Discorso
28 giugno 2003

Un governo per l'Iraq

da Il Messaggero


La verità, drammatica, è che in Iraq si continua a morire. Tre soldati americani uccisi l’altroieri in due agguati distinti, altri due scomparsi dal posto di blocco che presidiavano a nord della capitale. Il tutto a poche ora dalla morte dei sei sodati britannici caduti a Majar al-Kabir, nella zona di Bassora. Area controllata dagli sciiti e, in quanto tale, ritenuta meno esposta ai rischi della guerriglia. E’ un bollettino impressionante, con ogni probabilità destinato ad allungarsi ancora. Ma è soprattutto il segno della grandissima incertezza che grava sul paese dopo la fine della guerra, il crollo della dittatura e l’avvio di una tormentata transizione sotto l’occupazione angloamericana. Mi sono recato in Irak una decina di giorni fa insieme a una delegazione dell’Internazionale Socialista, su invito del comitato che riunisce i partiti della ex opposizione al regime. Si trattava della prima missione politica dopo la fine della guerra e, in questo senso, l’essere giunti a Baghdad non in qualità di ospiti della coalizione anglo-americana, ma su invito diretto delle forze politiche irakene, ha consentito una maggiore franchezza degli scambi non solo con i nostri amici dell’Upk (l’Unione patriottica del Kurdistan), veri promotori del viaggio, ma più in generale con i rappresentanti di decine di movimenti politici locali.
Baghdad appare oggi per quello che è, o che ne è rimasto. Una grande città di oltre quattro milioni di abitanti, segnata fisicamente dai bombardamenti e che non riesce a recuperare una condizione di normalità. Una metropoli prigioniera del suo equilibrio precario, dove saltuariamente si continua a sparare, priva di scorte sufficienti e con strade ingombre di macerie, detriti, tonnellate di immondizia. L’incertezza, la paura di quel che verrà dopo, nasce anche da questo. Dallo scarto tra le attese per una liberazione lungamente attesa e la realtà di un dopoguerra che pare sottrarre speranze anziché alimentarle. La conseguenza è che un po’ dovunque cresce l’impressione di una coalizione vittoriosa sul piano militare ma priva di un progetto chiaro per il futuro del paese. La sensazione, insomma, che si proceda a vista, in una logica di contenimento e repressione delle residue sacche di resistenza, ma col rischio concreto per le truppe occupanti di impantanarsi in una situazione complicatissima e destinata, col tempo, a rendere diffidenti e ostili quegli stessi irakeni che pure, tre mesi fa, avevano salutato l’arrivo dei tanks americani come l’annuncio della svolta. In una cornice del genere sarebbe sbagliato per chi, come noi, ha giudicato quella guerra un errore, sottovalutare l’impatto positivo della fine della dittatura, magari delegando ai soli Bush e Blair la soluzione dei problemi aperti. Piaccia o meno, le sorti dell’Iraq rappresentano adesso, al pari di prima, una grande questione internazionale, a partire dal peso che avrà sull’intera area circostante l’avvento o meno di un sistema democratico, nel rispetto pieno di quei diritti umani finora sistematicamente e brutalmente violati. Ma proprio per tali ragioni, è importante capire – ed era questo, del resto, lo spirito della nostra visita – che cosa si può e si deve fare da subito, e soprattutto in quale direzione dovrebbero muoversi le autorità provvisorie americane e britanniche che sono oggi alla guida del paese.
La mia impressione, anche alla luce dell’esperienza fatta, è che una pacificazione effettiva passi oggi innanzitutto dall’accelerazione del processo democratico promesso alla vigilia dell’azione militare. Il che vuol dire una cosa soltanto: creare al più presto un governo provvisorio irakeno, una sorta di CLN rappresentativo delle forze politiche reali del paese e messo nella condizione di operare da subito in piena collaborazione con le autorità alleate. Considero questo l’obiettivo prioritario sul quale concentrare l’attenzione. Per molte ragioni, prima tra tutte la possibilità di riattivare in questo modo il funzionamento dell’amministrazione, almeno nelle sue articolazioni essenziali a partire dal capitolo della sicurezza interna. Da questo punto di vista, non è a lungo sostenibile una condizione nella quale non solo il controllo del territorio resti affidato esclusivamente alle truppe d’occupazione, con tutti i limiti e i pericoli che questo comporta, ma centinaia di migliaia di poliziotti e militari risultino spogliati di ogni titolo e funzione, con l’effetto di alimentare un clima di sconcerto e disperazione. Il punto è che per evitare una disgregazione assoluta del tessuto civile, evitando di alimentare nuove forme di terrorismo, è necessario distinguere tra la responsabilità di chi, negli anni del terrore, si è macchiato di crimini orrendi e quanti sono stati coinvolti – penso alle centinaia di migliaia di iscritti al partito Baath o ai membri dell’esercito e delle forze di sicurezza – in una strategia di consenso e sostegno al regime stesso. Legato a questa prima condizione c’è il bisogno di un più forte intervento delle Nazioni Unite, anzitutto sul versante dell’emergenza umanitaria, alimentare e sociale che il paese attraversa. E’ stato un grave errore emarginare l’Onu alla vigilia della guerra. Tanto più incomprensibile sarebbe rinunciare ora al ruolo prezioso che esso può tornare ad esercitare, rinnovando la centralità di quella che resta, a tutti gli effetti, la più autorevole delle istituzioni sovranazionali esistenti. Infine, è necessario avviare da subito la preparazione di una nuova costituzione irakena, premessa di libere elezioni e pieno autogoverno del Paese.
Di tutto questo dovrà occuparsi e discutere la conferenza sul futuro dell’Iraq che l’Internazionale Socialista promuove a Roma il prossimo 18 e 19 luglio. E’ un appuntamento difficile al quale stiamo lavorando con passione e che – se non interverranno impedimenti seri – speriamo possa contribuire in modo significativo a indicare una rotta e un nuovo disegno politico e istituzionale.

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