Discorso
28 giugno 2003

Séminaire d’A GAUCHE, EN EUROPE<br>Table ronde sur « L’Europe après la guerre : le droit contre la puissance ? »

Intervento di Massimo D'Alema


Versione francese

Cari amici,
ho visitato alcuni giorni fa con una delegazione dell’Internazionale Socialista l’Iraq, un paese piegato che reca i segni visibili della guerra, sconvolto dalla disperazione, dalla guerriglia armata. Un paese nel quale l’esercito liberatore rischia sempre più di apparire, anche agli occhi dei tanti iracheni contenti per la fine della dittatura feroce di Saddam Hussein, come un esercito occupante.

Abbiamo incontrato i rappresentanti dei gruppi politici e religiosi che animano la vita politica finalmente libera dalla oppressione. Mi hanno colpito le parole di uno di questi nuovi leader: “Noi siamo grati agli americani perché ci hanno liberato da Saddam Hussein. Ma i problemi cominciano ora: costruire una nazione, costruire la democrazia è cosa ben diversa e più difficile che sconfiggere militarmente un dittatore. Non ce la faremo solo con gli americani; per questi compiti abbiamo bisogno dell’Europa”.

“Abbiamo bisogno dell’Europa”: sono le spesse parole che a novembre dell’anno scorso mi disse a Sao Paulo il presidente eletto del Brasile, Lula da Silva, alla vigilia del suo insediamento.

Alcuni anni fa a Pechino mi fu chiesto di tenere una conferenza sulle conseguenze dell’avvento dell’Euro sugli equilibri finanziari e politici mondiali. Ricordo l’enorme curiosità, la simpatia, l’attesa di una foltissima platea. Anche lì si avvertiva il bisogno dell’Europa.

La presenza dell’Europa, in quanto tale, la forza e l’unità dell’Europa sono considerate, in ogni parte del mondo, come la condizione di un equilibrio globale più aperto, fondato sul multilateralismo, rispettoso delle esigenze di continenti, nazioni e popoli emergenti, non affidato alla potenza e all’arbitrio di un unico impero mondiale.

Mai come in questo momento è apparso enorme il divario fra il ruolo che l’Europa potrebbe svolgere nel mondo e la capacità politica delle classi dirigenti del vecchio continente di dare una risposta adeguata a questa potenzialità. Sembra persino mancare la consapevolezza e l’ambizione in tal senso, mentre ritornano calcoli meschini di natura nazionalistica che finiscono per dividere l’Europa e svilirne la funzione.

L’idea di un’Europa unita, di un’Europa potente, in grado di esercitare il ruolo di attore globale sulla scena internazionale deve diventare un grande e unificante obiettivo della sinistra europea, dei socialisti e dell’insieme delle forze democratiche e progressiste del nostro continente. La stessa drammatica crisi irachena ci ha mostrato da un lato le divisioni dei governi, ma dall’altro il venire in campo di un’opinione pubblica europea unita nella sua contrarietà all’uso unilaterale e preventivo della forza. A quella opinione pubblica occorre dare una guida politica forte e consapevole.

Circa un anno fa ho trascorso un periodo negli Stati Uniti, in particolare in California, per tenere delle conferenze e incontrare esponenti del mondo della cultura e della politica. E’ difficile immaginare nel mondo una società multietnica più aperta di quella californiana e un individualismo così diffuso e geloso delle libertà di ciascuno. Eppure colpisce come i messicani, gli asiatici, i neri e i bianchi che vivono laggiù siano uniti da un profondo e radicato sentimento nazionale , dall’orgoglio di essere americani esibito in forme – come quella di esporre la bandiera nazionale alle finestre di casa propria – che apparirebbero ridicole per un cittadino italiano e azzardate persino per un francese che, certo più di noi, è stato educato ai valori della grandeur de la France.

Credo che dobbiamo chiederci dove ha origine un sentimento nazionale così forte, tale da unire un popolo che non ha né radici né terra né sangue né storia comuni. Io penso che questa unità sia data dall’idea della missione americana nel mondo, dall’adesione a uno stile di vita, a un insieme di valori, a partire dalle libertà individuali e dal libero mercato, che vengono considerati come un modello universale. E infine dall’orgoglio per la potenza americana e per la forza che quel grande paese è in grado di sprigionare.

Potrà mai esistere un’Europa unita senza che a fondamento di tale unità politica vi sia un paragonabile orgoglio dell’ “essere europei”, una consapevolezza della qualità di quella European way of life che i teorici della nuova destra americana considerano con disprezzo come un segno di decadenza e che invece rappresenta l’esperienza più avanzata di un equilibrio fra libertà e solidarietà, tra individualismo e democrazia quale condizione per una società armoniosa e capace di garantire a tutti le maggiori possibilità di godere pienamente della propria esistenza?

Nel corso degli ultimi decenni questo modello europeo - che affonda le sue radici nel confronto e nel dialogo fra le correnti liberali, socialiste e cristiane - si è arricchito di una nuova consapevolezza ambientalista e delle novità culturali che sono venute dal moto di liberazione delle donne e dai movimenti giovanili che hanno criticato le forme della globalizzazione. Insomma l’idea europea di un primato del diritto sulla forza, di un primato della persona, della cultura e della qualità della vita sul mercato e sull’economia è più avanzata e moderna della cultura che anima il neoconservatorismo americano e deve stare a fondamento di quel riconoscerci come europei che è la condizione per edificare istituzioni più solide e un processo di integrazione politica che non appaia come costruzione artificiosa e burocratica.

Per lungo tempo i socialisti e la sinistra non si sono identificati con l’unità dell’Europa. Abbiamo al contrario guardato al processo di integrazione come ad una sgradevole necessità, preoccupati che l’Europa unita potesse mettere in discussione quelle prerogative degli stati nazionali a cui noi abbiamo considerato strettamente legate le conquiste sociali e democratiche che hanno segnato il secolo del socialismo democratico. Questo è stato un drammatico ritardo.

Se penso al decennio trascorso e alla straordinaria opportunità che fu rappresentata dalla presenza contemporanea della sinistra nel governo di quasi tutti i paesi dell’Unione non posso che considerare quella come una grande occasione perduta perché avremmo dovuto essere noi ad affrontare in modo risoluto e coraggioso il nodo dell’unità politica dell’Europa, tanto più mentre si compivano le difficili scelte sociali necessarie per la creazione della moneta unica. Forse anche per questo, a causa di questo nostro ritardo, hanno ripreso forza posizioni conservatrici, paure e chiusure nazionalistiche che hanno favorito una sconfitta della sinistra in diversi paesi europei.

Se oggi vogliamo progettare insieme un nuovo ciclo politico della sinistra in Europa, questo non può che avere al centro l’obiettivo comune di un’Europa politica unita, potente, perno e condizione di un nuovo sistema di relazioni internazionali multilaterali . Il che comporta scelte coerenti sul terreno del funzionamento delle istituzioni, dei meccanismi di decisione e di voto e sul piano delle decisioni in materia di politica di sviluppo, di politica estera e della difesa. Altrimenti non resta che rassegnarsi a un declino che, al massimo, lascerà all’Europa il ruolo di consigliere intelligente del presidente di turno degli Stati Uniti d’America, nella speranza di essere ascoltati. Come può accadere quando c’è un presidente aperto e lungimirante come Bill Clinton e come sembra essere assai difficile invece oggi, anche per il nostro amico Tony Blair.

Non penso che un’Europa unita e potente debba necessariamente essere antiamericana. Penso, anzi, che l’unilateralismo è contro gli interessi stessi degli Stati Uniti d’America, un grande paese democratico che non ha, anche per ragioni storiche, una vocazione coloniale, un paese che più ragionevolmente potrebbe affidare la sua influenza nel mondo al soft power della sua straordinaria industria culturale, delle sue università, dei suoi centri di ricerca scientifica anziché sobbarcarsi il rischioso e oneroso compito di gendarme universale. La debolezza dell’Europa non incoraggia quei circoli democratici, quella parte dell’opinione pubblica americana che apertamente contrasta lo spirito di crociata neoconservatore dell’amministrazione Bush.

L’Europa alla quale penso non è l’Europa pigra e bottegaia che chiude gli occhi di fronte alla violazione dei diritti umani, alla tragedia delle dittature, alle minacce del terrorismo. Un’Europa così darebbe ragione al professor Kagan e ai suoi colleghi, teste d’uovo della nuova destra americana. Bisogna riconoscere che senza l’impulso americano l’Europa non avrebbe avuto la forza e la coesione per agire nei Balcani. Come pure, io che certo resto contrario alla guerra preventiva in Iraq, devo riconoscere che non è stato facile rispondere a chi, raccontando gli orrori della dittatura di Saddam Hussein, mi ha chiesto: “E voi europei che cosa avete fatto per aiutarci a liberarci da tutto questo?”.

L’espansione della democrazia, la lotta al terrorismo e la difesa dei diritti umani sono obiettivi di straordinario valore e non perdono significato solo perché la guerra preventiva ci appare come un mezzo non legittimo e non efficace per perseguirli. Spetta alla comunità internazionale, e all’Europa con essa, trovare le risposte e le soluzioni adeguate, non alzare le spalle e negare l’esistenza del problema. Tra queste risposte non si può escludere in linea di principio l’uso della forza. L’Europa che vuole la pace non può essere ideologicamente pacifista o disarmata. Ma l’uso della forza deve essere ragionevole, commisurato al pericolo che si ha di fronte, e soprattutto regolato sulla base di una concezione condivisa della legalità internazionale.

Il nostro multilateralismo non consiste soltanto in una partnership più equilibrata tra Stati Uniti e Europa perché nel mondo vi sono altri decisivi protagonisti e perché l’idea di un mondo dominato dall’”asse del bene” euroamericano finirebbe per gettare le basi di un nuovo conflitto Nord-Sud, assai più devastante e pericoloso del bipolarismo Est-Ovest che ha bloccato le relazioni internazionali nel lungo dopoguerra.

Ecco perché l’Europa unita e potente alla quale penso deve innanzitutto proporsi di rivitalizzare e rafforzare la rete delle istituzioni internazionali a cominciare dall’Organizzazione delle Nazioni Unite. La verità è che non può esservi governo politico della globalizzazione senza istituzioni globali autorevoli e rispettate.

Questa indicazione potrebbe sembrare, se paragonata alle difficoltà di oggi, agli esiti, tutto sommato modesti, della Convenzione europea e alla prospettiva di una conferenza intergovernativa che si apre – ahimè – sotto la presidenza di Silvio Berlusconi, come il sogno di un utopista. Eppure vi sono momenti in cui l’urgenza delle cose, l’accelerazione dei processi concreti può aiutare la politica a fare un salto di qualità.

Credo che dovremmo cominciare da noi stessi, dallo sforzo per dare finalmente vita a una formazione politica del socialismo europeo degna di questo nome. E’ un po’ curioso che ci battiamo per le istituzioni europee dove si vota a maggioranza quando noi in una sede di partito non saremmo in grado di farlo su nulla. E’ un po’ curioso che ci battiamo per un’Europa federale e non soltanto intergovernativa quando noi non siamo riusciti a creare nulla più di un Forum nel quale ogni tanto si incontrano i leader dei partiti.

La prospettiva delle prossime elezioni europee deve e può essere l’occasione per un salto di qualità, non solo sul piano dei programmi ma anche sul terreno delle scelte politiche e delle candidature. Si potrebbe persino – perché no? – pensare che in ogni paese – messi da parte i simboli dei partiti nazionali – ci presentiamo tutti sotto il simbolo del partito dei socialisti europei che avrebbe – ne sono convinto – una grande forza di attrazione e un grande significato di unità. Non è questa la sede delle decisioni politiche, ma è importante che nella riflessione culturale che si intreccia fra di noi vengano gettati sul terreno nuovi semi. Se sapremo coltivarli con attenzione, poi verrà il tempo di un nuovo raccolto.

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