, nel pieno centro storico di Roma, il presidente della Quercia appare, se non ottimista, relativamente soddisfatto: l'opposizione, quantomeno, non è più nell'angolo, e si intravede la possibilità di avviare un percorso "vincente". Un dato emerso non soltanto, e forse neppure prevalentemente, dal pur positivo test elettorale del 25 e 26 maggio: se ha un pregio, il totus politicus, D'Alema è di ragionare quasi sempre in un quadro europeo, di non limitarsi alla provincia italiana". Qua e là, ormai ci sono - e bisogna prenderne atto - due sinistre: una più moderata, una radicale; una antagonista, una "riformista". «Queste due sinistre devono, prima di tutto, riconoscersi e reciprocamente rispettarsi, gettando alle ortiche tentazioni egemoniche o accuse di tradimento. Devono, poi, tenere aperto il dialogo, il confronto, anche nei momenti di più aspra divisione. Infine, non devono farsi del male. Se il sistema elettorale le costringe all'accordo, devono mettersi d'accordo: il come, certo, è da vedere e da costruire. Ma dalla necessità dell'accordo non si può prescindere». Ecco di seguito il testo dell'intervista.

Il "dopoguerra irakeno" - mentre da Washington vengono già le prime minacce della prossima guerra, all'Iran - non trova il mondo né pacificato né più stabile. Qual è la tua visione d'insieme?

C'è una grande mancanza di progetto e di slancio. C'è una crisi economica seria: le attese si son tutte rivelate infondate. L'unico spiraglio positivo viene forse dal Medio Oriente, dove la mediazione Usa spinge forse Israele verso una "pace giusta" (certo, le difficoltà sono evidenti, dopo una colonizzazione così marcata dei territori palestinesi). Nell'insieme le prospettive non sono, nient'affatto, di un nuovo rinascimento, o di qualcosa ad esso paragonabile. Il punto di fondo è che la guerra all'Iraq - e l'intera fase mondiale seguita all'11 settembre - sanciscono l'esaurirsi della globalizzazione, intesa come egemonia neoliberista e neoliberale, pensiero unico, e così via. Si è pensato, nientemeno, di eliminare la politica, affidando al mercato una funzione riordinatrice, appunto, globale: ma questa visione si è rivelata in tutta la sua fragilità. Il terrorismo, in questo senso, è la manifestazione estrema di un disordine internazionale drammatico.


Il vecchio von Clausewitz diceva che «la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi», e viceversa. Ti sembra un moto ancora attuale?

In realtà no, come già implicitamente dicevamo. Il "bisogno di politica" è stato riempito dagli americani con la guerra, che, a sua volta, è divenuta la manifestazione più evidente della fine del ciclo neoliberale. In questo senso, la guerra tende non ad essere il proseguimento del conflitto politico, ma la sua secca sostituzione. Insomma: si è pensato che la globalizzazione avrebbe risolto il problema della crescita e omogeneizzato il mondo sulla base del modello di civiltà nordamericano. Invece, essa ha prodotto fratture, crisi ricorrenti, scontri di civiltà, mentre parallelamente, sul terreno economico, la crescita della finanziarizzazione ha determinato diseguaglianze enormi. La guerra esprime questa crisi, questa incapacità di governare lo sviluppo.


Ma siamo o no in presenza di un dominio Usa nel mondo, di un vero e proprio dominio imperiale? Anche il nodo così drammatico del medio Oriente sembra avere questo segno: la mediazione non è americana, è del presidente Bush in persona...

Questo è un fatto importante e, ripeto, tendenzialmente positivo: Bush ha bisogno di recuperare un consenso nel mondo arabo, per questo gioca fino in fondo le sue carte. Il risultato finale dovrebbe - potrebbe - essere quello di una significativa svolta di pace. Detto tutto questo, non mi pare che il governo americano del pianeta abbia successo: l'unilateralismo di Washington non ce la fa a stabilizzare le zone di crisi e a imporre davvero il proprio modello. In realtà, così come dal punto di vista economico mai come oggi il mondo ha bisogno di un New Deal keynesiano, dal punto di vista politico l'unica risposta possibile al caos attuale è il multilateralismo. Banco di prova della sinistra, sarà, in questo senso, la costruzione dell'Europa.


Tu pensi allora che la "guerra preventiva" abbia subito uno smacco, con il conflitto di aggressione all'Iraq? O che sia stata, addirittura, una parentesi?

Senza dubbio, quest'ultimo conflitto ha dato un colpo alla opzione strategica della guerra preventiva, alla guerra come strategia ordinaria. Non è una parentesi che si può archiviare, ma una fase, una tendenza della storia recente che si può adesso cercar di superare...


Con quali strumenti?

Prima di tutto, con il rilancio di solide istituzioni internazionali. Noi abbiamo vissuto un fenomeno molto intenso: la nascita e la crescita di un'opinione pubblica internazionale schierata contro la guerra, in dimensioni straordinarie. Voglio dire: centodieci milioni di persone che manifestano nella stessa giornata a a favore della pace costituiscono un fatto che va al di là dei movimenti organizzati, del nucleo di movimenti pacifisti e no global che ha svolto un ruolo propulsivo e attivo. Da una parte, c'era la potenza degli Usa; dall'altra, questa opinione mondiale, con le sue mobilitazioni e i suoi movimenti. E tuttavia questi ultimi non sono riusciti ad incidere: perché? Perché, appunto, sono mancati gli strumenti istituzionali - e perfino quella vischiosità istituzionale, cinghia di trasmissione tra società civile e politica, senza la quale non si vince. Questo è il nostro vero, grande problema.


Ma, proprio nel caso delle guerra all'Iraq, questi momenti istituzionali ci sono stati: molti Governi si sono opposti, l'Onu non ha dato il suo placet...

Sulla guerra sarebbe forse stata determinante un'Europa politica unita e capace di decidere. All'opposto, finché essa si presenta divisa, gli Stati uniti hanno buon gioco per imporre la loro visione. Come dice Prodi, è evidente che fino a che sarà puro coordinamento di Stati nazionali, ciascuno dei quali geloso soprattutto della propria sovranità, l'Europa non avrà alcun peso, soprattutto nei confronti degli Stati uniti. Bisogna superare una concezione arcaica, ottocentesca, inadeguata, anche a sinistra. Le conquiste sociali, sulle quali si regge il nostro modello continentale, sono del resto esposte a un forte dumping sociale, con l'immigrazione dal terzo e quarto mondo sempre più massiccia. Si può rispondere, come propone una parte dell'imprenditoria, con un secco abbassamento generale dei diritti e del costo del lavoro. Oppure con una classica ricetta di tipo protezionistico - che andrebbe però a detrimento dello sviluppo dei paesi più poveri. Io penso che la risposta più efficace sia una globalizzazione dei diritti, che espanda uno standard dei "minimi" fuori ed oltre le vecchie rigidità. Sarebbe anche un contributo alla crescita della democrazia. Che penso sia da rilanciare, diffondere, e anche esportare.


Democrazia, però, è un concetto tanto affascinante quanto generico. Non ti pare che ci sia una crisi di fondo della politica - e quindi della democrazia - tanto negli Usa quanto in Europa? Negli Usa, il presidente è eletto da meno di un quarto della popolazione, quello più ricco. In Europa, non ci sono più i partiti di massa e c'è sempre meno partecipazione. Che cosa ha da insegnare - o da esportare - l'occidente?

Quando dico democrazia, intendo cose elementari: che per esempio è positivo che in Iraq ci siano libertà di stampa e di opinione, e si finisca di perseguitare gli sciiti o i kurdi. Oppure, penso a un paese che per altro apprezzo molto, come la Cina: ma mi fa impressione che, a tutt'oggi, ci siano 500 giovani in carcere per i fatti di Tien An Men... Certo, nei paesi più ricchi c'è una crisi della democrazia che ha molte radici: lo svuotamento delle istituzioni nazionali, ormai ridotte a poteri più formali che reali, l'aumento delle diseguaglianze sociali, la crescita smisurata del potere mediatico, che è lo specchio di un rischio di degenerazione oligarchica e populista. Ma, appunto, la democrazia circoscritta nei confini del mondo più sviluppato è destinata a deperire: perciò è essenziale espanderla nel mondo, ad miliardi di persone che oggi ne sono fuori. Perciò a me pare evidente che l'unica risposta credibile sia di carattere globale. Gli Usa sono forti anche perché sono convinti di essere gli attori di una missione universale. Ecco, dobbiamo costruire il progetto di una missione europea, incentrata sulla valorizzazione di un modello che rappresenta l'equilibrio più alto, storicamente raggiunto, tra libertà e solidarietà.


Questa tua (provvisoria) conclusione ci consente di passare alla provincia italiana, e alle ipotesi del così chiamato "riformismo"...

Avviare un nuovo ciclo della sinistra italiana ed europea, che ci consenta di capire e superare gli insuccessi della fase precedente: questo, secondo me, è oggi il progetto necessario. Negli anni 90 abbiamo governato, in realtà, senza una visione politica ed ideale adeguata: rivendico tutto il valore delle pratiche di risanamento dei bilanci (anche dal punto di vista dei salari e dei risparmi), ma non c'è dubbio che non abbiamo avuto una vera nostra egemonia politico-culturale, che il monetarismo e il liberalismo sono stati trionfanti. Anche il dibattito sulla "terza via" ha sofferto il limite di essere tutto interno al mondo sviluppato e di rimanere in fondo estraneo ai problemi della globalizzazione, e del Sud del mondo...


... ma il vostro riferimento, alla fin fine, non era il New Labour di Tony Blair?

Si deve riconoscere a Tony Blair il merito di aver spinto con coraggio per un rinnovamento della vecchia cultura statalista del Labour e di aver gettato un ponte tra il socialismo europeo e i democratici americani. Certo non ho condiviso le sue scelte sulla guerra in Iraq, ma anche nel Labour inglese si è inserita una nuova significativa dialettica. Anche loro discutono, hanno discusso sulla guerra - e Robin Cook non è certo una figura marginale. Anche lì, insomma, c'è una situazione aperta.


E l'Ulivo?

L'Ulivo deve preparare il suo ritorno al governo con collegamenti mondiali (da Lula al mondo arabo) e sulla base di un progetto di sviluppo. La destra ha fallito tanto sul piano politico che su quello culturale: la deregulation, i condoni, l'abbassamento continuo della "soglia di legalità" non hanno rimesso l'economia in movimento. L'avvento dell'euro, e i processi di globalizzazione, hanno tagliato in radice questa possibilità. Dunque, tocca a noi: siamo capaci di offrire al paese un nuovo, solido, forte piano di sviluppo? Io credo che questo dobbiamo fare. I terreni di intervento sono evidenti: ricerca, formazione, cultura. Mezzogiorno, che potrebbe crescere a un ritmo doppio rispetto al resto d'Europa. Occupazione femminile. Innovazione. Quanto agli strumenti, servono politiche di nuovo intervento pubblico (penso soprattutto di tipo regolativo, senza le quali evidentemente non si attiva alcuna risorsa.


Dulcis in fundo: l'Ulivo e Rifondazione comunista

I punti, mi pare, sono tre. Il primo è il riconoscimento e il rispetto reciproco: in ogni paese d'Europa, dunque anche in Italia, c'è una sinistra radicale e c'è un'anima riformista. Penso che bisogna prenderne atto, senza recriminazioni o reciproche accuse di tradimento. Secondo, il dialogo va mantenuto anche nei momenti di maggiore divisione politica. Terzo, è essenziale non farsi del male.... Evitare di farsi del male può sembrare un programma riduttivo: invece è in sé e per sé un fatto enorme. Sarebbe bene evitare ogni forzatura e dar prova del massimo di saggezza. Proviamo a rovesciare il discorso rispetto ad un approccio tradizionale. Il punto di partenza è che per battere la destra dobbiamo trovare un accordo. Poi vedremo quale accordo è possibile. Tale che non snaturi Rifondazione e il suo programma e che non offuschi il profilo riformista e "di governo" delle proposte dell'Ulivo. L'importante è che si tratti di un accordo chiaro, di un patto con i cittadini preciso nei contenuti (le cose da fare) e nei suoi impegni (la stabilità e la continuità di governo). Abbiamo pagato un prezzo alto alla mancanza di chiarezza nel passato. Un patto di questo genere per funzionare deve essere discusso fra Ulivo e Rifondazione comunista a meno che Rifondazione non pensi di entrare nell'Ulivo. La dissoluzione del soggetto politico di centrosinistra, cioè dell'Ulivo, non ci farebbe fare un solo passo in avanti. Al contrario indebolirebbe il bipolarismo. Ormai è noto, sono sempre di più un "ulivista" convinto...


Alla fine di questa lunga chiacchierata, abbiamo dibattuto a lungo sul referendum, trovandoci in franco disaccordo. Comunque, alla domanda se il 15 giugno andrà a votare, il presidente Ds ha risposto che egli, come d'abitudine, rispetterà le indicazioni del suo partito.

Liberazione, Rina Gagliardi

stampa